"Mimì metallurgico ferito nell’onore" (1972), scritto e diretto da Lina Wertmüller, rappresenta non solo uno dei vertici della produzione cinematografica italiana degli anni Settanta, ma anche una delle opere più emblematiche nel percorso autoriale della regista, prima donna nella storia a ricevere una candidatura all’Oscar per la miglior regia. Si tratta di un film in cui il genere della commedia all’italiana viene profondamente rinnovato e contaminato da elementi del dramma sociale, del realismo politico e della farsa grottesca, producendo una narrazione stratificata, capace di parlare al tempo stesso alla pancia e alla coscienza dello spettatore.
Al centro della vicenda vi è Domenico detto "Mimì", operaio siciliano interpretato da uno straordinario Giancarlo Giannini, qui in una delle sue prove più complesse e memorabili. La sua interpretazione restituisce con virtuosismo attoriale tutta l’ambiguità di un personaggio intrappolato tra l’istintivo desiderio di emancipazione e l’impossibilità di spezzare i vincoli atavici della propria cultura d’origine. Costretto ad abbandonare la Sicilia dopo essersi rifiutato di sottostare alle pressioni mafiose durante un’elezione, Mimì si trasferisce a Torino, nella grande fabbrica del nord industriale, simbolo di progresso, alienazione e speranza tradita. La sua parabola, fatta di aspirazioni ideologiche, passioni adulterine, infrazioni morali e ritorni regressivi, diventa l’emblema dell’impotenza dell’individuo nel confrontarsi con le strutture oppressive della società patriarcale e del capitalismo.
La regia della Wertmüller costruisce con grande consapevolezza un linguaggio visivo fortemente riconoscibile, dove la composizione dell’inquadratura, il ritmo del montaggio e l’uso sapiente del colore (grazie alla fotografia di Giuseppe Rotunno) contribuiscono a creare un impianto formale volutamente teatrale, caricaturale, espressionistico. Il realismo viene costantemente sabotato da elementi di rottura che si rifanno alla commedia dell’arte, all’opera buffa e alla satira politica. La narrazione è punteggiata da improvvise accelerazioni, sospensioni grottesche, momenti di ironia beffarda alternati a segmenti drammatici e crudamente realistici.
Elena Fiore, nel ruolo della moglie tradita ma non sconfitta, incarna con vibrante presenza scenica l’archetipo della donna popolare, forte e resiliente, in grado di esercitare la sua rivincita attraverso il corpo e la parola. La sua figura si pone in netto contrasto con quella dell’amante milanese (Mariangela Melato), delineando un gioco di specchi tra nord e sud, tra emancipazione e conservatorismo, tra retoriche rivoluzionarie e relazioni di potere mai veramente scardinate.
Il film si impone così come un affresco crudele e lucido dell’Italia di quegli anni, attraversata da profondi conflitti sociali, politici e culturali, ma anche come una riflessione amara e penetrante sulla mascolinità ferita, sul desiderio di riscatto e sull’inevitabile fallimento di ogni tentativo di fuga dal proprio destino sociale. "Mimì metallurgico ferito nell’onore" è, in definitiva, un’opera che coniuga l’urgenza della denuncia con la sapienza della messa in scena, e che trova nella figura di Mimì – ridicolo e tragico, sincero e pavido, proletario e patriarca – il simbolo irrisolto di un’Italia divisa tra modernità e tradizione.
Proseguendo in una chiave critico-analitica, si impone una riflessione più articolata e ramificata su "Mimì metallurgico ferito nell’onore" come opera centrale non solo nella filmografia di Lina Wertmüller, ma nella storia del cinema europeo degli anni Settanta, nonché in quella delle rappresentazioni dell’identità maschile nel contesto della trasformazione sociale italiana. Il film non si limita infatti a una narrazione d’autore, ma si configura come un complesso e stratificato laboratorio ideologico e formale, in cui confluiscono influenze disparate — dal teatro brechtiano al cinema politico francese, dalla commedia dell’arte alla satira pasoliniana — riarticolate però in un linguaggio assolutamente originale, e profondamente radicato nella cultura popolare mediterranea.IL CORPO MASCHILE COME CAMPO DI CRISI
Il personaggio di Mimì, incarnato da Giancarlo Giannini con una fisicità che oscilla costantemente tra il patetico e l’epico, è lo strumento attraverso cui la regista realizza un’autentica anatomia della mascolinità mediterranea. La virilità di Mimì è in crisi, ma si aggrappa disperatamente ai codici dell’onore, del possesso, della rivendicazione sessuale e politica. Il suo corpo — più ancora del suo discorso — diventa la mappa visibile di un’identità sgretolata. Ogni gesto, ogni caduta, ogni sorriso idiota o scatto d’ira è l’indizio di un’implosione interna: l’incapacità, tragica e insieme grottesca, di pensarsi fuori da un sistema simbolico dominato dalla paura della castrazione sociale, dalla vergogna, dalla necessità di “apparire uomo”.
