Anna Maria Ortese, quella regina silenziosa del realismo magico italiano, è una figura quasi mistica, sospesa tra le luci e le ombre della letteratura del Novecento. Immaginiamola: capelli neri, gli occhi scuri come notti insonni, sempre alla ricerca di un luogo – o forse di un sogno – dove poter finalmente posare lo sguardo e trovare pace. In fondo, Ortese è stata, per gran parte della sua vita, una viaggiatrice senza meta, in bilico tra la realtà e il mistero del mondo interiore che ha tanto ispirato le sue opere.
La sua vita comincia in un angolo di Napoli che sembra uscito da un suo racconto. Siamo nel 1914, e la città, che ama e detesta come una matrigna, la cresce senza fare troppe carezze. La piccola Anna Maria si rifugia nei libri, cercando nelle parole quelle risposte che la realtà non è mai riuscita a darle. Fin da subito si sente diversa, osserva il mondo come da dietro un vetro – e forse è questa distanza che le permette di descrivere con tanta precisione la bellezza e la miseria umana. Ortese non vive; Ortese scrive, come se fosse la sua unica possibilità di esistere.
La sua carriera letteraria inizia con Angelici dolori, una raccolta di racconti che sembra provenire da un altro mondo. Pubblicata nel 1937, è un'opera che non passa inosservata, e già i critici cominciano a intuire la complessità di questa scrittrice schiva e geniale. Ma è il dopoguerra a regalarle un capitolo tragico e luminoso: nel 1953 pubblica Il mare non bagna Napoli, e da quel momento la sua vita cambia. Il libro, con il suo ritratto spietato e appassionato della città, solleva un polverone; alcuni lo considerano un capolavoro, altri una bestemmia. Ma Ortese, con la sua fragilità, non ama il rumore. Finisce quasi per pentirsi di averlo scritto.
Ortese, ormai una presenza più simile a un'ombra che a una donna, inizia a vagabondare. Prima va a Roma, poi in Liguria, infine approda a Milano. La sua vita sembra quella di un personaggio dei suoi racconti: sempre in movimento, sempre alla ricerca, ma senza mai trovare. Nei suoi scritti dà voce a emarginati, animali, creature invisibili, in un tentativo disperato di comprendere l’umanità. Non a caso, lei stessa si definisce “una straniera della vita”.
Negli anni Ottanta, mentre il mondo sembra volerla dimenticare, pubblica Il porto di Toledo e Il cardillo addolorato, due capolavori che riconfermano la sua maestria. Ma il riconoscimento vero e proprio arriva troppo tardi, quando ormai è stanca, sfiduciata, e lontana dalle luci del palcoscenico letterario. Muore nel 1998 a Rapallo, in una solitudine scelta e accettata, ma mai pienamente compresa.
Così, come le sue parole, Ortese ha attraversato la vita in punta di piedi, lasciando una scia luminosa, difficile da seguire e impossibile da dimenticare. In lei, la letteratura non è stata solo un mezzo di espressione, ma l'unico modo di esistere, un mistero affascinante, in cui la verità e la fantasia danzano insieme in un perenne duello.
Nasce in un'epoca in cui il mondo sta per crollare, la Napoli del 1914, dove ogni pietra e ogni vicolo sono intrisi di storie antiche e segreti sussurrati. È una bambina introversa, che scruta il mondo come una straniera in terra propria. La famiglia è numerosa e modesta, e il padre, impiegato statale, è costretto a continui spostamenti per lavoro. Così, prima ancora di conoscere i segreti di Napoli, si ritrova sradicata: Palermo, Roma, Taranto, la piccola Anna Maria diventa cittadina di nessun luogo e di tutti i luoghi, e da questo peregrinare nasce un amore travagliato per l'Italia, che diventerà il suo tema ossessivo.
