Quando gli uomini incaricati di governare e amministrare la cosa pubblica si trovano a prendere decisioni, la carità – quell’ideale di attenzione e premura verso il prossimo tanto celebrato dalla filosofia – si rivela quasi sempre un principio secondario, se non addirittura irrilevante. Se nei grandi trattati etici essa viene esaltata come una delle virtù fondamentali della convivenza civile, nella pratica del governo la sua influenza si affievolisce fino a scomparire del tutto, sopraffatta dalle esigenze imposte dalla gestione del potere. Il concetto stesso di carità, che nella sua accezione più autentica implica un profondo senso di compassione, altruismo e sacrificio personale, si scontra con una realtà in cui la politica è dominata da interessi personali, calcoli strategici e dalla necessità di mantenere il controllo sulle masse.
La politica, infatti, non è mai stata il regno della purezza morale. I governanti, fin dall’antichità, hanno dovuto barcamenarsi tra necessità concrete, equilibri di potere e pressioni di ogni genere, con il risultato che le decisioni vengono prese sulla base di criteri ben lontani dalla compassione e dalla generosità. L’arte del governo non è un esercizio di bontà, ma un campo di battaglia in cui contano la strategia, la capacità di mantenere il controllo, l’abilità nel negoziare alleanze e nel garantire la stabilità. In questo contesto, la carità, per quanto nobile, appare come un lusso che pochi possono permettersi.
La filosofia ha tentato, nel corso dei secoli, di infondere un senso etico nell’amministrazione della cosa pubblica. Già Platone, nella Repubblica, immaginava una classe di governanti saggi e illuminati, capaci di anteporre il bene collettivo ai propri interessi personali. Aristotele, dal canto suo, suggeriva che la politica dovesse tendere al bene comune, evitando sia l’eccessivo autoritarismo sia l’anarchia. Nel pensiero cristiano, con figure come Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, la carità venne addirittura posta al centro di una visione ideale del potere, dove il governante giusto avrebbe dovuto ispirarsi all’amore divino nel prendersi cura del suo popolo. Ma questi erano, appunto, ideali. La realtà si è sempre dimostrata molto diversa.
Gli imperatori romani, pur adottando il principio della clementia come qualità del buon sovrano, non esitavano a usare il pugno di ferro quando necessario. I monarchi medievali, anche quelli più religiosi, governavano con la spada, ben consapevoli che la misericordia poteva essere letta come debolezza. E nella politica moderna, con la nascita degli stati nazionali e delle democrazie, la logica del potere non è cambiata: sebbene il linguaggio della carità e della giustizia sociale sia entrato nel discorso pubblico, esso è stato spesso piegato alle esigenze della propaganda, più che a un’autentica volontà di aiutare i bisognosi.
Nelle democrazie contemporanee, dove il consenso è il motore principale dell’azione politica, la carità viene evocata nei discorsi ufficiali e nelle campagne elettorali, ma difficilmente trova un’applicazione concreta nelle politiche di governo. Si parla di solidarietà quando conviene, di equità quando serve a rafforzare l’immagine di un leader, di giustizia sociale quando il contesto lo richiede. Ma al di là delle parole, le scelte politiche sono quasi sempre dettate da calcoli pragmatici: il bilancio statale da mantenere in equilibrio, le pressioni delle lobby, le richieste degli alleati, la necessità di non alienarsi il sostegno di gruppi di potere.
Anche quando si varano misure apparentemente ispirate alla carità – come il welfare, le politiche assistenziali, i programmi di aiuto ai più deboli – queste non sono mai il frutto di una pura spinta umanitaria, ma piuttosto di una mediazione tra diverse esigenze politiche ed economiche. Un governo può decidere di investire in aiuti sociali non perché mosso da un sincero spirito di solidarietà, ma perché sa che ciò garantisce stabilità e consenso. Persino la beneficenza istituzionalizzata viene spesso utilizzata come strumento di controllo: offrire aiuti ai bisognosi serve a evitare rivolte, a mantenere l’ordine, a consolidare un’immagine di potere magnanimo senza intaccare gli equilibri esistenti.
Le grandi crisi globali, dai conflitti alle emergenze climatiche, dimostrano ulteriormente quanto poco la carità influenzi le scelte politiche. Di fronte alla sofferenza di intere popolazioni, i governi agiscono più per necessità che per compassione: si interviene militarmente solo quando sono in gioco interessi strategici, si concedono aiuti umanitari solo se vi è un ritorno economico o diplomatico, si accolgono rifugiati solo quando il costo politico dell’inerzia diventa insostenibile. La retorica della solidarietà è sempre presente, ma i fatti raccontano una storia diversa.
Alla luce di tutto questo, appare evidente che la carità, per quanto possa essere un valore fondamentale nella sfera privata e nei rapporti interpersonali, ha un peso minimo nell’ambito della politica. La macchina del potere segue logiche proprie, fatte di compromessi, calcoli e necessità materiali. E anche quando un leader sinceramente animato da buone intenzioni tenta di introdurre un principio di autentica compassione nell’amministrazione dello Stato, si trova rapidamente a fare i conti con le resistenze di un sistema che privilegia la stabilità e l’efficienza rispetto alla generosità.
Così, mentre la filosofia continua a suggerire che la carità dovrebbe essere un elemento essenziale della vita pubblica, la realtà dimostra che essa resta confinata nel dominio del pensiero astratto, un ideale nobile ma inapplicabile. La politica, nel suo incessante gioco di forze, non può permettersi di fondarsi sulla benevolenza: essa si regge sulla capacità di governare le tensioni, di soddisfare interessi contrastanti, di mantenere l’equilibrio in un contesto sempre mutevole. E finché questo sarà il criterio dominante dell’azione pubblica, la carità rimarrà un principio evocato a parole, ma raramente tradotto in azione.