Questa dismorfia ideologica del protagonista — la sua inadeguatezza rispetto alle istanze del cambiamento — viene messa in scena attraverso un dispositivo di distorsione continua: il tono del racconto slitta da comico a drammatico, da lirico a triviale, da sentimentale a parodico, costringendo lo spettatore a una visione instabile e mai pacificata. In questo senso, il film funziona come una sorta di specchio deformante della condizione maschile in una società in cui le certezze dell’autorità virile vengono minate non solo dalla modernità, ma dal confronto con le donne, che qui agiscono come agenti della Storia.
LA POLITICA NEL CORPO E NEL LINGUAGGIO
Uno dei tratti più radicali dell’operazione wertmülleriana sta nell’aver introdotto nel cinema italiano una forma di politicizzazione dell’intimità, dove la lotta di classe si gioca anche nelle camere da letto, nei tradimenti, nei sospetti, nei corpi che si cercano e si respingono. Non è un caso che la parabola di Mimì si costruisca attraverso un percorso che incrocia la migrazione interna (dalla Sicilia al Nord industriale), la militanza operaia, la sessualità clandestina e infine il ritorno al paese d’origine, segnato da un desiderio di vendetta tanto puerile quanto fallimentare.
In questa traiettoria, il discorso politico è costantemente contraddetto, sabotato, o ridicolizzato. Mimì si dichiara comunista, ma continua a ragionare e a vivere secondo i valori patriarcali; denuncia il capitalismo, ma ambisce al potere e alla visibilità che solo il denaro e il successo sociale possono garantire. La lingua del film — impastata di dialetti, neologismi, inflessioni teatrali — evidenzia questa schizofrenia ideologica. I personaggi parlano molto, urlano, confessano, si tradiscono: ma dietro la verbosità si cela un vuoto strutturale che solo il corpo riesce a colmare, e che il linguaggio cinematografico espone in tutta la sua fragilità.
LE DONNE COME DISPOSITIVI DI ROTTURA
Un elemento assolutamente centrale, troppo spesso sottovalutato dalla critica maschile dell’epoca, è il ruolo rivoluzionario delle figure femminili. In particolare, la moglie interpretata da Elena Fiore si erge, con il suo fisico prorompente e il suo accento affettivamente inamovibile, come il contro-peso etico e carnale al delirio identitario del marito. La sua forza risiede proprio nella resistenza silenziosa, nella capacità di sopportare e di reagire non attraverso lo scontro diretto, ma con una forma di dignità ferita che diventa strategia di sopravvivenza.
Diverso ma altrettanto significativo è il ruolo dell’amante “emancipata”, interpretata da Mariangela Melato, che rappresenta l’altra metà del cielo, ma con altrettante contraddizioni: non meno ideologica, non meno violenta nei suoi giudizi, ma portatrice di un linguaggio nuovo, capace di incrinare l’autorità virile con strumenti inediti. Entrambe le donne, pur nella loro diversità, operano come vettori narrativi di crisi, impedendo al protagonista ogni forma di conciliazione con se stesso.
IL DISPOSITIVO COMICO COME FORMA DI PENSIERO
L’opera si serve della comica come forma critica: non come semplice espediente per alleggerire la materia, ma come dispositivo epistemologico, ovvero come strumento per conoscere e far conoscere ciò che altrimenti sarebbe indicibile. La risata qui è ambigua, aspra, a volte sgradevole: nasce da un’eccedenza del senso che sfugge al controllo razionale e svela l’assurdo delle dinamiche sociali e sessuali. È una risata che fa male, che costringe a vedere l’osceno del potere, la nudità del pregiudizio, la meschinità dell’amore possessivo.
Il cinema di Wertmüller, in tal senso, va letto come una forma di teatro cinematografico in cui l’attore è non solo interprete ma elemento fondativo del significato. La sua regia dirige il corpo come un regista teatrale dirige il gesto: ne esaspera i contorni, lo amplifica, lo contraddice. L’intero film sembra strutturarsi come una successione di quadri viventi, in cui l’eccesso scenico diventa lo spazio dell’ideologia, della satira, dell’analisi psico-politica.
CONCLUSIONI: UN’OPERA-CONTINENTE
A più di cinquant’anni dalla sua uscita, "Mimì metallurgico ferito nell’onore" si conferma non solo come uno dei film più rappresentativi della stagione culturale degli anni Settanta, ma come una vera e propria opera-continente, capace di contenere dentro di sé contraddizioni, speranze, fallimenti e desideri che ancora oggi attraversano le dinamiche di genere, le relazioni di potere, le illusioni politiche. Il personaggio di Mimì, lungi dall’essere soltanto una caricatura, si rivela una figura-soglia, sospesa tra arcaico e moderno, tra maschilismo e progressismo, tra velleità rivoluzionarie e nostalgia reazionaria.
Il cinema di Lina Wertmüller — e in particolare questo film — ci impone dunque una domanda radicale: può la coscienza politica nascere senza un'autentica liberazione del desiderio? E può l’emancipazione sociale avere luogo se non si affronta, con coraggio e con ironia, la caduta degli dei maschili che ancora abitano il nostro immaginario collettivo?
Con “Mimì”, la risposta sembra essere: no. Ma da questa negazione nasce una possibilità nuova, una forma diversa di vedere e raccontare, in cui la lotta passa dal parlamento al letto, dalla fabbrica al cuore, e la commedia diventa finalmente tragedia, ma tragedia senza eroi, e per questo infinitamente più vera.