Napoli, però, rimane la sua ossessione più intensa, quella che amerà e maledirà fino all’ultimo giorno. La Ortese trascorre l’adolescenza qui, e la città diventa per lei un universo ambiguo, pieno di vita ma anche di una miseria sfiancante. E quando nel 1953 pubblica Il mare non bagna Napoli, Napoli glielo rinfaccia. Il libro racconta, senza sconti, la povertà, le speranze distrutte, l’ipocrisia, una città in cui i sogni sembrano dissolversi come bolle di sapone. La Ortese è ferita dalle critiche, ma non si ferma. Come tutte le anime sensibili, è vulnerabile, ma caparbia.
Gli anni Sessanta vedono il suo spirito errante spingersi ancora più lontano, nei luoghi meno battuti della mente e dell’Italia, finché si ritira in Liguria, in isolamento. Vive in una casa immersa nel silenzio e tra fogli sparsi di carta, un rifugio semplice, lontano dai clamori letterari. È un periodo oscuro: le sue risorse sono sempre più scarse, e spesso vive al limite della povertà. Ma Ortese sembra trovare in questa vita aspra una sua verità. Non si piega mai del tutto al mercato editoriale; scrive solo quando sente la necessità, e i suoi scritti continuano a prendere forme straordinarie e impalpabili.
E poi c’è il suo amore per gli animali. Ortese li sente come spiriti affini, creature che, come lei, vivono al margine della società, e nelle sue pagine diventano protagonisti tanto quanto gli esseri umani. Li osserva, li ascolta, con una compassione che si fonde a una sorta di empatia ancestrale: per lei sono voci del mistero, ambasciatori di una purezza che l'umanità ha perduto da tempo.
Verso la fine della vita, Anna Maria pubblica il suo capolavoro onirico, Il cardillo addolorato. Ambientato nella Spagna del Settecento, il romanzo è un labirinto di simboli, che richiama Borges e la sua “biblioteca infinita”. Ma nonostante il successo, Ortese rimane quella presenza sfuggente, quasi invisibile, che si sente incompresa da una letteratura italiana troppo realista e, per lei, fin troppo arida. Negli ultimi anni della sua vita rifiuta ogni celebrazione, vive nell'ombra, e muore a Rapallo nel 1998, come una meteora che attraversa il cielo senza fare rumore.
Così si conclude la storia di questa creatura solitaria e magica, che non ha mai smesso di cercare un posto a cui appartenere, senza trovarlo mai del tutto. Ma forse è proprio questa la vera essenza di Anna Maria Ortese: una straniera nel suo stesso paese, una viaggiatrice di universi invisibili, alla ricerca di una verità che solo la letteratura – e nessun luogo reale – può contenere davvero.
La scrittura di Anna Maria Ortese è un incantesimo raro, una tessitura di parole che si muove tra sogno e realtà con la naturalezza di una magia antica. Ogni pagina sembra avere il potere di trasportare chi legge in un universo parallelo, dove il mondo appare trasfigurato, sospeso tra poesia e malinconia, tra luce e ombra. La sua prosa è spesso descritta come “realismo magico”, eppure è molto di più: è un'esplorazione della sofferenza, del desiderio, del mistero nascosto dietro ogni cosa.
Ortese usa la scrittura come un mezzo di rivelazione; ogni frase ha il peso di un segreto. Le sue descrizioni non sono mai banali: sono attente, empatiche, intrise di una sensibilità che riesce a dare voce non solo alle persone, ma anche alle cose, agli animali, agli stessi paesaggi. Leggere la Ortese è come camminare attraverso un bosco avvolto dalla nebbia, dove i contorni sfumano e l’irreale si mescola al quotidiano. La sua lingua è spesso ellittica, frammentata, capace di evocare una realtà che appare incompleta, imperfetta, ma proprio per questo più vera.
Una delle sue caratteristiche distintive è l’attenzione per i margini e per chi li abita: i poveri, i disadattati, gli esclusi. Ortese non scrive per dare voce ai potenti o ai vincenti, ma per rivelare l’umanità nascosta dietro le esistenze più fragili, quelle che solitamente restano inascoltate. Nei suoi testi i personaggi non sono mai eroi; sono figure solitarie, inquiete, spesso in lotta contro un destino ingiusto, eppure mai completamente sconfitte. La loro bellezza è proprio in questa lotta silenziosa, in questo non arrendersi alla disperazione.
