La liberazione di Mahmoud Almasri e il trattamento d’onore riservatogli dal governo italiano non sono un incidente diplomatico, né un'operazione sfuggita di mano. Sono l’esito diretto di una concezione del potere che si ritiene svincolata da ogni controllo, giuridico e istituzionale. Non c’è errore, non c’è fraintendimento: c’è una decisione politica precisa, che ha portato l’esecutivo a violare non solo le norme italiane, ma anche quelle internazionali. E c’è un altro elemento inaccettabile: la rivendicazione di questo atto come se fosse un passaggio obbligato, giustificato da un generico interesse nazionale.
L’argomento della “ragion di Stato” non regge
Si dice che il governo abbia agito per evitare ritorsioni libiche, in particolare l’interruzione degli accordi sui flussi migratori. Ma un simile ragionamento non solo è moralmente aberrante, ma è anche privo di fondamento giuridico. L’Italia, in quanto Stato firmatario dello Statuto di Roma, è vincolata alle decisioni della Corte Penale Internazionale, che aveva chiesto il rispetto della condanna inflitta ad Almasri. L’idea che si possa ignorare questa obbligazione per un calcolo diplomatico tradisce un’idea premoderna della politica: un potere che si autoassolve, che riconosce i vincoli giuridici solo quando gli conviene. Non è realpolitik, è arbitrio.
L’uso strumentale del consenso elettorale
La reazione della presidente del Consiglio conferma questa impostazione. Di fronte a un atto così grave, non c’è stata una giustificazione istituzionale, né un confronto parlamentare. C’è stata la consueta fuga in avanti: l’accusa di complotti, l’evocazione delle “toghe rosse”, la propaganda social che ribalta la realtà e presenta il governo come vittima anziché come responsabile. È la strategia già sperimentata in trent’anni di destra italiana: ridurre qualsiasi contestazione della legalità a una guerra tra fazioni, trasformare il controllo giurisdizionale in un attacco politico. Ma qui non si tratta di scontri ideologici, bensì di principi elementari di diritto.
L’erosione sistematica dello Stato di diritto
Da anni la destra italiana non si limita a governare: lavora sistematicamente per ridefinire il rapporto tra potere e legalità. Lo ha fatto Berlusconi, svuotando di significato il principio di separazione dei poteri e cercando di assoggettare la magistratura. Lo fa oggi Meloni, non più in nome dell’interesse privato, ma di una concezione della sovranità che rifiuta ogni limite. Questa è la posta in gioco: non la singola violazione, per quanto grave, ma il tentativo di imporre un modello in cui l’autorità politica non risponde più delle proprie azioni. Il caso Almasri non è un’eccezione: è un precedente.
La responsabilità della magistratura e della politica
Se ancora esiste un principio di legalità, l’inchiesta giudiziaria deve andare avanti, fino in fondo. Il tribunale dei ministri potrà anche chiedere l’autorizzazione a procedere, e il Parlamento potrà respingerla con un voto di maggioranza. Ma il caso non può chiudersi così. Ogni volta che la politica si arroga il diritto di porsi al di sopra della legge, la tenuta democratica si incrina. E questo scandalo non riguarda solo la magistratura: riguarda la politica nel suo insieme. Perché qui non si discute di un errore tattico o di un malinteso burocratico, ma di una scelta. E una democrazia che tollera scelte come questa si espone al rischio più grande: la normalizzazione dell’abuso.