mercoledì 26 febbraio 2025

Carlo Carrà: l’arte di un poeta della realtà e dell’invisibile


Carlo Carrà è uno degli artisti che ha saputo meglio interpretare la complessità del suo tempo, con un linguaggio visivo che spazia dalle prime esperimentazioni divisioniste alla riflessione metafisica e infine alla sintesi di forme e colori che caratterizza la sua maturità. La sua ricerca è un cammino incessante, un continuo passaggio da una fase all’altra, alla ricerca non solo di una rinnovata espressione pittorica, ma anche di un linguaggio che sapesse rispondere alle inquietudini del suo tempo, a un’epoca che viveva un cambiamento radicale sia dal punto di vista sociale che culturale. Carrà è stato un pittore che non si è mai accontentato di adattarsi alle mode artistiche del momento, ma ha sempre cercato di andare oltre, alla scoperta di una realtà più profonda, più essenziale, che potesse parlare non solo all’intelletto, ma anche al cuore.

Un inizio nel segno di Segantini: Divisionismo e Simbolismo

Il percorso artistico di Carrà ha inizio in un contesto culturale che affonda le radici nelle tradizioni artistiche più consolidati, ma si caratterizza anche per una grande apertura verso le innovazioni che stanno attraversando l’Europa in quegli anni. Le sue prime opere risentono fortemente dell'influenza di Giovanni Segantini, uno dei principali esponenti del Divisionismo, corrente pittorica che si proponeva di analizzare il colore attraverso un approccio quasi scientifico, frammentando la luce in un’infinità di piccole pennellate. Il Divisionismo aveva come obiettivo quello di restituire l'effetto della luce naturale, studiandone le sfumature, le ombre e i riflessi, e in questa dimensione, Carrà si trova immediatamente a suo agio, sperimentando con il paesaggio e con la figura umana, cercando di restituire il movimento e l’essenza delle cose attraverso la frammentazione del colore.

In questo periodo, l’artista dipinge opere di grande intensità e forza, come Autunno (1908), che raffigura un paesaggio denso di significato simbolico, e Uscita da teatro (1909), un’opera che coglie la sensazione di incertezza e disorientamento che caratterizza l’epoca. Ma Carrà non è un semplice seguace di una corrente: è un artista che, pur riconoscendo la qualità e l'importanza del Divisionismo, sente il bisogno di andare oltre, di liberarsi da una pittura che, pur precisa e scientifica, gli sembra troppo legata a un concetto di bellezza e realtà troppo superficialmente intesa. Inizia a interrogarsi su cosa ci sia oltre la superficie delle cose, e questa riflessione lo porta, in breve tempo, a rifiutare l’approccio strettamente naturalistico del Divisionismo in favore di un’indagine più profonda, che sfocia nel Simbolismo, un movimento che si proponeva di esprimere non la realtà in senso stretto, ma il mondo invisibile delle emozioni, dei sogni e delle suggestioni.

L’incontro con il Futurismo: il desiderio di movimento e modernità

Nel 1910, Carrà entra in contatto con il Futurismo, il movimento che, sotto la guida di Filippo Tommaso Marinetti, aveva come obiettivo quello di rompere con la tradizione e abbracciare l’energia e la velocità del mondo moderno. Il Futurismo è una corrente che celebra il dinamismo, la macchina, la velocità e l'industrializzazione, e proprio questa esaltazione del movimento e della modernità colpisce profondamente Carrà, che vede nel Futurismo la possibilità di esprimere l'energia e la frenesia della vita urbana. La sua adesione iniziale al movimento è totale: il pittore si immerge completamente nel mondo futurista, sperimentando con il ritmo, la velocità e la forza, e cercando di rappresentare il movimento, non più solo attraverso la staticità della forma, ma utilizzando l'energia che scaturisce dal dinamismo della vita moderna.

Opere come La città che sale (1910) esprimono questa nuova dimensione della pittura di Carrà, dove l’energia, la velocità e il dinamismo si mescolano con la potenza delle linee e dei colori, dando vita a una rappresentazione del mondo che sembra quasi esplodere di vitalità. Tuttavia, la sua adesione al Futurismo è destinata a non durare a lungo: pur essendo entusiasta della possibilità di rappresentare la velocità e il movimento, Carrà inizia a percepire che il Futurismo, con la sua esaltazione della macchina e della velocità, non basta a soddisfare le sue esigenze più profonde. L’artista, che ha sempre cercato un’arte che fosse capace di parlare dell’essenza dell’esistenza, non è disposto a rinunciare alla profondità e alla riflessione che caratterizzano il suo lavoro. Il Futurismo non è più la risposta alle sue domande, e il pittore si distacca progressivamente dal movimento, alla ricerca di una nuova forma espressiva che possa conciliare la modernità con una riflessione più intima e universale.