Questa visione emerge potentemente in Il mare non bagna Napoli, dove Ortese riesce a restituire tutta la complessità di una città ferita e bellissima, raccontando storie di miseria e nobiltà, di vite segnate dalla fatica, ma mai prive di dignità. In questi racconti c’è una specie di denuncia, ma non è mai dichiarata apertamente: è piuttosto un lamento, un canto sommesso che ci fa sentire, senza urlare, il peso dell’ingiustizia sociale.
Ma Ortese non si ferma qui. Nella sua produzione matura, con opere come Il porto di Toledo e Il cardillo addolorato, la sua scrittura diventa ancora più ambiziosa e sfuggente. In Il porto di Toledo, Ortese crea un mondo labirintico, dove i confini tra il reale e l’onirico sono volutamente indistinti. Qui si avverte l'influenza di autori come Kafka e Borges, ma il tocco resta assolutamente unico: le sue narrazioni non sono solo racconti, sono esperienze sensoriali, tentativi di esplorare l’indicibile, di raccontare quel che normalmente sfugge alla comprensione razionale.
Ortese, d'altronde, non scrive per semplificare; scrive per complicare, per svelare la bellezza e la complessità di ciò che non si può spiegare. Il cardillo addolorato, romanzo intriso di simboli e misteri, rappresenta il culmine di questa poetica: qui i personaggi e le vicende sono maschere, metafore di una realtà più profonda, che si nasconde sotto la superficie delle cose. Ortese si avventura nel mistero dell’anima umana, esplorando i territori del desiderio, della colpa, della redenzione, come se scrivere fosse un atto di introspezione quasi religiosa.
Alla fine, la scrittura di Anna Maria Ortese è questo: una ricerca inesauribile, un invito a guardare oltre le apparenze, a trovare il miracoloso nell’ordinario. È una scrittura che accoglie il silenzio, che celebra la fragilità, che dà dignità a ciò che normalmente passa inosservato. E, soprattutto, è una scrittura che non finisce mai di stupire, proprio come un segreto che, anche se svelato, non smette di sorprendere.
Ha pubblicato due libri di poesia, Il mio paese è la notte (1953) e La luna che trascorre (1966), due raccolte che rivelano un lato intimo e meditativo della sua scrittura, meno conosciuto ma profondamente significativo.
Il mio paese è la notte (1953)
Questa raccolta è intrisa di un’intensa nostalgia e di un senso di spaesamento. Ortese osserva la realtà con uno sguardo malinconico, sentendo il peso della solitudine e la distanza dal mondo circostante. La notte, nel titolo, diventa simbolo dell’interiorità, un luogo dove si annidano sia l’inquietudine che la bellezza nascosta. Le poesie sono brevi, essenziali, ma dense, come se ogni parola fosse scelta per il suo peso specifico. Ortese parla del suo senso di estraneità, della difficoltà a sentirsi a casa in un mondo che percepisce come ostile e distante. I versi riflettono questa sensazione di non appartenenza, di un'anima errante alla ricerca di un luogo che probabilmente non esiste.
La luna che trascorre (1966)
In questa seconda raccolta, la scrittura di Ortese si apre a una dimensione più universale, pur mantenendo la sua tipica sfumatura malinconica. La luna, figura centrale, è qui simbolo di qualcosa di inafferrabile, un riflesso dell’anima in perenne movimento. Ortese abbraccia la solitudine e la trasforma in una sorta di compagnia, una presenza costante ma ineffabile. La sua scrittura diventa più matura, con versi che esplorano il tema della memoria e del tempo, senza mai rinunciare alla dimensione onirica che caratterizza la sua prosa. Le immagini lunari e notturne sono intense, e la sua poetica diventa una riflessione sulla fragilità umana, sull’esistenza come un cammino incerto ma pieno di mistero.
