Dalla mia finestra, la strada si estende come un nastro di piombo fuso, greve sotto il peso delle ombre che vi scivolano sopra come fantasmi senza pace. Le sue pietre, levigate dal calpestio innumerevole di generazioni scomparse, brillano di una luce fredda, come il dorso di un serpente che striscia lento tra i ruderi di un tempio profanato. Le case che la fiancheggiano si ergono simili a bastioni abbandonati, con le loro facciate screpolate che raccontano, con il linguaggio taciturno delle crepe e delle muffe, la lenta erosione di ogni grandezza.
Nei seminterrati, dietro vetri appannati dal respiro degli anni, botteghe annerite espongono merci consunte, accatastate come reliquie in un tabernacolo sconsacrato. I lumi ardono fiocamente, con la tristezza delle stelle morenti, e proiettano ombre lunghe che si arrampicano sulle pareti, scivolando sui soffitti bassi come braccia levate in una supplica senza risposta. I balconi, gravidi di ringhiere arrugginite e fiori secchi, pendono come corone funebri dimenticate su lapidi scrostate. Ogni ringhiera si attorciglia come una gabbia arrugginita, le sue volute soffocate da decenni di pioggia e fuliggine.
I palazzi, spettri in muratura, portano sulle loro facciate il marchio della decadenza, e i loro fregi araldici, come antichi talismani consunti, paiono maledizioni scolpite nel tufo, appelli disperati di una nobiltà che si ostina a rimanere incatenata ai propri mausolei. Qui, le case non sono semplici abitazioni: sono sarcofagi monumentali, casseforti blindate che imprigionano non denaro ma ricordi, amori defunti, passioni spente come candele consumate. Dentro, l’argenteria annerita dorme nel velluto di cassetti che odorano di cera vecchia, e i mobili di mogano e palissandro scricchiolano piano, come se conservassero nei loro nervi lignei il ricordo dei corpi che vi si sono posati sopra, secoli fa.
Io, in questa scena, sono solo un occhio disincarnato, un oblò spalancato sull’abisso quotidiano. Sono una macchina fotografica senza anima, uno specchio che riflette e non giudica. Osservo, e ciò che vedo si imprime in me come un’ossessione che non osa rivelarsi. Dall’altra parte della strada, un uomo si rade davanti a una finestra che trabocca di luce fredda, e ogni suo gesto – lento, metodico – sembra risuonare nella stanza vuota, come un monaco che affila il proprio pugnale prima della penitenza. Ogni mattina, la lama attraversa il suo viso pallido come il taglio di una falce, senza che una goccia di sangue scivoli sulla ceramica.
Accanto, una donna avvolta in un kimono scolorito pettina i propri capelli con la reverenza di una sacerdotessa pagana. I suoi gesti hanno la grazia morbida di un rito antico, e l’acqua che scivola tra le ciocche nere sembra versarsi con la stessa gravità di un liquore sacro su un altare. Lei si lava senza fretta, come se il tempo intorno fosse congelato, come se il mondo intero fosse rimasto impigliato tra le sue dita sottili, incapace di avanzare. Io osservo e registro. Questo frammento di esistenza, apparentemente banale, si aggrappa a me come un’ombra ostinata. Un giorno sarà stampato nella memoria, fissato con la crudezza di una lastra che ha catturato più di quanto volesse.
La mia stanza, questo rifugio solitario, ha l’odore di un confessionale sigillato. C’è l’incenso, ma spento da tempo. C’è il pane, ma è duro come una pietra. Ogni aroma si mescola con la polvere che danza nei raggi smorti della stufa. Quest’ultima, alta e rivestita di piastrelle dai colori cupi, sembra ergersi come un idolo dimenticato, una divinità domestica a cui nessuno porta più offerte, ma che continua a vegliare, paziente e severa. Le sue piastrelle brillano con una luce smorzata, il riflesso stanco di una gloria ormai sbiadita.
Il lavabo, annerito dal calcare, assomiglia a una fonte battesimale, e ogni goccia d’acqua che vi cade sembra risuonare come una lacrima che si perde tra le navate di una cattedrale vuota. L’armadio, alto e massiccio, ha vetri che sembrano traforati con la pazienza dei maestri vetrai medievali. Attraverso di essi, la luce filtra con la dolcezza austera delle vetrate di una chiesa, dipingendo figure sfocate sulle pareti. Le sue ante, decorate con l’effigie di Bismarck e del re di Prussia, sembrano custodire segreti che nessuna chiave osa violare.
E poi c’è la sedia. La mia sedia. Pesante, severa, con un’intaccatura che corre lungo il bracciolo come una cicatrice antica. È un trono minore, un seggio da arcivescovo, eppure nessuna comodità si posa su di essa. Sostiene il mio corpo con la fermezza di una pietra tombale, e ogni volta che vi siedo, mi pare di occupare un posto che non mi spetta, come se il fantasma di un giudice o di un vescovo mi osservasse dall’ombra.
In un angolo, tre alabarde si incrociano, simili a croci erette per vegliare sul silenzio. Forse appartenevano a un teatro itinerante, forse hanno calcato le scene, recitando il loro ruolo con la falsa crudeltà del legno e del metallo. Ma qui, nella penombra della mia stanza, esse sembrano più vere, più affilate, più pronte a trafiggere. Nulla in questa stanza è solo decorativo. Ogni oggetto ha un peso, un’anima sopita, una volontà nascosta che mi osserva mentre vivo, o forse mentre lentamente svanisco, dissolvendomi nel crepuscolo di questi muri che sembrano chiudersi intorno a me, giorno dopo giorno.
La sera si insinua lenta come un veleno dolce, e la stanza si contrae nel buio, piegandosi su se stessa con l’indolenza di un vecchio animale ferito. Ogni angolo si allunga, ogni mobile proietta la sua ombra con la maestosità sgraziata di un monumento scomposto. La stufa, ora spenta, si raffredda con il silenzio di un altare dimenticato, mentre la luce che filtra dalla finestra si colora di una tonalità opaca, come se anche il cielo, là fuori, avesse preso su di sé il peso di questo luogo.
