sabato 1 febbraio 2025

La crociata contro la diversità: come la destra americana sta smantellando l’inclusione nei musei e nelle università


Negli ultimi anni, il dibattito sulle politiche di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) negli Stati Uniti è diventato un tema centrale, coinvolgendo istituzioni culturali, accademiche e aziendali in un processo di trasformazione mirato a correggere le disuguaglianze storiche e a promuovere una società più equa. A partire dagli anni 2010, sulla scia di movimenti sociali come Black Lives Matter, delle rivendicazioni della comunità LGBTQ+, delle battaglie per i diritti dei nativi americani e di altri gruppi tradizionalmente emarginati, si è diffusa una nuova sensibilità che ha visto nella diversità non un problema da gestire, ma un valore fondamentale per l’intera società.

Molti musei, università e grandi aziende avevano adottato strategie per garantire una maggiore rappresentatività all’interno dei loro organigrammi e nelle loro attività, investendo risorse in programmi di formazione, accessibilità e sensibilizzazione. Tuttavia, questo slancio progressista ha incontrato resistenze crescenti da parte di ampi settori della società americana, specialmente negli ambienti conservatori, fino a diventare un vero e proprio bersaglio politico con il ritorno di Donald Trump sulla scena nazionale.

Il ritorno del conservatorismo e la battaglia contro la cultura woke

Con il rafforzarsi dell’ala più radicale del Partito Repubblicano e l’affermarsi di un’agenda politica ostile alle politiche di inclusione, le istituzioni pubbliche e private si sono trovate sotto attacco. Se fino a pochi anni fa le iniziative DEI venivano considerate parte integrante del progresso culturale ed economico del paese, oggi vengono denunciate da alcuni settori della politica e dei media come un’imposizione ideologica.

Secondo questa visione, promuovere la diversità equivarrebbe a introdurre criteri di selezione che penalizzano i gruppi sociali tradizionalmente dominanti – in particolare i bianchi eterosessuali di classe medio-alta – a vantaggio di categorie considerate “protette”. La retorica contro il cosiddetto wokeism, un termine utilizzato in senso dispregiativo per indicare un eccesso di politicamente corretto, è diventata uno dei pilastri della nuova destra americana.

Nel 2024, questa retorica si è tradotta in atti concreti: diverse grandi aziende statunitensi, tra cui Meta, McDonald's e Boeing, hanno deciso di smantellare i loro dipartimenti DEI, spesso per effetto della pressione degli investitori o per evitare controversie legali. Le dimissioni e i licenziamenti di responsabili della diversità sono stati numerosi, segnalando una netta inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti.

Ma il colpo più duro è stato inferto al settore accademico. Stati come Florida, Alabama, Utah e Texas, sotto la guida di amministrazioni repubblicane, hanno approvato leggi che impongono alle università di chiudere gli uffici dedicati alle politiche di inclusione, eliminare corsi e seminari sulle questioni razziali e di genere e cancellare programmi di sensibilizzazione su temi come il privilegio e il colonialismo. In alcuni casi, i fondi destinati ai programmi di diversità sono stati direttamente tagliati, mentre corsi accusati di veicolare un’ideologia progressista sono stati sostituiti con programmi che enfatizzano concetti come la meritocrazia e la tradizione americana.

Le reazioni da parte delle università sono state contrastanti: mentre alcune hanno cercato di resistere, trovando modi per continuare le proprie attività senza esporsi troppo, altre si sono adeguate rapidamente per non incorrere in sanzioni o perdita di finanziamenti. Questo ha creato un clima di incertezza e paura, con molti accademici e studenti costretti a riconsiderare il proprio ruolo all’interno delle istituzioni educative.

Il settore culturale sotto assedio

Anche il mondo dell’arte e della cultura è stato travolto da questa ondata regressiva. Negli ultimi anni, i musei americani avevano fatto enormi passi avanti nell’integrazione di nuove narrazioni e nella valorizzazione di artisti provenienti da comunità tradizionalmente escluse dai circuiti ufficiali. L’obiettivo era rendere le collezioni più rappresentative, diversificare il pubblico e promuovere una maggiore consapevolezza storica sulle ingiustizie del passato.

Ma con il nuovo clima politico, molte istituzioni si trovano ora a dover rivedere la propria strategia. La nuova amministrazione Trump ha minacciato di tagliare i finanziamenti pubblici alle istituzioni che continuano a promuovere quelle che definisce “discriminazioni illegali e immorali” legate all’ideologia woke.