La pittura metafisica: l’incontro con de Chirico e l’esplorazione del mistero

L'incontro con Giorgio de Chirico segna un altro capitolo fondamentale nella carriera di Carrà. La pittura metafisica, che de Chirico sviluppa a partire dai primi anni del Novecento, si propone di rappresentare un mondo che appare al tempo stesso familiare e misterioso, un mondo dove il tempo sembra sospeso e la realtà è dominata da un’atmosfera di inquietudine e di solitudine. La metafisica rifiuta il dinamismo del Futurismo e propone invece una visione del mondo che si concentra sull'irrazionale e sul misterioso, utilizzando luoghi vuoti, oggetti solitari e paesaggi desolati per evocare sensazioni di straniamento e di riflessione. Carrà, che è sempre stato attratto dal mistero e dall’invisibile, trova nella pittura metafisica la risposta a molte delle sue domande: la metafisica gli consente di esplorare una nuova dimensione dell’essere, una dimensione che non è legata alla superficie della realtà, ma che cerca di entrare nel profondo, nel cuore stesso dell'esistenza.

Le opere che Carrà realizza in questo periodo, come La musa metafisica (1917), sono emblematiche di questa ricerca: attraverso una pittura che si allontana dalla realtà visibile e si concentra sugli aspetti più misteriosi e simbolici, l’artista tenta di rappresentare un mondo sospeso, che non è quello della quotidianità, ma di una dimensione più alta e riflessiva. La pittura metafisica diventa, per Carrà, uno strumento di introspezione, un mezzo per esplorare l’anima del mondo e dell’uomo, per rispondere alle domande più profonde sulla vita e sulla morte, sulla bellezza e sulla sofferenza.

Il ritorno alla sintesi: il superamento delle contraddizioni attraverso la forma e la luce

Nel corso degli anni Venti, Carrà abbandona definitivamente il Futurismo e la pittura metafisica per avvicinarsi a una nuova sintesi, una pittura che cerca di conciliare gli elementi più significativi delle esperimentazioni precedenti. In questa fase, l’artista si concentra sulla forma e sulla luce, cercando di restituire l’armonia e l’equilibrio della natura e della realtà attraverso un uso preciso e studiato dei colori e delle linee. Carrà si allontana dalla dimensione dinamica e inquieta del Futurismo e dalla metafisica che aveva incentrato la sua ricerca sull'irrazionale e sull’immateriale, per concentrarsi su una pittura che, pur riflettendo le esperienze e i dubbi del passato, si fa più chiara, più definita, più comunicativa.

Il ritorno alla forma, alla luce e alla sintesi visiva, che caratterizza la pittura di Carrà negli ultimi anni, è anche un ritorno alla natura, ma una natura che non è più idealizzata o mitizzata, ma che si presenta come un luogo dove le forme e le luci si equilibrano in un’armonia perfetta. Questo ritorno alla sintesi non significa una rinuncia alla profondità, ma anzi rappresenta una maggiore consapevolezza dell’arte come strumento per esprimere l’essenza più autentica della realtà. Carrà cerca una pittura che non si limiti alla rappresentazione superficiale delle cose, ma che sia capace di parlare dell’interiorità, della bellezza nascosta e misteriosa che si cela dietro ogni elemento della natura e della vita umana.

“Estate”: la perfezione della forma e della luce


In Estate (1930), Carrà raggiunge il culmine di questa sua ricerca. Il dipinto rappresenta una scena di una spiaggia deserta, con alcuni bagnanti le cui forme sono prive di volto, una scelta che accentua il distacco dall’individualità e focalizza l’attenzione sulla composizione delle forme e sull’armonia che esse generano nello spazio. La luce, che in Carrà è sempre stata un elemento fondamentale, diventa qui il mezzo attraverso il quale l’artista riesce a trasformare una scena ordinaria in una riflessione sull’essenza della realtà. L’opera, pur essendo apparentemente statica, evoca una profondità che trascende il tempo e il luogo, proponendo una visione dell’estate che non è più quella di un semplice paesaggio balneare, ma di una realtà che parla al cuore dello spettatore, invitandolo a fermarsi e a riflettere sul senso della natura, della vita e dell’esistenza.

In Estate, Carrà non cerca di raccontare una storia, ma di evocare una sensazione universale, quella di un equilibrio perfetto, di una bellezza che non è più effimera, ma che ha radici nel profondo della natura e dell’essere umano. L’opera diventa così un invito alla contemplazione, alla riflessione, alla ricerca di una verità che non si trova nelle cose visibili, ma in ciò che le cose rappresentano, nella loro essenza più intima e nascosta. Carrà, attraverso la luce, le forme e lo spazio, crea un’opera che non solo rappresenta il paesaggio, ma che diventa un’esperienza sensoriale, un viaggio nell’anima dell’esistenza, un cammino alla ricerca di un senso che va oltre la superficie delle cose.

Con Estate, Carrà non crea solo un dipinto, ma una riflessione sull’arte, sulla natura e sulla condizione umana. Una riflessione che, nonostante il passare del tempo, continua a parlare al pubblico contemporaneo con la stessa forza e lo stesso mistero di allora.