L’orologio, che fino a poco fa segnava con ostinazione l’ora come un cuore ansioso di battere, sembra essersi arreso. I suoi rintocchi si allungano, distanti, come i passi di un passante che si dissolve dietro l’angolo. Mi alzo dalla sedia – o forse essa si libera di me – e avanzo verso la finestra, dove il vetro freddo riflette la mia immagine con una trasparenza crudele. Il mio volto si sfalda nella penombra, disgregato in frammenti come una reliquia che non ha più il diritto di conservare la sua forma.
Lì fuori, la strada è deserta, ma non priva di vita. I lampioni gettano il loro chiarore giallastro su marciapiedi che sembrano distese di cera, e le finestre delle case di fronte brillano come orbite vuote, vigilanti e indifferenti. L’uomo che si radeva, ora, siede immobile dietro il vetro, con lo sguardo perduto nella direzione di qualcosa che non vedo. La donna col kimono, che poco fa pettinava i capelli, si è ritirata dietro le tende, lasciando solo un barlume di luce a suggerire la sua presenza.
Sento il peso della mia solitudine. Essa si deposita sulle spalle con la gravità di un mantello regale, e mi costringe a tornare verso la stufa, come se il freddo invisibile della notte avesse trovato il modo di insinuarsi attraverso le pareti. Accendo una candela – piccola fiamma, fragile e instabile – che tremola come un cuore impaurito, proiettando arabeschi danzanti lungo il soffitto a volta. Le alabarde nell’angolo sembrano vibrare alla luce, pronte a muoversi, pronte a rispondere a un comando che nessuno pronuncerà.
Mi siedo di nuovo. La sedia scricchiola, e nel silenzio il suono assomiglia al sussurro di una voce dimenticata. Sento il peso di questa stanza non solo intorno a me, ma dentro di me, come se le sue mura fossero penetrate nel mio petto, rivestendo i miei pensieri con il velluto oscuro della malinconia. Tutto qui respira con me: il lavabo, l’armadio, persino l’orologio che ha ripreso a segnare l’ora con una lentezza esasperante. Ogni rintocco è un battito, un richiamo lontano, una carezza fredda che mi attraversa la pelle e mi ricorda che il tempo, per quanto lento, non si ferma mai davvero.
La notte avanza. La candela si consuma, e la stanza affonda gradualmente in un buio compatto e senza stelle. Rimango seduto, avvolto nel silenzio, come se fossi io stesso un mobile, un oggetto tra gli oggetti, parte di questa grande composizione gotica che si chiama esistenza.
L’oscurità si addensa come un sudario pesante, e la stanza, ora immersa nell’ombra, sembra essersi rimpicciolita, contratta su di me come un cuore avvizzito. Ogni oggetto – le alabarde, l’armadio, persino la mia stessa sedia – pare aver guadagnato un peso nuovo, una gravità invisibile che li trattiene e li fissa in un equilibrio funebre. Il lume, ridotto a un lucignolo morente, proietta sul soffitto spire nere che si attorcigliano come fumo di incenso, evocando figure che solo il mio sguardo stanco può riconoscere.
Mi abbandono alla sedia, e il suo legno rigido mi accoglie con la freddezza di una bara. Le palpebre si abbassano pesanti, ma il sonno non giunge. Sento che questa notte non sarà clemente. C'è un brivido che si insinua tra le pieghe del mio vestito, come se dita invisibili sfiorassero la mia pelle. Forse è il soffio del passato che si leva dalle piastrelle della stufa, forse è l'anima stessa di questa stanza che cerca di sussurrarmi il suo segreto.
All'improvviso, un rumore sottile – il fruscio di un passo, o forse di una mano che sfiora il vetro della finestra – mi strappa dall'apatia. Non mi muovo, ma ogni fibra del mio corpo si tende come quella di un animale braccato. Rimango immobile, e nel silenzio avverto la mia stessa respirazione, lenta e grave come un’eco lontana. L’orologio, l’unico compagno che mi rimane, segna con l’indifferenza del destino l’inesorabile passare dei minuti.
Guardo di nuovo verso la finestra, e attraverso il vetro appannato intravedo qualcosa che dapprima mi appare confuso, incerto, come un’ombra proiettata dalla mia stessa mente. Ma no… quella figura esiste, è reale. È l’uomo di fronte, quello che ogni mattina si rade con gesti meccanici. Egli ora siede con il volto nascosto tra le mani, immobile, come se il peso del giorno lo avesse schiacciato fino a renderlo un’icona del dolore. La sua finestra è buia, ma io so che i suoi occhi, dietro quelle dita, sono spalancati nel vuoto.
Rimango a fissarlo, come ipnotizzato. C’è una strana familiarità in quella posa. È la stessa che ho assunto io, in quelle sere in cui la malinconia si è seduta sulle mie ginocchia come un’amante capricciosa, stringendomi fino a farmi quasi soffocare. Mi sembra che, al di là di quel vetro, egli stia vivendo la mia stessa notte, che i nostri spiriti siano legati da una catena invisibile che attraversa la strada e le nostre esistenze.
E poi, come se il cielo avesse voluto confermare questa impressione, la donna col kimono appare. La sua sagoma si disegna come un'ombra cinese dietro la tenda. Non la vedo chiaramente, ma i suoi movimenti hanno la lentezza di una melodia antica, e mentre ella si avvicina alla finestra, un sottile bagliore – forse di una lampada accesa in un angolo – illumina per un istante la sua figura. Il kimono scivola dalle spalle, e per un attimo, la sua nudità sembra fondersi con l’oscurità circostante, come un fiore che si apre nell’ombra.