In entrambe le raccolte, Ortese si conferma una poetessa dalle tonalità delicate e sfuggenti, capace di cogliere sfumature emotive con pochi tratti. Se la prosa di Ortese esplora il mondo attraverso personaggi e storie, la sua poesia è un viaggio nel proprio mondo interiore, dove ogni parola sussurra un desiderio di comprensione, di pace, e un costante dialogo con il mistero della vita.
Gli epistolari di Anna Maria Ortese sono uno scrigno prezioso per comprendere l'anima tormentata e profonda di questa scrittrice, che ha sempre vissuto una relazione complessa e ambigua con il mondo letterario e la società. Le sue lettere, raccolte in volumi come Cara Silvana. Lettere a Silvana Mauri e Le nostre sorelle di scrittura, ci svelano non solo l’aspetto pubblico della scrittrice, ma anche la sua fragilità e la sua sensibilità più intima.
Cara Silvana. Lettere a Silvana Mauri
Le lettere indirizzate a Silvana Mauri, scritte nell’arco di molti anni, raccontano l’intensa amicizia e la profonda affinità tra Ortese e Mauri, che era editor e figura di riferimento per diverse generazioni di scrittori italiani. In queste lettere, Ortese si lascia andare a confessioni intime, esprimendo le sue paure, le sue insicurezze e il senso di estraneità che l’ha accompagnata per tutta la vita. Attraverso le parole rivolte a Silvana, si coglie una scrittrice spesso combattuta tra il bisogno di scrivere e la paura di non essere compresa o, peggio, di essere fraintesa. Qui si rivelano le sue difficoltà economiche, i momenti di solitudine e il rifiuto del mondo letterario tradizionale, percepito come troppo limitante rispetto alla sua visione. Queste lettere sono quasi un dialogo tra anime affini, un sostegno reciproco in un mondo che Ortese ha sempre considerato lontano dalla sua idea di verità e autenticità.
Le nostre sorelle di scrittura
In Le nostre sorelle di scrittura, troviamo un dialogo epistolare che Ortese intrattiene con altre scrittrici e amiche, in particolare Lalla Romano e Paola Masino. Il titolo stesso è significativo: Ortese vede queste autrici come “sorelle” in una sorta di comunità invisibile, un legame profondo che va oltre la semplice amicizia e diventa quasi una complicità spirituale. Queste lettere non sono mai banali; Ortese si rivela sempre come una donna attenta e acuta, capace di offrire osservazioni sulle difficoltà e le gioie della scrittura, sul ruolo della donna nella società e nell’arte, e sull’importanza di conservare una propria integrità interiore. Attraverso il carteggio, si coglie il senso di isolamento che Ortese ha spesso vissuto, ma anche la forza che traeva da questo senso di appartenenza a una “famiglia” di anime affini.
Questi epistolari sono, dunque, una finestra su una Ortese che non appare mai del tutto nei suoi scritti pubblici. Essi rivelano una persona che rifugge le convenzioni, che si sente spesso un'outsider, ma che proprio per questo riesce a guardare il mondo con uno sguardo unico, rivolto verso un’umanità più autentica e meno “addomesticata”. Le sue lettere non sono mai solo comunicazioni pratiche: sono veri e propri frammenti di una poetica personale, a tratti dolorosa, a tratti illuminante, che Ortese non smette mai di interrogare.
Il rapporto tra Anna Maria Ortese e Dario Bellezza è stato un incontro tra due anime affini, segnate entrambe da una sensibilità acuta, quasi spietata, nei confronti della sofferenza e della solitudine. Ortese e Bellezza, pur appartenendo a generazioni diverse – lei più grande e con un percorso già consolidato, lui giovane, ribelle e dichiaratamente omosessuale – trovarono l’uno nell’altra un’intesa profonda, un’intimità intellettuale e spirituale che si manifestò in uno scambio epistolare intenso e in una reciproca ammirazione.
