Nel sistema dell’arte contemporanea, l’opera non solo si dissolve: viene lentamente disinnescata, svuotata, derubata del suo statuto ontologico. Quello che resta, quello che galleggia in superficie come un relitto dorato, è la firma. La firma come garanzia, come feticcio, come marchio commerciale. È la firma che stabilisce il valore, non più l’intensità o la portata dell’opera. Il brand è l’opera: un nome, un’identità aziendale, un asset da proteggere e promuovere. Il pacchetto è completo, impacchettato in storytelling accattivante, pronto per il mercato globale dell’estetica fluida. Dietro la vetrina, il gesto creativo—quella crisi, quella vertigine che una volta segnava la nascita di un’immagine nuova—è trattato alla stregua di un anacronismo. La fatica della ricerca è ridotta a backstage da mostrare su Instagram, e la visione si vende solo se ha le sembianze di una provocazione addomesticata.
Conta, oggi, il posizionamento. È questione di branding e target. Di saper vendere un’identità visiva coerente, replicabile, riconoscibile. Come nelle passerelle dell’alta moda, ciò che viene premiato non è la stoffa ma la silhouette; non il corpo, ma la patina. Vince chi sa incarnare una differenza già tradotta in linguaggio di mercato. Essere trasgressivi, ma in modo gestibile. Scandalosi, ma prevedibili. Ribelli, ma dentro una griglia. Il sistema assimila tutto, anche la critica. Nulla è più pericoloso, perché nulla è più libero. Il trucco è far sembrare radicale ciò che è già stato sterilizzato. Lo choc non deve inquietare, deve vendere.
Il sistema dell’arte, in questo scenario, è un teatro a cinque stelle. Un’architettura di prestigio in cui si muovono attori sofisticati e perfettamente allineati: gallerie blasonate che operano come boutique di lusso; fondazioni opache che fungono da hub per capitali privati e detrazioni fiscali; curatori superstar con agende globali e influencer-style; mercanti à la page capaci di intercettare ogni tendenza con il fiuto di un algoritmico predatore. Tutti recitano, con straordinaria professionalità, la commedia dell’innovazione, dell’audacia, della provocazione visiva. Ma dietro le quinte si muovono altre trame: quelle del profitto, del capitale simbolico, della speculazione. L’opera? È un pretesto. L’artista? Un testimonial. L’arte? Un derivato finanziario, un investimento con ROI.
La Biennale? Più simile a un salone dell’auto che a un laboratorio creativo. Le fiere, delle passerelle affollate dove si sfila per essere comprati. Le residenze diventano strumenti per costruire biografie seducenti, percorsi da CV, contenuti per portfolio. E i musei? Sempre più showroom, dispositivi scenografici per la narrazione dell’arte come esperienza. La pittura ritorna, certo, ma solo se ha il formato instagrammabile di un fondale fotografico; la performance si giustifica se resta documentabile, montabile, vendibile in formato video; l’installazione vale se immersiva, fotogenica, taggabile. L’estetica della condivisione detta legge.
La critica si è dissolta nel comunicato stampa, ha assunto i toni dello storytelling aziendale, si è piegata alla caption curata con parole-chiave. Scrive per piacere all’algoritmo. Le scuole d’arte non formano più artisti, ma content creator: soggetti addestrati a pensare l’arte come contenuto, la ricerca come format, la visione come engagement. I margini non esistono più: sono diventati quote di mercato.
E chi resta fuori? Chi non si presta alla macchina della visibilità? Chi lavora nell’oscurità, chi resta incompiuto, chi abita il dubbio e l’errore come parte integrante del processo? Chi rifiuta la legittimazione istituzionale? Chi produce in silenzio, senza un comitato curatoriale a validare ogni passo? Chi ancora crede che l’arte sia un’urgenza espressiva, una necessità etica, e non un mestiere come un altro? Chi non sa o non vuole adattarsi al formato, alla griglia, alla monetizzazione? Chi abita i margini veri—quelli scomodi, sporchi, non mediatizzabili.