Mi sento invadere da una tristezza sorda. Non è il desiderio a tormentarmi, né l’invidia. È il senso di un’esistenza che scorre accanto alla mia, parallela, e che mai si intreccerà con la mia carne. Io sono il testimone silenzioso, il guardiano immobile di questi frammenti di vita che scorrono come acque nere sotto un ponte.
Mi alzo infine, e avvicinandomi alla finestra, poggio la fronte contro il vetro gelido. Là fuori, la notte si è distesa come un drappo funebre sulle case. Tutto tace, ma in quell’immobilità sento il battito muto di questa città addormentata, un battito che si confonde con il mio. La donna ha lasciato la stanza. L’uomo continua a sedere, il volto nascosto. E io, prigioniero di questa visione, rimango fermo, come una statua di cera posta a vegliare su un museo vuoto.
Resto lì, con la fronte appoggiata al vetro, come se potessi fondermi con esso, dissolvermi nella strada che sussurra sotto di me, lasciando dietro solo il riflesso sbiadito di ciò che sono stato. La notte ha un odore denso, umido, che sale dalle pietre della strada come un lamento antico, e io inspiro profondamente, quasi a volerlo trattenere nei polmoni, come il fumo dolciastro di un oppiaceo che addormenta il cuore.
L'uomo di fronte non si è mosso. È ancora lì, nella sua stanza fioca, avvolto da un silenzio pesante, simile a quello che grava sui busti di marmo dimenticati nelle cripte. Mi chiedo cosa stia guardando dietro le sue mani intrecciate. Forse i suoi occhi, celati nell’ombra, vedono mondi che a me sono negati, o forse si limitano a fissare quel vuoto che ci abita tutti, quel vuoto che conosciamo bene ma che ci ostiniamo a ignorare, come un ospite sgradito che si rifiuta di partire.
La donna, lei, è scomparsa. La sua ombra non si disegna più dietro le tende. Forse ora dorme, avvolta nel suo kimono come una farfalla nel bozzolo. Eppure, il suo passaggio ha lasciato una scia invisibile, un profumo lieve che attraversa la strada come una carezza smarrita. La sua assenza mi opprime più della sua presenza. È come se la stanza di fronte si fosse spogliata di un'anima, lasciando solo una cornice vuota, un guscio cavo in cui il tempo non scorre più.
Distolgo lo sguardo e torno a sedermi. La sedia mi accoglie con l’indifferenza severa di una tomba. La candela sulla tavola è ormai ridotta a un mozzicone, una lacrima di cera che si aggrappa disperatamente alla vita. Il suo tremolio danza sulle alabarde nell’angolo, che ora sembrano più vicine, più minacciose, come se durante la mia assenza avessero mosso un passo avanti, un passo che non ho udito ma che il mio istinto percepisce.
La stufa, ormai spenta, si staglia come una cattedrale in rovina, e le sue piastrelle fredde sembrano scolorite, prive del vigore che avevano quando le fiamme ancora ne lambivano i fianchi. L’orologio scandisce il tempo con un suono sordo, quasi soffocato. Ogni rintocco risuona dentro di me come una martellata su un chiodo invisibile.
In quell’istante, la solitudine si manifesta in tutta la sua terribile pienezza. È un essere tangibile, un’ombra che si siede sulle mie ginocchia e mi abbraccia con braccia fredde e nodose. Mi parla, ma le sue parole non hanno suono: sono pensieri che si insinuano nelle pieghe della mia mente, strappandomi via pezzi di ricordi come fiori appassiti gettati da un balcone.
Chiudo gli occhi. Forse dormire, anche solo per un istante, potrebbe darmi tregua. Ma il sonno non viene. Invece, sento un rumore: un fruscio delicato, simile al passo di una gatta su un pavimento di legno. Riapro gli occhi.
E lì, nell’angolo della stanza, c’è una figura. È alta, vestita di nero, e il suo volto è nascosto dall’ombra. Non riesco a capire se sia reale o se sia un’emanazione del mio stesso spirito. Rimane immobile, come una statua intagliata nel buio, eppure la sua presenza grava su di me come un macigno.
«Chi sei?» oso sussurrare.
La figura non risponde. Ma sento che mi osserva. I suoi occhi invisibili trapassano la pelle, arrivano alle ossa, fino a toccare il cuore con dita gelide.
Forse è uno spettro, o forse è solo l’ombra dell’uomo di fronte, evasa dalla sua stanza per trovare rifugio nella mia. In fondo, tra me e lui non c’è molta differenza. Siamo entrambi prigionieri della stessa notte, condannati a guardare il mondo senza poterlo toccare.
La figura resta lì, e io non cerco più di scacciarla. Sento che la sua presenza è inevitabile, come il battito dell’orologio che continua a misurare il tempo anche quando nessuno ascolta.
La figura rimane immobile nell’angolo, scolpita nel silenzio come una sentinella dell’ignoto. Eppure, la sua presenza cresce, si dilata, come se l’ombra avesse messo radici nella stanza e ne succhiasse l’aria. Io resto seduto, prigioniero della mia stessa esistenza, e il lume, prossimo a spegnersi, vibra con la debolezza di una stella morente.
Cerco di distogliere lo sguardo, ma quella sagoma continua a pesarmi addosso come un peccato antico. È una figura senza tempo, senza età, fatta della stessa sostanza delle cattedrali abbandonate e dei sogni che si infrangono all’alba. Forse è la materializzazione della mia coscienza, o forse uno dei mille spettri che popolano questa città, intrappolati tra i muri e i vicoli come anime inquiete in un purgatorio senza porte.
Fuori, la strada tace. I lampioni gettano riflessi pallidi che somigliano a colature di piombo liquido sulle pietre lucide. L’uomo di fronte non si è mosso. È ancora lì, con le mani che gli celano il volto, congelato in quella posa di silenzioso naufragio. La donna col kimono non riappare. Forse si è dissolta nel buio come una visione, lasciandomi solo con la memoria del suo passaggio, effimero come il volo di un uccello che sfiora l’acqua senza toccarla.
