Luciano Fabro è stato un artista che ha ridefinito la scultura contemporanea, muovendosi con libertà tra tradizione e innovazione. Nato nel 1936 a Torino e formatosi a Milano, è stato uno dei protagonisti dell’Arte Povera, quel movimento che tra gli anni Sessanta e Settanta ha sovvertito il concetto di opera d’arte, scegliendo materiali semplici, un approccio processuale e una nuova relazione con lo spazio. Tuttavia, a differenza di altri esponenti dell’Arte Povera, che spesso adottavano materiali industriali o grezzi, Fabro ha sempre mantenuto un forte legame con la tradizione della scultura, utilizzando spesso il marmo, il vetro e il bronzo in modi innovativi.
L’opera Lo Spirato, realizzata tra il 1968 e il 1973, è un esempio straordinario della sua capacità di ripensare la scultura a partire dalla sua storia. Si tratta di una figura distesa, scolpita in marmo bianco, priva di testa. Questa assenza è un elemento fondamentale che apre a molteplici interpretazioni: è un corpo privo di vita? È un frammento di una statua più grande? È un simbolo dell’anonimato dell’uomo contemporaneo?
Fabro non offre risposte univoche. La sua arte si nutre di ambiguità, e Lo Spirato è un’opera che vive nella tensione tra corporeità e assenza, tra materia e vuoto, tra tradizione e decostruzione.
La scultura come linguaggio: tra Arte Povera e classicità
Negli anni in cui Fabro realizza Lo Spirato, la scultura sta attraversando un periodo di grande trasformazione. L’Arte Povera, di cui fa parte, rifiuta la monumentalità e la fissità della scultura tradizionale, preferendo opere effimere, materiali naturali o industriali, installazioni che interagiscono con lo spazio e con il pubblico. Tuttavia, Fabro non rinuncia mai del tutto alla scultura nel senso classico del termine: anzi, il suo lavoro consiste proprio nel ripensarla, nel destrutturarla dall’interno.
Il marmo, materiale storico per eccellenza, è centrale nella sua ricerca. Ma Fabro non lo utilizza per creare figure idealizzate e celebrative, come la tradizione avrebbe imposto: lo lavora in modo da esaltarne la fragilità, la precarietà. In Lo Spirato, il marmo non è più un simbolo di eternità, ma diventa qualcosa di vulnerabile, di incompiuto. Il corpo scolpito non si impone nello spazio con la solennità di una statua classica, ma giace a terra, quasi abbandonato, suggerendo una condizione di passività e di fragilità.
Questo modo di trattare il marmo lo avvicina a Michelangelo, che nelle sue Pietà e nei suoi Prigioni aveva già sperimentato l’idea della scultura come forma incompiuta, come materia che trattiene in sé il senso della sua creazione. Ma se in Michelangelo il “non finito” è un principio estetico e spirituale, in Fabro diventa anche un concetto filosofico: l’arte non è mai chiusa, non è mai definitiva, è sempre in divenire.
L’assenza della testa: un corpo senza identità
Uno degli elementi più forti e più inquietanti di Lo Spirato è la sua mancanza di testa. Questa scelta è carica di significati simbolici e culturali.
Nella storia dell’arte occidentale, il volto è sempre stato il centro dell’identità: il ritratto è il genere che più di ogni altro ha fissato nel tempo la memoria di un individuo. La decapitazione, d’altro canto, è sempre stata associata alla perdita di potere, all’annientamento dell’individuo. Fabro priva il suo corpo scolpito di questa parte fondamentale, trasformandolo in un’entità anonima.
Questo lo collega a una lunga tradizione di statue mutilate, dalle sculture classiche sopravvissute in forma frammentaria fino alle avanguardie del Novecento, che hanno giocato con il concetto di frammento per esprimere la precarietà dell’esistenza. Ma c’è anche un legame con il contesto storico degli anni in cui l’opera è stata realizzata: il decennio tra il 1968 e il 1978 è un periodo di forte tensione sociale e politica, segnato da rivolte, terrorismo, repressioni. Un corpo decapitato può allora diventare un simbolo della violenza del potere, della perdita di identità dell’individuo nella società di massa.
Il rapporto con lo spazio e il pubblico
A differenza della scultura tradizionale, che è pensata per essere ammirata a distanza, magari su un piedistallo, Lo Spirato è collocato direttamente a terra. Questo cambia radicalmente la relazione con lo spettatore: non siamo di fronte a un’opera che si impone su di noi, ma a un corpo che dobbiamo osservare da vicino, quasi condividendone la condizione.
Il pubblico è costretto a chinarsi, a guardare da prospettive inconsuete. Questo genera un senso di disagio, di straniamento. Non è la scultura che si offre allo sguardo, è lo spettatore che deve adattarsi alla sua presenza. Questa dinamica è tipica dell’Arte Povera, che mira a coinvolgere attivamente il pubblico, rompendo la tradizionale separazione tra opera e osservatore.
Le interpretazioni critiche: morte, trasformazione, vulnerabilità
Fin dalla sua prima esposizione, Lo Spirato ha suscitato interpretazioni diverse. Alcuni critici l’hanno letta come una riflessione sulla morte: il titolo stesso suggerisce l’idea di un corpo senza vita, di un respiro che si è spento. Ma c’è anche un’interpretazione più ampia, legata alla trasformazione: la scultura di Fabro non è un semplice cadavere, è una forma in bilico tra presenza e assenza, tra umano e inumano.
Un’altra lettura possibile è quella legata alla fragilità. Lo Spirato non ha nulla della potenza e della rigidità della scultura classica: è un corpo vulnerabile, che sembra quasi sul punto di dissolversi. Questa fragilità è amplificata dal fatto che il marmo, pur essendo un materiale resistente, è trattato in modo da apparire quasi fragile, levigato in modo da sembrare morbido.
Conclusione: un’opera aperta e senza tempo
Dopo più di cinquant’anni, Lo Spirato continua a essere un’opera straordinariamente attuale. Il suo corpo senza testa, il suo rapporto con lo spazio, la sua ambiguità tra vita e morte, tra presenza e assenza, lo rendono un’opera che parla ancora oggi alla nostra sensibilità.
Luciano Fabro ha creato qualcosa di profondamente originale, che non si lascia ingabbiare in un’unica interpretazione. Lo Spirato non è solo una scultura, è un’esperienza: ci costringe a interrogarci, a cambiare prospettiva, a confrontarci con il mistero della materia e della forma. È un’opera che ci guarda, anche se non ha un volto, e che continua a vivere attraverso il nostro sguardo.