mercoledì 26 febbraio 2025

il muro di Sarte

La stanza è silenziosa, la luce cade obliqua sul pavimento, e il giovane Pablo Ibbieta, protagonista del racconto, sente che il tempo si dilata e si restringe come un elastico spezzato. "Il muro" di Jean-Paul Sartre è un libro che si legge come un lungo interrogativo, un urlo strozzato tra l’assurdo e la dignità. L’esistenza, nel racconto principale e negli altri che seguono, è una cella asfissiante, un destino inevitabile e incomprensibile.

Pablo, prigioniero durante la Guerra Civile Spagnola, aspetta la condanna a morte. La narrazione di Sartre diventa un bisturi che affonda nell’animo del lettore: ogni parola, ogni riflessione è un’incisione sulla pelle della coscienza. Mentre i secondi si consumano inesorabili, Pablo riflette sulla sua vita, su ciò che ha fatto e su ciò che non avrebbe mai potuto fare. In una stanza spoglia, sotto l’occhio vigile dei carnefici, l’uomo scopre il vero volto dell’angoscia.

E poi c’è il muro. Simbolo inamovibile e spietato, è la linea oltre la quale non si va. Un confine tra ciò che siamo e ciò che temiamo di diventare. Il muro è anche la vita stessa: fredda, insensibile, pronta a schiacciare chiunque osi affrontarla senza illusioni.

Nel racconto successivo, "La camera", Sartre ci porta nell’intimità soffocante di una relazione tossica, dove l’amore si confonde con il possesso, e la follia si insinua come un gas invisibile. Ogni personaggio è intrappolato, non solo nelle sue circostanze, ma anche nella propria mente.

E allora, come si legge questo libro? Con disagio, con inquietudine. Sartre non offre vie di fuga. La sua scrittura è un’esplorazione brutale della libertà umana, e del peso che questa porta con sé. La narrazione è limpida, ma ogni parola sembra pesare tonnellate. È un’esperienza più che una lettura, un esercizio di confronto con la realtà che preferiremmo ignorare.

Alla fine, "Il muro" non è solo un’opera di narrativa: è uno specchio. E non è detto che ci piacerà quello che vedremo riflesso.

C’è un momento, nella narrazione de “Il muro”, in cui il silenzio si fa così denso che quasi si può toccare. Pablo, in quella cella soffocante, sente il respiro degli altri condannati, ciascuno con il proprio fardello. È lì che Sartre ti prende per mano – non dolcemente, ma con una stretta ruvida – e ti costringe a guardare in faccia la verità. Non c’è niente di glorioso nella morte imminente, niente di romantico. Solo paura, ironia e, a tratti, una grottesca indifferenza.

E poi arriva l’epifania, quel beffardo gioco del destino: la risata crudele dell’assurdo. Pablo, senza intenzione, senza nemmeno volerlo, si salva con una bugia. Ma non c’è sollievo, perché quel muro – metaforico e reale – non scompare mai. Rimane lì, a dividere chi vive da chi è già morto dentro.

Negli altri racconti del libro, il senso dell’assurdo si fa ancora più personale. “Erostrato”, ad esempio, è una lenta discesa nella follia. Un uomo cammina per le strade, osserva la gente, ma non c’è empatia, non c’è connessione. Ogni passo è un grido muto, un’allucinazione che si avvolge attorno alla sua mente come un serpente. E Sartre, con la sua prosa chirurgica, ti fa sentire ogni singolo scivolone, ogni pensiero velenoso.

Che dire poi di “Infanzia di un capo”? Qui Sartre prende il lettore e lo immerge nell’evoluzione di un’anima corrotta. Dal ragazzo confuso al futuro uomo di potere, ogni scelta, ogni compromesso, costruisce un muro interiore, mattoni di menzogna e paura. L’inquietudine cresce, e con essa il senso di inevitabilità: siamo creature della nostra storia, prigioniere di un’identità che ci viene imposta, o che scegliamo per disperazione.

Leggere “Il muro” è come trovarsi in una casa senza finestre: senti il peso delle pareti, il soffitto che si abbassa, il pavimento che scricchiola sotto di te. Sartre non offre alcuna via d’uscita. Eppure, quando chiudi il libro, c’è una strana luce che filtra da qualche parte. È la consapevolezza che, nonostante tutto, quel muro non è invincibile. Si può restare imprigionati, oppure alzare lo sguardo e vedere che sopra di noi c’è ancora il cielo. Sartre non te lo dice mai apertamente, ma lo suggerisce, come una sfida. Chi ha il coraggio di alzarsi? Chi oserà?

Il muro non è solo nella cella di Pablo o negli occhi degli altri personaggi: è in noi, lettori intrappolati tra le pagine. Sartre non ci lascia scampo, non permette che ci limitiamo a osservare da lontano. Ogni parola sembra sussurrata direttamente al nostro orecchio, come una confessione in una lingua che conosciamo fin troppo bene.

Mentre il racconto principale si snoda, il tempo si deforma. Le ore diventano infinite e poi si restringono in pochi secondi. Pablo osserva i suoi compagni di prigionia, ognuno con il proprio modo di affrontare l’inevitabile: il silenzio stoico di Juan, le lacrime disperate di Tom. Eppure, non c’è conforto. La loro umanità, così cruda, riflette la nostra. Sartre non ci dice come vivere di fronte all’assurdo, ma lo mostra con una precisione che fa male.

E proprio quando pensi che il colpo di grazia sia arrivato, Sartre aggiunge un tocco finale: la risata. Una risata amara, senza gioia, che esplode quando Pablo scopre di essere stato preso in giro dal caso. La vita gli ha dato una seconda possibilità, ma non perché se la meritasse. È un gioco, un tiro di dadi, e Pablo lo capisce. Ma tu, lettore, lo capisci? Sei pronto a guardare la tua vita come lui guarda la sua?

Negli altri racconti, il muro cambia forma. In "La camera", si trasforma in un matrimonio senza uscita, un amore che diventa una prigione psicologica. Lei, rinchiusa nella sua fragilità, e lui, prigioniero della sua colpa, danzano in una spirale di incomprensione. Sartre non giudica; osserva e racconta.

In "Erostrato", il muro è fatto di odio e alienazione. L’uomo cammina per la città, ma ogni volto è un nemico, ogni gesto una minaccia. E poi c’è il finale, quella scelta estrema che lascia il lettore attonito, consapevole di quanto fragile sia il confine tra la normalità e la follia.

E infine, c’è il racconto che chiude il libro, "Infanzia di un capo", dove il muro si costruisce lentamente, mattone dopo mattone, in una vita che si piega al conformismo, alla paura, alla crudeltà. Sartre ci porta nella mente di Lucien, e mentre lo vediamo trasformarsi, sentiamo l’eco delle nostre stesse decisioni: quando abbiamo scelto la sicurezza invece della libertà? Quando abbiamo smesso di resistere al muro e cominciato a costruirlo?

Sartre non è indulgente. Non offre scuse, né redenzione. Eppure, in tutto questo, c’è una strana forma di libertà. Capire che il muro esiste è il primo passo per affrontarlo. Ma il resto è compito nostro, e Sartre, con un sorriso ironico, ci lascia lì, sospesi, a decidere se vivere o semplicemente sopravvivere.