Sento il tempo scivolare via, lento e inarrestabile. Ogni secondo che passa è un battito che mi allontana da qualcosa, o da qualcuno, che non riesco a nominare. Forse da me stesso.
La figura, intanto, si avvicina. Non cammina, eppure è più vicina di prima. I contorni si fanno più nitidi, e la sua forma diventa quasi umana, ma non del tutto. È come se la notte avesse deciso di assumere carne e ossa, e ora stesse prendendo il mio posto, adagio, con la pazienza crudele di chi sa di non poter essere scacciato.
Vorrei parlare, ma ogni parola muore prima di nascere. Nella gola, sento una pietra, e sulle labbra, solo silenzio.
L’orologio suona. È mezzanotte. Il rintocco riempie la stanza come un colpo di martello sulla lapide di un sepolcro. La figura, allora, scompare. Non evapora, non si dissolve. È come se non fosse mai esistita. Solo l’ombra dietro la mia sedia sembra più densa, più cupa, come se ne avesse assorbito la traccia.
Resto solo. La stanza riprende la sua immobilità consueta, eppure qualcosa è cambiato. Mi alzo e torno alla finestra. L’uomo di fronte è svanito. La sua stanza è vuota, fredda, come un quadro senza figura.
La notte continua, ma io non sono più lo stesso. C’è un peso nuovo nelle mie mani, un freddo che non appartiene al clima ma a qualcosa di più profondo, radicato nelle viscere. Chiudo le tende, soffoco il lume con un soffio e mi abbandono al buio.
Forse domani il sole sorgerà. O forse no. In questa stanza, il tempo è solo un’illusione, un velo sottile che la notte può squarciare a suo piacimento.
La stanza si fa culla di una quiete irreale, ma non è la pace degli angeli: è il silenzio greve che precede il naufragio. Sotto il velo scuro della notte, ogni cosa sembra trattenere il respiro. Perfino le tende pendono immobili, come se il tessuto temesse di frusciare e tradire la sua presenza a qualche entità invisibile.
Mi distendo sul letto, ma il sonno si tiene a distanza, mi scruta con occhi vuoti dall’altra parte della stanza. Ogni volta che chiudo le palpebre, la figura che credevo svanita torna a proiettarsi sullo schermo della mia mente, come un’ombra insistente che non si lascia scacciare.
D’improvviso, un suono: lieve, discreto, come se un dito esitante avesse sfiorato la maniglia della porta. Rimango immobile, con il cuore che batte lento e profondo, quasi a scandire i passi di un corteo funebre.
Chi può essere? Nessuno viene mai a cercarmi, nessuno si avventura in questo rifugio di solitudine. La mia vita è un'isola deserta, e ogni ponte che conduceva al mondo è stato abbattuto con volontà feroce.
Un secondo suono: questa volta più deciso, simile a un battito sommesso. Mi alzo, e ogni movimento del mio corpo sembra stridere contro l’aria densa. Raggiungo la porta con la cautela di chi avanza su un campo minato.
Apro.
Nel corridoio, il buio si stende come un mare in tempesta. La luce tremolante di una lampada fioca, alla fine del corridoio, getta lunghe ombre che si allungano come braccia contorte. Non c’è nessuno. Solo il vuoto, colmo di una presenza inafferrabile.
Richiudo la porta, ma ormai la stanza non è più la stessa. Qualcosa è entrato, qualcosa che non ha bisogno di corpo per esistere. Mi siedo e fisso la stufa, come se in quelle piastrelle dipinte potessi trovare risposte. I disegni sembrano vibrare nel chiaroscuro della fiamma morente, e le figure si contorcono in una danza macabra.
Forse sto sognando. Forse il sonno è finalmente venuto, senza che me ne accorgessi, e tutto questo non è che un’eco deformata del giorno che mi ha preceduto.
Ma allora perché sento quella presenza dietro di me?
Mi volto di scatto.
Nulla.
Solo la mia sedia vuota, che mi guarda con indifferenza, come se non avesse mai accolto il peso del mio corpo.
Eppure, per un istante, ho creduto di vedere qualcosa. Un’ombra che sfuggiva all’angolo del mio occhio, come un gatto nero che scivola veloce nella notte.
Mi stringo nelle spalle e torno alla finestra. L’uomo di fronte non è ricomparso. La stanza di fronte rimane spoglia, come una bocca che si apre sul nulla.
In quel momento capisco.
La figura che ho visto non era uno spettro venuto da fuori.
Era qualcosa che esiste da sempre, annidato nel fondo della mia anima.
Era la mia solitudine, che questa notte ha deciso di manifestarsi sotto forma di corpo.
Rimango alla finestra, il vetro freddo contro la fronte, mentre il respiro lento della notte avvolge la città come un sudario. Ogni pietra là fuori sembra pregna di un’oscurità viva, un’oscurità che non si limita a velare le cose ma le trasfigura, conferendo loro un’aura di mistero e minaccia. I palazzi che di giorno sembravano stanchi monumenti alla mediocrità borghese, ora si ergono come fortezze gotiche, gravide di segreti, di fantasmi dimenticati dietro persiane accostate.
E io, parte di questo scenario, mi sento più spettro che uomo.
Là fuori, nessuno passa. Il mondo sembra essersi ritratto, come se la notte avesse cancellato le strade sotto i piedi dei passanti, lasciando solo me e la mia ombra a testimoniare l'esistenza di un tempo che scorre senza meta.
Mi volto verso la stanza. È ancora lì, intatta nella sua severità. L’armadio gotico, le alabarde, il lavabo che, nel buio, ha la forma di un calice colmo di un liquido nero e immobile. Eppure, ogni cosa sembra lontana, come se tra me e la realtà si fosse steso un velo sottile, trasparente, ma inaccessibile.
