"Il teatro e il suo doppio" di Antonin Artaud è un’opera fondamentale per comprendere la rivoluzione teatrale del Novecento e il tentativo di riportare il teatro alla sua essenza primordiale. Pubblicato nel 1938, il libro raccoglie saggi e riflessioni scritti tra il 1931 e il 1936, in cui Artaud attacca il teatro occidentale tradizionale e propone una visione radicale di questa forma d’arte: il teatro non deve essere semplice rappresentazione, ma deve tornare a essere un rito, un’esperienza sensoriale totalizzante, un atto di trasformazione per attori e spettatori.
Quest’opera, più che un trattato teorico, è un manifesto poetico ed esistenziale, una dichiarazione di guerra contro un teatro ormai ridotto a mera letteratura recitata, privo della sua forza ancestrale. Artaud concepisce il teatro come un’arte in grado di scuotere l’essere umano nella sua interezza, penetrando nella sua psiche, nei suoi nervi, nelle sue ossa.
Il titolo stesso, "Il teatro e il suo doppio", suggerisce la presenza di un’altra realtà oltre quella comunemente accettata: il teatro deve rivelare l’invisibile, smascherare le convenzioni della società, svelare le forze oscure che abitano l’animo umano. Questo doppio è il teatro nella sua essenza più pura, un’arte che si rifà ai riti arcaici, alle cerimonie tribali, alle rappresentazioni sacre delle culture antiche.
Antonin Artaud: una vita di sofferenza e ricerca
Per comprendere il pensiero di Artaud, è necessario conoscere la sua tormentata biografia. Nato nel 1896 a Marsiglia, sin da bambino soffrì di disturbi neurologici e mentali, accentuati da un’encefalite che gli procurò dolori continui e un senso di alienazione dal mondo. A causa della sua fragilità, sviluppò un profondo senso di estraneità dalla realtà e un’ossessione per la ricerca di una verità assoluta.
Negli anni Venti si trasferì a Parigi, dove entrò in contatto con il movimento surrealista guidato da André Breton. Collaborò con il gruppo per alcuni anni, ma le sue idee erano troppo radicali persino per i surrealisti, che lo accusavano di eccessivo individualismo.
Parallelamente, lavorò come attore nel teatro e nel cinema. Apparve in film come La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer e Napoléon (1927) di Abel Gance, in cui la sua presenza magnetica e il suo volto segnato da un’intensità quasi mistica lasciarono un’impronta indelebile.
Ma Artaud non si accontentava di recitare: voleva rivoluzionare il teatro. Dopo aver fondato il Teatro Alfred Jarry nel 1926 insieme a Roger Vitrac e Robert Aron, iniziò a elaborare la sua teoria del Teatro della Crudeltà, il nucleo centrale del suo pensiero.
Il Teatro della Crudeltà: oltre la rappresentazione
Nel "Teatro e il suo doppio", Artaud rifiuta il teatro occidentale tradizionale, dominato dal testo e dalla narrazione psicologica. Per lui, il teatro deve andare oltre il dialogo, oltre la rappresentazione, e diventare un’esperienza totale.
La Crudeltà di cui parla Artaud non va intesa come semplice violenza, ma come una necessità impellente, una forza primordiale che rompe ogni schema precostituito. Scrive:
"La crudeltà significa rigore, purezza, necessità. Nulla è più crudele della vita stessa."
In altre parole, il teatro deve essere crudele nel senso di essere spietatamente autentico, deve agire direttamente sui sensi dello spettatore, senza filtri razionali. Deve invadere il suo spazio, coinvolgerlo fisicamente, costringerlo a confrontarsi con l’ignoto.
Per ottenere questo effetto, Artaud propone un teatro basato su un linguaggio sensoriale, in cui luci, suoni, movimenti e gesti hanno la stessa, se non maggiore, importanza delle parole. La musica deve essere percussiva, ossessiva, ipnotica. Le scenografie devono essere essenziali, ma suggestive. La voce dell’attore deve diventare uno strumento, capace di passare dal sussurro al grido selvaggio.
Il corpo dell’attore come veicolo di energie invisibili
Nel suo ideale di teatro, Artaud conferisce all’attore un ruolo centrale. L’attore non deve limitarsi a interpretare un personaggio, ma deve trasformarsi in un canale attraverso cui scorrono forze primordiali. Il corpo diventa il mezzo principale dell’espressione teatrale: deve essere allenato, flessibile, capace di trasmettere emozioni e tensioni profonde senza bisogno delle parole.
Questa concezione anticipa di decenni le ricerche di registi come Jerzy Grotowski e il suo Teatro Povero, che metteva l’attore al centro della scena, chiedendogli uno sforzo fisico e mentale estremo per raggiungere una forma di verità interiore.
Il teatro di Artaud è un teatro della presenza assoluta, in cui ogni gesto, ogni suono, ogni respiro ha un peso, un significato. Non c’è spazio per l’interpretazione tradizionale, per la rappresentazione mimetica della realtà: ciò che conta è l’energia che si sprigiona sul palcoscenico, il contatto diretto con il pubblico, lo shock emotivo che ne deriva.
Il rifiuto del testo teatrale come dominio della parola
Uno degli aspetti più rivoluzionari della visione di Artaud è il suo rifiuto della supremazia del testo scritto. Egli vede nella parola un ostacolo alla vera essenza del teatro. La cultura occidentale ha dato troppa importanza alla logica, alla razionalità, alla coerenza narrativa, soffocando le possibilità espressive del corpo, della voce, del ritmo.
Il teatro di Artaud si avvicina così alle arti performative, alla danza, alla musica sperimentale. Gli attori devono usare il corpo e la voce come strumenti primordiali, al di là della logica delle parole. La scena deve trasformarsi in un luogo di evocazione, in cui gli spettatori vengono travolti da immagini, suoni e movimenti che parlano direttamente all’inconscio.
In questo senso, Artaud si riallaccia alle pratiche teatrali orientali, in particolare al teatro balinese, che lo affascinò profondamente. Nel teatro balinese, infatti, la parola è secondaria rispetto al gesto, alla musica, alla ritualità. L’attore non “interpreta” un personaggio, ma incarna delle forze archetipiche.
Il teatro come rito e magia
Artaud vede nel teatro un atto magico, capace di trasformare la realtà. Non a caso, nel "Teatro e il suo doppio", paragona il teatro ai riti sacri delle culture arcaiche. Il teatro deve riappropriarsi della sua funzione originaria: non intrattenere, ma provocare, guarire, sconvolgere.
Per lui, il teatro è un mezzo per liberare l’uomo dalle costrizioni della società, un’arma per abbattere le maschere imposte dalla civiltà moderna. È un’arte che agisce sugli istinti, che risveglia desideri sepolti, che scuote l’anima con la violenza di un sogno febbrile.
L’eredità di Artaud nel teatro contemporaneo
Dopo la sua morte nel 1948, le sue idee hanno influenzato profondamente il teatro sperimentale. Artisti come Peter Brook, il Living Theatre e Grotowski hanno sviluppato le sue intuizioni, creando spettacoli in cui il corpo dell’attore e l’interazione con il pubblico sono centrali.
Il pensiero di Artaud ha attraversato il tempo come un’onda sotterranea, riemergendo ciclicamente per ricordarci che il teatro, nella sua forma più pura, non è semplice rappresentazione, ma una forza viva, capace di sconvolgere e trasformare chi vi prende parte.