Alcuni musei hanno cancellato mostre che affrontavano temi legati alla razza, al colonialismo o ai diritti LGBTQ+, mentre altri hanno modificato il linguaggio utilizzato nei loro programmi educativi per evitare polemiche. In diversi stati, il clima di intimidazione ha portato alla cancellazione di eventi e installazioni ritenute troppo “provocatorie” o “militanti”.

Quale futuro per l’inclusione negli Stati Uniti?

Questa svolta conservatrice ha sollevato interrogativi profondi sul futuro delle politiche di diversità e inclusione negli Stati Uniti. Mentre da un lato c’è chi plaude alla fine delle politiche DEI, considerandole un’ingerenza ideologica che minava la meritocrazia, dall’altro ci sono forti preoccupazioni per le conseguenze a lungo termine di questa inversione di tendenza.

L’eliminazione dei programmi di inclusione rischia di aumentare le disuguaglianze, escludendo intere fasce della popolazione dall’accesso a opportunità educative e lavorative. Nel settore culturale, la riduzione dell’attenzione verso le tematiche della diversità potrebbe portare a una narrazione storica sempre più parziale e selettiva, rafforzando il predominio di un punto di vista unico a discapito di una rappresentazione più articolata della società americana.

Non è da escludere, tuttavia, che questa ondata di revisionismo conservatore possa generare una reazione opposta. Negli anni passati, la spinta verso l’inclusione è stata spesso il risultato di mobilitazioni dal basso e della crescente consapevolezza dell’opinione pubblica. È possibile che, di fronte a questa nuova fase di restrizioni, nascano nuovi movimenti capaci di rilanciare le istanze dell’inclusione in forme diverse, magari meno legate alle istituzioni tradizionali e più radicate nelle comunità locali.

Nel frattempo, il mondo della cultura, dell’arte e dell’educazione dovrà affrontare la sfida di mantenere vivo il dibattito sull’inclusione senza incorrere in sanzioni o censure. Gli Stati Uniti si stanno avviando verso un futuro più chiuso e conservatore, o questa fase segnerà solo un momentaneo arretramento prima di un nuovo slancio progressista? Solo il tempo dirà quale direzione prevarrà.

Per comprendere la portata della crisi attuale, è fondamentale tracciare un quadro storico delle politiche di diversità e inclusione negli Stati Uniti. Sebbene oggi il termine DEI (Diversity, Equity, and Inclusion) sia utilizzato prevalentemente in ambito accademico e aziendale, la lotta per la rappresentanza delle minoranze ha radici profonde nella storia americana.

Dopo l’abolizione della schiavitù nel 1865 con il Tredicesimo Emendamento, il paese entrò in un lungo periodo di segregazione razziale. Le leggi di Jim Crow, adottate in molti stati del Sud, sancirono per decenni una netta separazione tra bianchi e afroamericani, limitando l’accesso di questi ultimi all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica. Fu solo con il movimento per i diritti civili degli anni ’50 e ’60 che si iniziarono a smantellare le barriere legali alla parità di trattamento.

L’approvazione del Civil Rights Act del 1964 fu un momento cruciale: per la prima volta, vennero proibite le discriminazioni su base razziale, sessuale e religiosa in ambito lavorativo e educativo. Da quel momento, l’inclusione delle minoranze non fu più solo una questione etica, ma anche una responsabilità legale per molte istituzioni.

Negli anni ’70 e ’80, l’affirmative action – ovvero le politiche di “azione positiva” per garantire l’accesso delle minoranze a istruzione e lavoro – divenne un pilastro della società americana. Università e aziende iniziarono a implementare quote e programmi di supporto per correggere gli squilibri storici. Tuttavia, questa strategia suscitò fin da subito controversie: i critici, soprattutto nei circoli conservatori, la consideravano una forma di discriminazione al contrario.

Negli anni ’90 e 2000, con l’aumento della diversità demografica negli Stati Uniti, il concetto di inclusione si allargò per includere non solo questioni razziali, ma anche di genere, orientamento sessuale, disabilità e status migratorio. L’avvento del XXI secolo portò con sé un’accelerazione del dibattito, complice la crescente influenza dei movimenti femministi, LGBTQ+ e per i diritti dei nativi americani.