Mi siedo di nuovo. L’orologio, con la sua monotonia implacabile, continua a segnare il tempo, ma ogni rintocco sembra vuoto, privo di significato. Mi chiedo se in questa notte il tempo stesso abbia deciso di arrestarsi, lasciandomi imprigionato in una bolla di immobilità.
All’improvviso, un pensiero mi assale, freddo come una lama: e se tutto ciò che vedo fosse solo il riflesso di una stanza che non esiste più? E se fossi già morto, sepolto sotto strati di silenzio, e questa stanza non fosse altro che l’eco di un’esistenza che si ostina a ripetersi, prigioniera della memoria?
La candela sul tavolo si spegne con un sospiro, lasciandomi solo con il respiro affannoso della mia stessa mente.
Eppure, in quella tenebra assoluta, sento un’ombra muoversi. Non posso vederla, ma ne percepisco il peso, la gravità opprimente che spinge contro il mio petto.
«Tu ci sei sempre stato», sussurro. Non so a chi mi rivolgo, se alla figura che per un attimo ha occupato la stanza o al vuoto stesso che ora mi osserva con occhi invisibili.
La sedia di fronte a me scricchiola. Non l’ho mai udita emettere alcun suono prima d’ora. Eppure, eccola lì, come se qualcuno vi si fosse seduto.
Sento il battito del cuore accelerare, ma rimango fermo. È una sfida, un duello silenzioso tra me e questo spettro che ha scelto di farmi visita.
«Cosa vuoi?» domando.
Non c’è risposta. Solo il fruscio lieve del vento che penetra dalle fessure della finestra, simile a un sussurro lontano.
Ma in quel sussurro, colgo parole.
“Sono il riflesso che hai temuto di riconoscere.”
Mi alzo. La stanza ruota intorno a me come un vortice, ma io resto saldo, ancorato al pavimento. Apro la porta di scatto e fisso il corridoio.
Nessuno. Solo l’ombra della lampada che ondeggia lenta, gettando lunghe lingue nere sulle pareti screpolate.
Eppure, ora lo so.
Quella figura che credevo venuta dall’esterno, non ha mai oltrepassato alcuna soglia.
È sempre stata qui.
Era seduta accanto a me, nel cuore della mia solitudine, sin dal primo giorno in cui misi piede in questa stanza.
Mi ritraggo nel vano della porta come un ladro colto in flagrante, ma non sono io l’intruso in questa notte. O forse sì, e tutta la stanza, con le sue ombre lunghe e le sue presenze silenziose, non è che il vero padrone di casa, e io l’ospite mal tollerato, l’abusivo che si ostina a credersi vivo.
Richiudo la porta con lentezza, temendo che un gesto troppo brusco possa risvegliare qualcosa che fino a ora ha dormito nelle fessure delle pareti. La serratura scatta con un suono che mi pare assordante, come uno sparo nel deserto. Poi torno alla sedia, e il suo cigolio, che di solito mi irrita, mi appare ora rassicurante, come il lamento di un vecchio amico che si ostina a restarmi accanto.
Rimango così, con le mani abbandonate sulle ginocchia, mentre l’ombra della mia figura si proietta allungata contro l’armadio gotico. L’orologio non ha smesso di scandire il tempo, ma ogni rintocco sembra provenire da un luogo più remoto, come se il meccanismo si fosse trasferito in una dimensione parallela, dove il tempo scorre a ritroso.
Un pensiero mi attraversa con la rapidità di una lama sottile: se smetto di ascoltare, il tempo smetterà di esistere.
Chiudo gli occhi, e il silenzio si stende su di me come un sudario. Ma non è il silenzio di chi riposa: è quello che avvolge le tombe dimenticate, quello che sigilla i sogni mai nati.
E nel cuore di quel silenzio, sento di nuovo il fruscio.
Non provo più paura. C’è, in questa presenza, qualcosa di inevitabile, di antico. È la compagna di tutte le mie notti, il doppio che da sempre mi osserva mentre io, ignaro, tento di riempire le ore con pensieri futili e inutili letture.
Apro gli occhi e lei è lì.
Non la vedo con chiarezza, ma ne percepisco i contorni come un'ombra più scura del buio che la circonda. Non parla, non si muove. È solo un riflesso senza specchio, un'eco senza voce.
Eppure, qualcosa in me si scioglie. Come se la sua presenza, per quanto inquietante, portasse con sé una promessa di comunione, di appartenenza. Forse, in questa notte infinita, non sono più solo.
«Allora,» mormoro con un sorriso stanco, «accomodati. Resteremo svegli insieme.»
La figura non risponde, ma sento il suo peso sulla sedia di fronte, un’ombra che si adagia con la lentezza di chi non ha fretta.
Il lume ormai spento non proietta alcuna luce, eppure, nella stanza, qualcosa brilla. È l’eco di una consapevolezza nuova, il lume interiore che si accende quando si smette di fuggire e si abbraccia l’inevitabile.
E così rimaniamo, io e la mia ombra, come due vecchi amici che non hanno bisogno di parole per capirsi.
Il tempo, come un veleno dolce, si allunga e si torce, sfilandosi tra le fessure della mia mente come un serpente che si perde nell'ombra. La figura davanti a me è ora parte di questa oscurità che non ha né inizio né fine, ma che ci avvolge inesorabile. Ogni angolo della stanza è impregnato di una quiete che non è mai totale, ma piuttosto un silenzio che cova sotto la pelle, pronto a esplodere in un grido muto. La sua presenza, non umana, ma neppure totalmente astratta, mi sembra ormai naturale, come un viso che non avevo mai visto, ma che, da sempre, apparteneva a questo luogo.