Denunciare, in questo contesto, è inutile se non è anche gesto operativo. Non basta esporre il sistema: bisogna sabotarlo, rifiutarlo, smontarlo. Occorre restituire all’arte la sua opacità, il suo diritto all’invisibilità, alla lentezza, all’errore. Difendere l’opera come spazio di resistenza, come zona franca dall’economia dell’attenzione. E riconoscere nell’artista non un fornitore di contenuti, ma una figura inutile, sacra, pericolosa. Un essere fuori tempo, fuori scala, fuori mercato.
Jeff Koons è forse il caso più emblematico dell’artista-azienda. Le sue opere scintillanti, infantili, anestetizzate — i celebri palloncini in acciaio inossidabile, le scimmiette kitsch, le figure lucide come caramelle — non nascono da un’urgenza poetica, ma da un’industria. Dietro ogni opera, c’è un laboratorio iperprofessionale, una macchina perfettamente oliata. L’arte è lusso: prodotto da squadre di assistenti, venduto a prezzi astronomici, inserito in collezioni blindate. I suoi oggetti non evocano, non inquietano, non disturbano: sono totem per l’1%, status symbol per oligarchi, simboli di una ricchezza che si cerca di sublimare in cultura. È arte? È branding di altissimo livello. È una borsa Hermès scolpita in acciaio.
Damien Hirst ha portato il gioco a un livello successivo. Il suo teschio tempestato di diamanti, “For the Love of God”, è una dichiarazione spudorata: il vero oggetto estetico è il prezzo. La cifra assurda, lo scandalo economico, sono parte integrante dell’opera. Il progetto degli NFT—10.000 opere vendute a collezionisti, chiamati a scegliere tra digitale e fisico, con la distruzione dell’alternativa—è un reality show speculativo. Il gesto concettuale è una farsa di mercato, un paradosso truccato da provocazione, che il mercato ha adorato. L’arte come provocazione compiacente: il sistema l’ha assorbita senza battere ciglio.
Yayoi Kusama, genio visionario e fragile, outsider radicale in origine, è stata trasformata in mascotte poetica del contemporaneo. Le sue Infinity Rooms, inizialmente spazi di allucinazione e ossessione, sono oggi tappe instagrammabili, code infinite di turisti emozionati. I musei vendono l’esperienza come Disneyland vende l’adrenalina: luci, specchi, riflessi, selfie. Il dolore mentale dell’artista, la psicosi, l’ossessione ripetitiva, sono diventati pattern di design, decorazioni per borse, giocattoli da boutique. L’angoscia è stata resa merchandise.
Banksy è un caso-limite: acclamato come sabotatore del sistema, si è trasformato nel suo prodotto più desiderato. La performance dell’autodistruzione dell’opera “Girl with Balloon” all’asta di Sotheby’s, accolta come atto di ribellione, si è tradotta in un incremento di valore. Il gesto era un sabotaggio, sì, ma anche un’operazione speculativa riuscitissima. Il mercato ha inglobato perfino la critica al mercato. Banksy è oggi un brand, un oggetto di culto, con mercato secondario, falsi, gadget, documentari, retrospettive. L’ironia è diventata stile aziendale.
Le fiere d’arte come Art Basel o Frieze sono ormai simili a fashion week itineranti. I collezionisti si spostano come da una sfilata all’altra, rincorrendo lo stesso circuito di curatori, artisti, opere. Le città ospitano questi eventi come eventi glamour, con red carpet, sponsor, cocktail esclusivi. La booth dev’essere instagrammabile. Le opere devono “fotografare bene”. I visitatori? Molti non guardano, non riflettono, non reagiscono: documentano. Ci sono, perché esserci è il punto. L’arte diventa contesto per la presenza sociale.
E chi lavora ai margini, fuori da tutto questo? Chi non è connesso? Chi vive in province artisticamente sterili, o sceglie il silenzio invece del network? Chi rifiuta il compromesso, l’adattamento, il linguaggio patinato? Spesso resta invisibile. Oppure viene risucchiato, cooptato, riformattato: diventa “voce fuori dal coro” solo se utile alla narrazione. Il sistema sa come incorporare anche l’eccezione. Anche la marginalità diventa contenuto—se serve.