Ma cosa significa acquistare il nulla? Secondo Garau, il valore di "Io sono" risiede proprio nell’assenza: l’opera esiste nella mente di chi la contempla e si manifesta nello spazio designato, che deve essere di almeno 1,5 x 1,5 metri, libero da ostacoli. Un concetto che riecheggia esperimenti precedenti, come la celebre banana di Maurizio Cattelan, il cui prezzo stratosferico fece scalpore proprio per la sua effimera semplicità.
L’arte invisibile non è una novità per Garau. Già con "Afrodite piange", installata idealmente davanti alla Borsa di New York, l’artista aveva esplorato il confine tra il visibile e l’intangibile. L’opera, segnalata solo da un cerchio di nastro adesivo bianco sul marciapiede, esisteva esclusivamente nella percezione del pubblico, sostenuta dall’Istituto Italiano di Cultura di New York.
La vendita di "Io sono" ha scatenato reazioni contrastanti: c’è chi la definisce una provocazione geniale e chi un’astuta trovata di mercato. Il punto, per Garau, è proprio questo: se l’arte è un’esperienza, non è necessario che sia tangibile. Ed è proprio il vuoto a riempire di significato la discussione, dimostrando che, nel contemporaneo, anche l’assenza può diventare presenza.
Non si tratta solo di un gioco concettuale, ma di una riflessione profonda sul ruolo dell’arte nella società attuale. In un mondo sempre più virtuale, in cui il digitale ha soppiantato la materialità, le opere di Garau interrogano il nostro bisogno di possesso e la nostra relazione con l’invisibile. Acquistare una scultura che non si vede diventa un atto di fede nell’intangibile, una sorta di investimento sulla percezione e sulla capacità dell’individuo di dare significato a ciò che non può essere toccato.
La storia dell’arte è costellata di momenti in cui l’idea ha prevalso sulla materia, basti pensare al movimento concettuale degli anni ’60 e ’70 o alle performance di artisti come Yves Klein, che con i suoi "pittori invisibili" anticipava in parte la logica di Garau. Anche Marcel Duchamp, con il suo ready-made "Fontana", aveva spostato l’attenzione dall’oggetto in sé al contesto e all’intenzione dell’artista.
La provocazione di Garau è quindi solo l’ultimo tassello di una lunga tradizione. Ma il vero interrogativo rimane: fino a che punto il pubblico è disposto ad accettare l’arte come pura idea? E soprattutto, chi decide cosa è arte e cosa no? La vendita di "Io sono" non è solo una transazione economica, ma un esperimento che mette alla prova il mercato dell’arte e le sue dinamiche, portando alla luce contraddizioni e interrogativi destinati a rimanere aperti.
Molti critici d’arte e storici hanno cercato di contestualizzare l’operazione di Garau, paragonandola alle avanguardie storiche. Il dadaismo, il surrealismo e il concettualismo hanno più volte messo in discussione la necessità della materia nell’arte. Man Ray, ad esempio, creava oggetti impossibili, Duchamp ribaltava la funzione degli oggetti quotidiani, e più recentemente artisti come Damien Hirst hanno sfidato il mercato con opere che giocano sul valore simbolico ed economico dell’arte.
D’altra parte, c’è chi vede in Garau non un innovatore, ma un astuto uomo di mercato, capace di sfruttare il desiderio di esclusività e unicità che anima i collezionisti. Non è un caso che molte opere contemporanee siano valutate più per il loro impatto mediatico che per la loro effettiva esistenza fisica.
In fondo, il caso di "Io sono" spinge a interrogarsi sulla natura stessa del collezionismo: possedere un’opera d’arte significa davvero possedere qualcosa? O piuttosto significa possedere un’idea, un concetto, un’esperienza? La risposta, come sempre, dipende dallo sguardo di chi osserva. E forse, proprio questo è il più grande successo di Garau: costringerci a guardare il nulla, e a trovarci qualcosa dentro.
L’aspetto più interessante di questa operazione artistica è forse il suo valore sociologico. Garau non solo sfida le convenzioni del mondo dell’arte, ma anche le nostre abitudini di consumo e il modo in cui diamo valore alle cose. Viviamo in un’epoca in cui le criptovalute, le NFT e altre forme di proprietà immateriali sono diventate beni di scambio riconosciuti, e in questo contesto "Io sono" sembra inserirsi perfettamente. Se possiamo pagare milioni per un codice digitale che rappresenta un’opera d’arte, perché non farlo per un’opera che esiste solo nella nostra percezione?
Ciò che fa discutere, tuttavia, è la dinamica commerciale che si cela dietro a queste operazioni. È arte, marketing o una semplice speculazione? La risposta potrebbe non essere univoca. Quel che è certo è che opere come quelle di Garau ci spingono a riflettere sulla nostra relazione con l’arte e sul modo in cui le opere acquistano valore, non solo economico, ma anche culturale e simbolico.
Alla fine, "Io sono" non è solo un’opera, ma un punto di domanda: cosa significa davvero creare e possedere qualcosa? E quanto siamo disposti a pagare per un’idea? Forse l’arte non è più solo ciò che vediamo, ma ciò che siamo disposti a credere.