Resto immobile, il respiro affannoso che rompe la monotonia del silenzio. Un battito, due, tre. Quattro. L'inquietudine cresce come la marea, eppure non c'è niente di reale, niente che possa toccarmi o scalfirmi. Solo l'ombra, la sua ombra, che mi sfiora, mi accarezza come una carezza di morte. La stanza è come un palcoscenico, e io, l'attore senza ruolo, recito la mia parte in un dramma senza fine.
Il pavimento scricchiola sotto i miei piedi, un lamento che si mescola con il ronzio delle mie tempie. Eppure, l'ombra non si muove. È immobile, ma in quella immobilità c'è più di un movimento, c'è un respiro che pulsa dietro il sipario della realtà. La sua presenza mi satura, come se ogni fibra della mia carne fosse presa in un abbraccio che non posso sfuggire.
«Che vuoi da me?» sussurro, ma la voce mi sembra lontana, quasi estranea. È la mia voce, ma non la riconosco più. È come il suono di una campana che annuncia la fine, ma non so ancora quale fine.
Non c'è risposta, ma la figura si avvicina. Non con passi, ma con una lentezza perfetta, un movimento che sembra fuori dal tempo, fuori dalla dimensione terrena. La sua forma si dissolve nella notte, per poi ricomporsi, più vicina, più definita. Sento un freddo, come se la sua presenza stesse congelando l'aria stessa.
Non ho paura. O forse sì, ma la paura si è mescolata a un sentimento che non posso identificare: curiosità, rimorso, desiderio di abbandono. Non lo so. Sento solo che la sua vicinanza è come un'abitudine che mi ha sorpreso, un'amica che bussa alla mia porta per ricordarmi che non sono mai stato solo.
Lì, in quel respiro condiviso, la stanza si trasforma. Non è più il mio rifugio, ma una tomba, un tempio di ombre e sogni spezzati. Il lavabo diventa un altarino, la sedia il trono di un sovrano invisibile, e l'armadio, con i suoi vetri deformati, una vetrina di anime perdute. Ogni oggetto della stanza si carica di significato, come se, per un attimo, il mondo intero si fosse condensato in questa dimensione che non è né vita né morte.
Nel buio, vedo i suoi occhi. Non sono occhi come li intendevo prima: non sono vuoti né pieni. Sono occhi che guardano nel profondo, che leggono oltre le parole, che conoscono il mio peccato e la mia innocenza. Mi osservano come se fossi la sua preda e il suo salvatore, il sogno che non ha mai smesso di cercare.
«Cosa vuoi?» ripeto, questa volta con più forza, ma la risposta arriva in un sussurro che non proviene dalla figura, ma dal mio stesso cuore.
“Voglio ciò che non può essere avuto. Voglio ciò che non può essere compreso.”
Il suono della sua voce, seppur muta, penetra nella mia carne, mi inonda. E in quel momento capisco. Non è la morte che mi cerca, non è la solitudine che mi avvolge. È il desiderio, il desiderio di possedere e di essere posseduto, di fondere ogni speranza e ogni paura in un unico respiro.
Mi alzo, e senza più esitazione, vado incontro a quella figura che mi ha chiamato. Le sue mani, che non posso vedere, ma che so essere tese verso di me, sono il ponte tra il mondo e l’inferno, il luogo dove il reale e l’immaginario si annullano.
Mi afferro a essa, e insieme ci perdiamo nel buio.
Il buio ci avvolge, e nella sua densità mi sembra di galleggiare, sospeso tra il mondo che conosco e quello che mi sta per inghiottire. Non c'è più distanza tra me e l'ombra che mi ha accolto; non c'è più spazio né tempo. Tutto ciò che esiste è la sensazione di un abisso che mi respira addosso, di un desiderio insaziabile che si nutre di me. Non sono più un uomo, né un sogno, né una paura. Sono solo una presenza che si fonde con la notte, un'emozione che non ha forma né nome.
Le sue mani, che ora sento afferrarmi, non sono più fredde né calde. Sono mani senza sostanza, che non cercano di possedermi, ma di dissolvermi. Ogni tocco è un graffio invisibile sulla mia anima, un segno che mi annuncia che non c'è più nulla da cercare. Eppure, in questo svanire, trovo una strana pace, un sollievo che non sapevo esistesse. La mia esistenza si liquefa come cera sotto il fuoco, e mi abbandono alla fiamma, senza resistenza, senza lotta.
«Finalmente,» mormoro, come un amante che si arrende a un destino atteso da una vita intera. Ma la mia voce è un eco distante, uno spettro che si perde nel vuoto. Non sono più sicuro se le parole che pronuncio siano mie o se vengano da un altro, da un'altra vita che non ricordo.
Sento il respiro dell'ombra che mi circonda, come un vento che si insinua tra le pieghe della mia carne. Non è più un'entità separata da me; è la mia stessa carne che si disgrega, che si dissolve, che diventa polvere e silenzio. Eppure, in questo dissolversi, c'è una sublimazione, una liberazione da tutto ciò che mi ha legato al mondo.
Il mondo, intanto, fuori dalla mia prigione di tenebra, è scomparso. Non esistono più i rumori della città, non esistono più i passi degli uomini che una volta camminavano su strade calpestate e conosciute. La mia mente è svanita insieme al corpo, ed è come se io stesso avessi smesso di appartenere a questa realtà. Ogni cosa che tocchiamo, ogni cosa che vediamo, è solo un riflesso, un miraggio, un gioco della nostra mente che si rifiuta di morire.
Non c'è più nulla da temere, perché niente ha più peso. Non esiste più il desiderio di possedere, né la paura di perdere. La figura che mi accompagna non è né un angelo né un demone, è il mio unico compagno, la mia unica verità, ed è come se fosse sempre stata accanto a me, anche prima di questo incontro, anche prima che la mia mente l'avesse riconosciuta.
