giovedì 20 febbraio 2025

Che dolcezza e che inganno

Che dolcezza e che inganno albergano nell’umano fantasticare sul passato, come se fosse un mosaico da smontare e ricomporre a nostro piacere, una tavola imbandita dove possiamo scegliere i sapori e scartare i bocconi amari. Ci lasciamo cullare dall’idea che il tempo possa flettersi alla nostra volontà, come un ramo d’ulivo che si piega sotto le mani di chi lo intreccia. Ma il passato non è argilla, e noi non siamo dèi. Siamo creature della memoria, prigionieri di ricordi che a volte ci accarezzano e altre ci mordono, fantasmi che si muovono tra le stanze di ciò che è stato, credendo di poter aprire nuove porte senza chiudere le vecchie.

Eppure, in questa danza malinconica, in questo gioco sterile di ipotesi e rimpianti, si cela un errore profondo: il credere che possiamo ripensarci senza disfarci, che possiamo correggere gli eventi senza disintegrare ciò che siamo diventati a causa loro. È il grande inganno del se solo, il miraggio del bivio immaginario che non è mai esistito se non nella nostra mente febbricitante. Come se potessimo sottrarre una parola a una poesia senza alterarne il ritmo, togliere una pennellata a un quadro senza cambiarne il significato. Ma il passato è una struttura indivisibile, una cattedrale costruita con ogni gesto, ogni esitazione, ogni errore che ci ha reso ciò che siamo.

Chi siamo noi, se non il risultato esatto di ogni incontro, ogni scelta, ogni sbaglio? Ogni ferita ha inciso un segno sul marmo del nostro essere, ogni amore ci ha acceso o spento come una candela in balia del vento. A volte ci sembra che una decisione diversa avrebbe reso la nostra vita migliore, che un passo in più o in meno ci avrebbe condotti su un sentiero più luminoso. Ma dimentichiamo che non siamo solo i gesti che compiamo, siamo il modo in cui li abbiamo vissuti, siamo la consapevolezza che ne è scaturita, siamo il dolore e la gioia che ci hanno insegnato a esistere.

Il passato non è un fardello che possiamo gettare via, né una cornice che possiamo sostituire: è la pietra angolare del nostro presente, l’albero dalle cui radici ci solleviamo per vedere il mondo. Eppure, come bambini capricciosi, ci ostiniamo a domandarci: E se...? E se avessimo detto sì invece di no, se avessimo taciuto invece di parlare, se fossimo rimasti invece di partire? Ci illudiamo che basti cambiare un dettaglio – un incontro mancato, una parola taciuta, una strada non percorsa – per riscrivere il racconto della nostra esistenza. Dimentichiamo che il racconto non è fatto solo di eventi, ma di chi li vive. E chi li vive siamo noi, mutati, forgiati, devastati da ogni passo che abbiamo mosso.

Se ci togliessero un errore, se cancellassero un dolore, chi rimarrebbe? Un’ombra sbiadita, un fantasma senza corpo, privo di quella sostanza che il vivere, nella sua crudele generosità, ci ha donato. Ah, quanto è dolce, però, questa tentazione! La mente si adagia su di essa come su un letto di velluto, ignorando che sotto vi sono chiodi acuminati. Croce lo chiamava giocherello, ma in verità è una malattia dell’anima, una febbre che ci consuma. Ci piace pensare che il tempo sia una tela, che possiamo tirare e ricucire a piacimento, senza accorgerci che ogni filo strappato lascia un vuoto irreparabile. Non è possibile rimuovere un errore senza sfilacciare l’intero tessuto, né riscrivere un incontro senza smarrire l’intera trama.

Eppure, insistiamo. Rimpiangiamo ciò che non siamo stati, ciò che non abbiamo avuto il coraggio di fare, le persone che non abbiamo amato, i momenti che abbiamo lasciato fuggire. Rimpiangiamo persino il dolore, perché in qualche modo ci sembra più dolce nel ricordo che nel momento in cui lo abbiamo vissuto. È il paradosso della memoria: rielabora, trasforma, confonde. Ci fa credere che il passato sia un luogo dove avremmo potuto essere migliori, più saggi, più felici. Ma il passato non è un luogo: è un’eco, un’ombra, una luce tremolante che non può più scaldarci. E in questa nostalgia per un passato immaginario, dimentichiamo di vivere.

Perché, in fondo, che cos’è il rimpianto se non una forma di morte? Ogni se è un sasso che gettiamo nella corrente della nostra vita, sperando che ne muti il corso, mentre non facciamo altro che creare increspature che ci distraggono dal presente. Il rimpianto è un veleno sottile, una nebbia che si insinua nei giorni, che ci fa guardare indietro invece che avanti, che ci fa dubitare del valore delle scelte che abbiamo compiuto. Ma il tempo, impietoso e generoso, scorre comunque.

Eppure, il passato non è il nostro carceriere: siamo noi a decidere se lasciarci incatenare dai ricordi o usarli come trampolini per saltare più in alto. Smettiamo di rimuginare su ciò che avremmo potuto essere e iniziamo a domandarci cosa possiamo fare ora, con tutto ciò che abbiamo vissuto, con ogni graffio e ogni luce che ci portiamo addosso. Possiamo scegliere di lasciare che le cicatrici ci definiscano come segni di sconfitta, oppure possiamo vederle come mappa del nostro viaggio, come prova che siamo passati attraverso il fuoco e ne siamo usciti interi.

Forse, allora, l’unica via d’uscita da questa ossessione è smettere di trattare il passato come una mappa che avremmo potuto tracciare meglio e iniziare a vederlo per ciò che è: un paesaggio complesso, pieno di montagne e voragini, ma nostro. Non è un gioco, né una condanna: è il nostro tesoro. Ogni errore è una moneta d’oro, ogni lacrima una perla. E noi siamo i custodi di questo scrigno, non i suoi giudici. Accogliere il passato significa accogliere noi stessi, con le nostre cicatrici e i nostri sorrisi. Significa accettare che non siamo né perfetti né immutabili, ma creature in cammino, sempre alla ricerca di un senso.

E quel senso non è nei se, ma nell’adesso, in ciò che siamo diventati grazie al cammino che, con passo incerto, abbiamo percorso.

L’unico modo per vivere è guardare avanti, sapendo che il passato non è una prigione, ma un giardino. Un giardino pieno di rovi e rose, e noi, camminando tra essi, ne siamo i fiori più vivi. E mentre il vento della memoria ci sfiora, possiamo imparare a sorridere non per quello che avrebbe potuto essere, ma per quello che, nonostante tutto, è stato.