Ma fu dopo il 2020 che il tema dell’inclusione assunse una rilevanza politica senza precedenti. La morte di George Floyd e le proteste di Black Lives Matter scossero il paese, spingendo molte istituzioni a rafforzare i programmi di sensibilizzazione e giustizia sociale. Nello stesso periodo, la Corte Suprema legittimò il matrimonio egualitario, e le aziende iniziarono a investire miliardi di dollari in iniziative DEI, trasformando la diversità in una priorità strategica.

Ed è proprio questa rapida evoluzione che ha innescato la reazione conservatrice odierna.


LA GUERRA CONTRO LA CULTURA WOKE: UNA STRATEGIA POLITICA?

L’opposizione alle politiche di diversità non è emersa spontaneamente, ma è stata orchestrata come parte di una strategia più ampia da parte della destra americana. Donald Trump, già durante il suo primo mandato (2016-2020), aveva attaccato apertamente il concetto di politically correct, definendolo una minaccia alla libertà di espressione.

Tuttavia, è durante la sua campagna per le elezioni del 2024 che l’offensiva contro la cosiddetta cultura woke ha assunto una dimensione sistematica. Trump e altri leader repubblicani hanno presentato le politiche di diversità come una forma di indottrinamento ideologico, accusando le università, i media e le aziende di promuovere un’agenda progressista che discrimina i “veri americani”.

Questa narrativa ha trovato un terreno fertile in un’ampia fascia della popolazione, soprattutto tra i bianchi conservatori delle aree rurali, che si sentivano sempre più alienati da una società in cambiamento. La retorica populista ha fatto leva su una serie di sentimenti diffusi: la paura della perdita di identità culturale, il risentimento per le politiche di inclusione percepite come forzate e il sospetto verso le élite accademiche e aziendali.

Parallelamente, think tank e organizzazioni conservatrici hanno lanciato campagne per limitare le politiche DEI, finanziando cause legali per abolire l’affirmative action e spingendo legislatori repubblicani a introdurre leggi che vietano l’insegnamento di teorie critiche sulla razza nelle scuole e nelle università.


LE CONSEGUENZE PER I MUSEI E LE UNIVERSITÀ

Gli effetti di questa offensiva politica non si sono fatti attendere.

Nel settore accademico, le conseguenze sono state immediate:

In Texas, Florida e altri stati conservatori, le università pubbliche hanno chiuso gli uffici dedicati alla diversità e ai programmi di inclusione, temendo tagli ai finanziamenti statali.

Molti corsi universitari sulla storia del razzismo e dei diritti civili sono stati eliminati o ridefiniti in modo da evitare contenuti “politicamente sensibili”.

Professori e ricercatori che si occupano di giustizia sociale hanno subito pressioni per ridurre il focus sui temi dell’identità e delle disuguaglianze.

Nel settore museale, il quadro è altrettanto preoccupante:

Grandi istituzioni come il MoMA e il Whitney Museum hanno ridimensionato le proprie iniziative DEI per evitare controversie politiche e attrarre finanziamenti da donatori conservatori.

Alcuni musei hanno annullato mostre dedicate a temi sociali per evitare boicottaggi e attacchi mediatici.

Gli artisti provenienti da comunità marginalizzate stanno vedendo ridursi le opportunità espositive, mentre torna in auge un’idea più tradizionale e conservatrice di “grande arte”.


PROSPETTIVE FUTURE: INVERSIONE DI ROTTA O REAZIONE PROGRESSISTA?

A questo punto, la domanda principale è: questa svolta conservatrice è destinata a durare?

Da un lato, i repubblicani sembrano determinati a continuare la loro offensiva contro le politiche di diversità, e il clima politico attuale rende improbabile un’inversione di tendenza nel breve termine. Dall’altro, la storia suggerisce che ogni ondata regressiva genera inevitabilmente una contro-reazione.

Alcuni segnali di resistenza sono già visibili:

Le università private e i grandi musei delle città progressiste stanno cercando modi alternativi per mantenere le loro politiche DEI, anche senza fondi pubblici.

Le proteste studentesche contro le restrizioni all’insegnamento della storia delle minoranze stanno aumentando, riportando il tema al centro del dibattito nazionale.

Le aziende globali, che operano in un contesto internazionale più aperto alla diversità, potrebbero rilanciare le politiche DEI su scala globale, mantenendo vive queste iniziative negli USA per ragioni economiche e d’immagine.

Il futuro è incerto, ma una cosa è chiara: la lotta per l’inclusione è tutt’altro che finita.