Tutto ciò che resta è il respiro, lento, regolare, come il battito di un cuore che non smette di battere anche quando il corpo è perduto. E in questo respiro, sento la mia dissoluzione, la mia fusione con l'infinito, con l'ombra che mi ha scelto e che ora mi possiede senza il bisogno di parole.
Non sono più solo, non sono più intero, ma forse, finalmente, sono completo.
La stanza, ormai priva di confini, non è più un rifugio, né un luogo da cui fuggire. È la mia prigione e il mio altare, il sito di un sacrificio che non chiede né perdono né redenzione. La figura che mi accompagna non è più un’ombra, ma una presenza tangibile, che mi avvolge come un manto di velluto lacerato dal tempo. Eppure non avverto il suo contatto; è un’energia sottile che mi penetra senza lasciare tracce, come un veleno che scivola nel sangue senza rivelarsi.
Ogni cosa che tocco è carica di una strana intensità, come se avesse smesso di appartenere a questo mondo per trasferirsi in una dimensione parallela, fatta di memoria e di desiderio. Le pareti, ora, si sollevano con lentezza, rivelando angoli che non avevo mai visto, spazi che si deformano e si moltiplicano, come un sogno che si dissolve appena tenti di afferrarlo. Non so più dove finisce la mia carne e dove inizia la stanza. Non so più se esisto davvero o se sono un’illusione che vive di riflessi.
Il pavimento sotto i miei piedi scricchiola, e il suono, che di solito mi avrebbe messo in allarme, ora mi appare come una musica lontana, una melodia funebre che accompagna il mio lento dissolversi. Non c’è più paura. Non c’è più dolore. Solo una calma sconcertante, quella calma che segue la tempesta, quando l’anima si è abituata a sopportare l’insostenibile.
«Non c’è più nulla,» sussurro a me stesso, come un mantra che mi scivola via dalle labbra senza alcuna emozione. Ma nel mio cuore, sento una crepa. Non è un dolore. È il riconoscimento di qualcosa che avevo dimenticato, o forse che non avevo mai veramente conosciuto: la nostalgia per un mondo che non mi ha mai accolto, che non mi ha mai voluto.
La figura, che ora è così vicina da riempire ogni angolo della mia percezione, sembra sorridere. Non posso vederla, ma so che sorride. La sua bocca, seppur invisibile, si apre in un gesto che non è né di benevolenza né di crudeltà. È solo un sorriso, e nel suo mistero sta la chiave di tutto ciò che non comprendo, di tutto ciò che mi è sfuggito nel mio vagare senza meta.
«Cosa cerchi?» mi trovo a chiedere, ma non mi sorprendo. Non è una domanda rivolta a un altro, ma a me stesso, una domanda che mi sovviene come un richiamo dal profondo, un’esigenza di rispondere alla mia stessa assenza.
E la risposta arriva, non in parole, ma in una sensazione: "Cercavi la fine, ma non sapevi che la fine è solo un inizio."
Mi ritraggo, ma non posso scappare. La porta, che credevo chiusa, non esiste più. Il corridoio, che una volta conduceva all'uscita, è solo un riflesso, un gioco di luci e ombre che non ha più direzione. Mi trovo sospeso, come se fossi intrappolato tra le pieghe di un tempo che non scorre più, come se il mondo esterno fosse solo una fantasia che ho smesso di nutrire.
Eppure, in quel momento di stasi, qualcosa dentro di me si muove. Non è il corpo, ma la mente, che si fa strada tra le nebbie della mia esistenza. Un pensiero, un desiderio antico, emerge dalle profondità, come un urlo muto che mi scuote. "Voglio vedere, voglio sentire, voglio tornare."
Ma la figura, sempre più vicina, non mi lascia spazio. Non è nemica, ma non è nemmeno amica. È il principio e la fine di tutto ciò che sono, il punto di convergenza di tutte le mie illusioni.
E così mi arrendo, perché non posso più combattere contro ciò che mi ha sempre accompagnato: il mio stesso riflesso.
Mi abbandono, come un fiume che cessa di lottare contro la roccia, e l'oscurità mi inghiotte con la dolcezza di una promessa tradita. Non c'è più spazio per la lotta, né per la speranza; tutto è consumato, e il mio spirito, ormai svuotato, fluttua nell'aria come una fragranza che si disperde senza lasciare traccia. Non so più se sto respirando o se sono diventato l’aria stessa, né se sono io a guardare l’ombra o se è l’ombra a osservare me. In questo abisso senza tempo, io sono ciò che non ha forma, il pensiero che non si esprime, il desiderio che non conosce più nome.
La figura, quella presenza indefinibile che ora mi avvolge con il suo sguardo muto, sembra immergersi in me come un'onda che non si frange mai. Le sue mani, che non tocco, sembrano attraversarmi, penetrarmi come una nebbia sottile che non lascia segno. Eppure, mi rendo conto, in un angolo lontano della mia mente, che ogni fibra del mio essere è attraversata dalla sua essenza, come se non fossi più un uomo, ma un contenitore vuoto che si riempie e si svuota ad ogni battito di cuore.
C'è una bellezza in questo annichilimento, una bellezza che non è fatta di forme, né di colori, né di linee. È una bellezza che risiede nel vuoto, che si nutre della stessa solitudine che mi consuma. Mi vedo, ma non mi riconosco più. Sono solo uno spettro di ciò che ero, e la mia esistenza, ora, è solo un fruscio, il passaggio di una luce che non brilla più. Sono l'eco di un sogno che non è mai stato mio.
Il silenzio che regna intorno a me è profondo e vasto, come il mare che si distende oltre l’orizzonte, ma è un silenzio che non spaventa. È il silenzio che segue la fine di un incubo, la pace che precede una morte che non ha più significato. Il tempo non esiste più, e io sono sospeso tra due attimi, tra due esistenze che non si toccano mai, come due nuvole che fluttuano in un cielo senza stelle.