Dario Bellezza, poeta dallo stile tagliente e malinconico, è stato spesso definito “maledetto”, un autore che ha scandagliato senza paura i temi dell’emarginazione e della diversità in un’Italia che ancora faticava a riconoscere la pluralità delle identità. Proprio come Ortese, anche Bellezza si è sempre sentito un outsider, attratto dai margini, e questo senso di estraneità ha rappresentato il terreno comune su cui si è costruita la loro amicizia. Bellezza ammirava profondamente Ortese, vedendo in lei una maestra che non seguiva le convenzioni letterarie e che, come lui, sapeva dare voce a chi non aveva voce.
Nelle lettere che si scambiano, si percepisce un rispetto profondo, un affetto sincero che va oltre l’ammirazione artistica. Ortese, con il suo carattere schivo e ritroso, sembra trovare in Bellezza un confidente con cui condividere le proprie inquietudini, un’anima in grado di comprendere quella sottile malinconia che pervade la sua vita e la sua scrittura. Bellezza, a sua volta, si affida a Ortese come a una figura quasi materna, ma con un affetto venato di deferenza e gratitudine, percependola come una presenza protettiva e illuminante.
Ortese scrisse anche una lettera aperta a Bellezza, pubblicata nel 1996, dove lo esortava a non cedere al “dolore della fine” e alla “paura del male” che attanagliavano la sua esistenza. È una lettera toccante, dove Ortese si rivela nella sua compassione e nel suo dolore per l'amico, esortandolo a non lasciarsi sopraffare. Le sue parole sono una sorta di “carezza a distanza” verso un’anima tormentata, una preghiera affinché Bellezza potesse trovare una tregua dalle ombre che lo perseguitavano.
Il loro legame si fondava, quindi, su un incontro di fragilità e forza, di intelligenza e di malinconia. Entrambi scrissero per il bisogno di sopravvivere, di dare un senso alla solitudine, e forse proprio per questo Ortese e Bellezza rimasero sempre vicini, sostenendosi nei momenti più difficili. Anche se provenivano da percorsi differenti, Ortese e Bellezza erano legati da un’unica, profonda necessità: quella di scrivere per dare voce al dolore e all'amore, alla verità e all'illusione.
Il rapporto di Anna Maria Ortese con la natura e gli animali è uno dei tratti più intimi e distintivi della sua scrittura, un legame che va oltre la semplice descrizione del mondo naturale. Per lei, gli animali e la natura sono portatori di una purezza perduta, custodi di una verità ancestrale che l’umanità sembra aver dimenticato o tradito. Attraverso il suo sguardo, animali e paesaggi non sono semplici sfondi, ma presenze vive, esseri con una dignità intrinseca che Ortese osserva con profonda empatia e rispetto.
Nel mondo di Ortese, gli animali rappresentano una forma di innocenza assoluta. Essi incarnano l’aspetto più autentico e vulnerabile dell’esistenza, e nei loro occhi Ortese riconosce una sofferenza silenziosa e una saggezza antica. In molte sue opere, i gatti, i cani, gli uccelli e persino le creature marine appaiono come figure che, pur non parlando, esprimono una comprensione profonda e una capacità di amare incondizionata. Ortese sente una comunanza con questi esseri, come se il loro destino fosse, in qualche modo, intrecciato al suo. La loro innocenza è per lei una forma di saggezza, qualcosa che l’uomo dovrebbe rispettare e proteggere, anziché sfruttare.
Ne Il porto di Toledo, per esempio, la natura è descritta in termini di potenza e di mistero, come un universo vasto e insondabile in cui l’essere umano si trova a confronto con la propria piccolezza e fragilità. Questo rapporto quasi sacrale emerge anche in Il cardillo addolorato, dove la natura diventa un riflesso del mondo interiore dei personaggi, un luogo magico e pieno di segreti. Ortese sembra suggerire che il mondo naturale abbia una dimensione spirituale, un’anima invisibile che ci osserva e ci giudica.
