INTRODUZIONE: UNA SVOLTA EPOCALE O UNA DISTORSIONE DELLA REALTÀ?
Quando si parla di documentari, il primo pensiero va a un genere che ha sempre avuto una missione chiara: raccontare il reale, portare lo spettatore dentro storie autentiche, fargli conoscere fatti e personaggi attraverso immagini e testimonianze dirette. Ma cosa succede quando le immagini stesse smettono di essere reali e diventano il prodotto di un algoritmo? Il documentario Sono solo canzonette segna una svolta storica per il panorama audiovisivo italiano, diventando la prima produzione nazionale a utilizzare in modo massiccio l’AI generativa per la creazione di immagini.
Questa innovazione, da un lato, apre le porte a una serie di possibilità creative impensabili fino a pochi anni fa. Dall’altro, solleva questioni di natura etica e filosofica che non possono essere ignorate: un documentario, per definizione, dovrebbe essere ancorato alla realtà, alla documentazione oggettiva dei fatti. Ma se quelle immagini che ci sembrano autentiche sono in realtà generate da un’intelligenza artificiale, fino a che punto possiamo fidarci di ciò che vediamo? E soprattutto: è corretto che il pubblico non venga informato su questa manipolazione della realtà?
Non si tratta solo di una questione tecnica o di innovazione cinematografica. È un cambiamento che va a toccare il rapporto di fiducia che lega gli spettatori alle immagini documentaristiche. Per secoli, la fotografia e il cinema hanno svolto una funzione di testimonianza. Ora, con l’intelligenza artificiale, ci troviamo di fronte a una trasformazione radicale: un’immagine può sembrare autentica senza esserlo affatto.
IL DOCUMENTARIO TRA VERITÀ E COSTRUZIONE NARRATIVA: UNA STORIA DI COMPROMESSI
Da sempre, il documentario oscilla tra il dovere di raccontare la verità e la necessità di costruire una narrazione coinvolgente. Già agli albori del cinema, i primi cineasti si trovavano di fronte a una scelta: riprendere la realtà così com’era, con tutte le sue imperfezioni e i suoi tempi morti, oppure renderla più efficace sul piano visivo e narrativo?
Un esempio emblematico è Nanook of the North (1922) di Robert Flaherty, spesso considerato il primo grande documentario della storia. Pur avendo l’ambizione di raccontare la vita quotidiana degli Inuit, Flaherty chiese ai protagonisti di rimettere in scena alcune attività per renderle più comprensibili e cinematografiche. Anche in un’epoca in cui il concetto di manipolazione digitale era impensabile, il confine tra documentazione e ricostruzione era già labile.
Con il passare del tempo, il genere documentaristico ha conosciuto diverse evoluzioni. Il cinéma vérité, negli anni ’60, ha cercato di ridurre al minimo l’intervento del regista, affidandosi a riprese dirette e non mediate. Altri autori, come Werner Herzog, hanno invece enfatizzato la necessità di una "verità più profonda" rispetto a una semplice riproduzione della realtà.
Oggi, con l’intelligenza artificiale, il dilemma si ripropone in forme nuove e più complesse. Non si tratta più solo di decidere come riprendere o montare un’immagine, ma se quell’immagine debba esistere o meno. E nel caso in cui sia interamente generata da un software, quanto possiamo considerarla "vera"?
L’AI GENERATIVA: UNO STRUMENTO INNOVATIVO MA CONTROVERSO
L’intelligenza artificiale generativa sta rivoluzionando il nostro rapporto con le immagini. Non è più necessario avere una fotografia d’archivio o una ripresa autentica per mostrare un evento storico o una scena di repertorio: basta un prompt ben calibrato e il software può creare qualcosa di estremamente realistico.
Questo offre possibilità straordinarie. Pensiamo alla ricostruzione di eventi per cui non esistono immagini filmate: battaglie antiche, città scomparse, momenti storici mai documentati. O ancora, alla possibilità di animare fotografie d’epoca, facendo parlare e muovere figure che non sono mai state riprese in video.
Eppure, questa innovazione porta con sé una serie di interrogativi inquietanti. Se in un documentario vengono inserite immagini interamente generate dall’AI senza che lo spettatore ne sia consapevole, si rischia di alterare la percezione della realtà. Un’immagine storica ha sempre avuto un valore di prova, una testimonianza di un’epoca. Ma cosa succede quando questa prova viene sostituita da una simulazione? Possiamo ancora parlare di documentario o stiamo entrando in un territorio più vicino alla fiction?
IMPLICAZIONI ETICHE: LA RESPONSABILITÀ DEL DOCUMENTARISTA
Un documentario dovrebbe essere trasparente con il pubblico. Dichiarare l’uso di immagini generate dall’AI non significa sminuire il valore del lavoro, ma rafforzarne la credibilità. Alcune produzioni hanno già iniziato a segnalare nei titoli di coda o con didascalie sullo schermo quando una sequenza è stata creata artificialmente. Questo permette agli spettatori di avere una visione più chiara e consapevole di ciò che stanno guardando.
Nel caso di Sono solo canzonette, però, questa trasparenza non è stata adottata. Il documentario ha scelto di integrare immagini sintetiche senza segnalarlo esplicitamente. Questo pone domande scomode: si tratta di una scelta dettata dalla volontà di rendere la narrazione più immersiva o di un vero e proprio tentativo di rendere il contenuto più credibile agli occhi del pubblico?
Se i documentari iniziano a confondere deliberatamente realtà e finzione, si rischia di compromettere il valore stesso del genere. Gli spettatori devono poter contare sulla veridicità delle immagini che vedono. Se questa certezza viene meno, il documentario potrebbe perdere la sua funzione principale: informare e documentare.
IL FUTURO DEL DOCUMENTARIO NELL’ERA DELL’AI
La tecnologia evolve, e con essa cambiano anche le forme di narrazione. Il cinema ha attraversato molte trasformazioni: dal bianco e nero al colore, dal sonoro al digitale, dal 3D alla realtà virtuale. Ogni innovazione ha portato nuove possibilità espressive, ma anche nuove responsabilità.
L’intelligenza artificiale non deve essere vista come una minaccia, ma come uno strumento. Tuttavia, è essenziale che il suo utilizzo venga regolamentato con criteri di trasparenza. Gli spettatori hanno il diritto di sapere se le immagini che stanno guardando sono autentiche o artificiali. Solo così il documentario potrà mantenere il suo ruolo di testimone del reale, evitando di trasformarsi in un genere ibrido in cui la verità diventa un concetto sempre più sfuggente.
L’innovazione è inevitabile, ma la fiducia del pubblico è un bene prezioso. Preservarla dovrebbe essere la priorità di ogni documentarista.