Non c'è più luce, eppure vedo. Non c'è più calore, eppure sento. La figura, che ora sembra diluirsi come un fumo nel vento, mi guida senza parlare. Non c'è più bisogno di parole, perché il nostro silenzio è diventato lingua, la nostra assenza un linguaggio che non ha confini. Mi lascio condurre, ma non so più dove. Non importa. Ogni passo che compio mi allontana dal mondo che conoscevo, eppure non c'è più nulla da cui fuggire.
Il mio corpo non risponde più come una volta. Ogni gesto è privo di volontà, ogni movimento è il risultato di un impulso che non è mio. Eppure, in questo svuotamento, trovo un’implacabile libertà. Non sono più il mio corpo, né la mia mente. Sono il vuoto che mi circonda, e l’infinito che non ha fine.
Poi, in un attimo che sembra durare un’eternità, la figura si ferma. Non è più un'ombra, non è più un'entità: è diventata parte di me, come se fosse sempre stata nascosta in un angolo della mia carne, pronta ad emergere quando avrei smesso di oppormi. È la mia verità, nuda e indifesa, la parte di me che non avrei mai voluto affrontare, ma che ora accetto senza resistenza.
Mi piego, come una pianta che cede al vento, e senza volerlo, senza poterlo fermare, un sorriso si forma sulle mie labbra. È un sorriso di resa, ma anche di comprensione. Perché, in fondo, tutto ciò che mi è accaduto non è altro che un ritorno, un ritorno a me stesso, all’essenza che mi ha preceduto e che mi sopravvivrà. La figura, ora, non è più separata da me. È me. E in questa fusione, io sono finalmente intero.
La stanza, ora, si è trasformata in un luogo senza dimensioni, un’eco di ciò che era, un involucro che si sta disgregando. Non c'è più distinzione tra il mio corpo e le pareti, non più tra il mio respiro e l'aria che mi circonda. Ogni angolo, ogni ombra, ogni fruscio sembra un’appendice di me, una manifestazione di un pensiero che ha cessato di pensare. Non c'è più il desiderio di agire, di reagire, di respirare. La mia esistenza è ormai un movimento involontario, il flusso di un essere che si è dissolto nel suo stesso riflesso.
Il sorriso, che ancora si affaccia sul mio volto come un vestigio di un’umanità perduta, non è più un’espressione di piacere o di tristezza. È il segno di una liberazione che non richiede salvezza. Le labbra si incurvano, sì, ma non c'è gioia, solo una quieta rassegnazione. Non ho più paura. Non c'è più nulla da temere, perché tutto ciò che mi circonda è diventato parte di un unico destino, di un’unica, indifferente verità.
L’ombra che mi ha accompagnato si è fatta carne, ha preso forma e sostanza, come un parassita che si è radicato nell’essere, un’intimità che non ha bisogno di svelarsi, perché è già svelata. È il mio doppio, il mio segreto, il mio occhio interiore che scruta e giudica, ma non è più separato da me. Non c'è più divisione. In questo incontro, questa fusione senza scampo, io sono finalmente solo ciò che sono: nient’altro che un respiro che si confonde con il vento, un pensiero che evapora nell’aria.
Eppure, nell’oscurità che mi avvolge, vedo tutto. Non con gli occhi, ma con l'anima, che ha smesso di tremare. Ogni dettaglio che prima mi sfuggiva è ora esposto, come un’opera d'arte che si svela al suo pubblico: le macchie sulla parete, la polvere che giace nei angoli, il rumore lontano di una carrozza che ancora segna il passo nell’illusione di una strada che non esiste. La città, ora, è solo un ricordo sfocato, un’immagine riflessa nell’acqua di un fiume che scorre, senza mai arrivare da nessuna parte.
Il mondo non è più una realtà tangibile, ma una proiezione che si dissolve ogni volta che la guardo. Eppure, nel dissolversi, esso si rinnova, come un fiore che sboccia solo per appassire immediatamente. Non c'è nulla di stabile, niente di certo. Eppure tutto, in questo caos, è perfetto nella sua ineffabilità, nella sua incomprensibilità. Sono prigioniero di un paradiso che non è mai esistito, una libertà che non è mai stata mia.
La figura, ora, è tornata in silenzio, ma il suo respiro, come il mio, è diventato uno con il mio. Non ci sono più confini tra ciò che è mio e ciò che è suo, tra il corpo e l’anima, tra la luce e l’ombra. È il punto di congiunzione di tutte le cose, e in questo punto non c'è più alcuna separazione, alcuna lotta.
Mi piego di nuovo, ma non c'è sottomissione. La mia curva non è il gesto di chi si arrende, ma di chi accetta la sua natura, finalmente. Non c'è più il sogno di un futuro, né il peso del passato. Esisto solo in questo istante, dove il tempo si è fermato e ogni cosa è sospesa. Non c'è più né il dolore della carne né il tormento dell'anima, solo una pace che non è quiete, ma una continua oscillazione tra l’essere e il non-essere, tra il vuoto e la pienezza.
Eppure, in questa immensa calma, percepisco una pulsazione, un battito che viene da lontano, dal profondo di me stesso. È la vita, forse, che torna a toccarmi, o forse è la morte che mi sfiora con una carezza che mi dissolve nel suo abbraccio. Ma non importa. Non c’è più alcuna separazione tra vita e morte, tra esistenza e non-esistenza. Sono una sola cosa, un solo movimento che si espande nell’infinito, come un fiore che sboccia per svanire senza lasciare traccia.
E infine, in questa visione infinita, mi rendo conto che non esiste più la domanda. Non c’è più la ricerca di una risposta. Tutto è compiuto, tutto è compreso, tutto è stato detto senza parole. La figura non è più necessaria, né lo sono io. Siamo il silenzio che segue il verbo, la fine che è anche inizio. La perfezione non è un obiettivo, ma un abbandono. E, nell’abbandono, troviamo l’eternità.