La sua compassione per gli animali va oltre la semplice sensibilità e si avvicina a una visione quasi mistica. Ortese non li considera mai semplici creature inferiori, ma esseri di una purezza superiore, da cui imparare la bellezza del silenzio e la dignità della sofferenza. Più volte, nelle sue lettere e negli epistolari, Ortese denuncia la crudeltà umana verso gli animali, esprimendo il suo rammarico per un mondo in cui la compassione è riservata solo all’uomo, mentre le altre forme di vita vengono ignorate o peggio, distrutte.
Infine, nel suo ultimo libro, Le piccole persone, Ortese espone questa visione con forza: descrive gli animali come “piccole persone”, esseri che, pur nella loro vulnerabilità, possiedono un’anima pari a quella umana. Con questo termine, Ortese vuole conferire agli animali la dignità che la società spesso nega loro, invitando a una riflessione profonda sulla responsabilità etica che l’umanità ha nei loro confronti.
In definitiva, per Anna Maria Ortese, la natura e gli animali non sono mai qualcosa di “altro”, ma parte di un’unica, misteriosa rete di esistenza di cui tutti facciamo parte. Il suo amore per loro è una forma di resistenza contro un mondo che tende a disumanizzare, e proprio in questo amore Ortese trova forse la sua forma di redenzione: un ritorno a quella purezza che il mondo umano, troppo spesso, ha dimenticato.
Pur avendo vissuto gran parte della sua carriera in una sorta di “isolamento letterario”, esercita un’influenza profonda e sotterranea su molti scrittori contemporanei, che guardano alla sua opera con ammirazione e reverenza. La sua scrittura è diventata un faro per chi cerca un tipo di letteratura che esplori l’interiorità umana, le sue fratture, la bellezza nascosta nel dolore e nell’emarginazione. Oggi, autori di narrativa e di poesia trovano in Ortese una guida per esplorare temi come l'alienazione, la solitudine e il rapporto tra umano e naturale.
Ortese è infatti diventata una figura di riferimento soprattutto per chi si sente distante dalle logiche commerciali e dai canoni imposti dal mondo editoriale. Il suo sguardo visionario, unito alla sua scelta di scrivere “contro corrente”, la rende quasi un modello di integrità e autenticità. Scrittori come Nicola Lagioia e Elena Ferrante, per esempio, hanno citato Ortese come una grande ispiratrice. Ferrante, in particolare, ha riconosciuto in Ortese una maestra nell'arte di ritrarre le periferie dell'anima, quel mondo nascosto e talvolta oscuro che esiste dentro ognuno di noi e che spesso fatichiamo ad ammettere.
Il suo stile, onirico e per certi versi mistico, ha anche influenzato autori che cercano di superare i limiti del realismo per creare narrazioni ibride, sospese tra realtà e sogno. Ortese ha aperto la strada a una letteratura che non ha paura di mescolare generi e linguaggi, creando universi in cui il reale è pervaso di magia e il quotidiano si fa misterioso. Anche autori più giovani, come Teresa Ciabatti e Donatella Di Pietrantonio, si sono ispirati alla sua capacità di penetrare la dimensione emotiva e di dar voce a personaggi marginali e solitari.
La riscoperta di Ortese, avvenuta negli ultimi anni, ha portato molti lettori e scrittori a riscoprire la sua lezione: quella di un’autrice che non ha mai smesso di cercare la verità, anche quando questa si trovava nei luoghi più bui e nascosti dell’anima umana. Per gli scrittori di oggi, Ortese rappresenta un modello di integrità e di coraggio intellettuale, un esempio di come la letteratura possa essere una forma di resistenza e di compassione verso il mondo.
In un’epoca in cui spesso la scrittura è vittima di pressioni commerciali, il richiamo di Ortese alla purezza dell’arte, al rispetto per la bellezza e alla difesa dei più deboli diventa ancora più rilevante. La sua eredità vive oggi negli autori che cercano di conservare un senso di profondità e di umanità nella loro scrittura, facendo di Ortese un punto di riferimento imprescindibile per chi cerca una letteratura che non abbia paura di essere diversa, autentica, e anche un po’ selvaggia.