domenica 26 gennaio 2025

Abbiamo imparato a volare, e nessuno potrà mai spezzare le nostre ali

Ci sono momenti nella vita in cui ci si trova costretti a fare i conti con il passato, non per scelta, ma perché questo si insinua nel presente, con una forza che scuote le fondamenta di ciò che pensavamo fosse ormai stabile. È un passato che non bussa educatamente alla porta: la sfonda. Si insedia, come un ospite sgradito, nei discorsi pubblici, nelle leggi proposte, nei commenti sui social, nelle conversazioni sussurrate nei bar o urlate nei cortei di chi pretende un ritorno a un ordine “naturale”. Ma naturale per chi? Non certo per noi, che per decenni siamo stati relegati a un angolo, invisibili, considerati un’anomalia da tollerare a malapena, quando non apertamente combattuta.

Quando osservo il panorama politico e sociale attuale, quando ascolto certe dichiarazioni di leader che si fanno paladini di una morale che discrimina, non posso fare a meno di avvertire un brivido che corre lungo la schiena. È un déjà-vu, un richiamo inquietante a un’epoca che credevo, o forse speravo, fosse ormai definitivamente archiviata. E invece no. Quel passato è ancora lì, pronto a ripresentarsi con un linguaggio nuovo, ma con lo stesso obiettivo di sempre: cancellare la nostra esistenza, negare la nostra dignità, farci sentire di nuovo sbagliati.

C’erano anni in cui l’omofobia non aveva bisogno di mascherarsi. Era parte integrante del tessuto sociale, culturale, politico. Era un dato di fatto, un elemento talmente radicato nella quotidianità che quasi nessuno lo metteva in discussione. E noi, che ne eravamo vittime, crescevamo convinti che fosse normale, che fosse giusto così. La società ci diceva, in mille modi diversi, che eravamo un errore, una deviazione, qualcosa che non avrebbe mai dovuto esistere. Lo dicevano i nostri genitori, magari senza parole dirette, ma con il loro silenzio carico di vergogna. Lo dicevano gli insegnanti, che voltavano lo sguardo di fronte al bullismo, o peggio, lo incoraggiavano con una battuta ironica. Lo dicevano i preti, che predicavano amore universale ma ci escludevano sistematicamente da quel “universo”.

Per un ragazzino o una ragazzina che scoprivano di essere “diversi”, il mondo si trasformava in un labirinto di specchi deformanti. Ogni riflesso rimandava un’immagine distorta, una caricatura di ciò che avremmo potuto essere. Non c’erano modelli positivi, non c’erano storie che raccontassero una vita possibile al di fuori della vergogna e del nascondimento. L’omosessualità non era solo un tabù: era un’assenza. Non esistevamo. Non eravamo rappresentati. E se non esisti, come puoi sperare di immaginare un futuro?

Era un’epoca di paura costante. Ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo poteva tradirti. Camminare per strada significava tenere sempre alta la guardia, evitare di attirare l’attenzione, reprimere qualsiasi movimento che potesse sembrare “troppo effeminato” o “troppo ambiguo”. E nonostante tutte le precauzioni, il rischio era sempre lì. Bastava niente: un tono di voce, un modo di vestire, una postura. E subito arrivavano gli sguardi, le risate, gli insulti, a volte persino la violenza fisica.

I bulli non erano solo i ragazzi delle scuole, quei “machi” che si sentivano autorizzati a umiliarci per il semplice fatto di esistere. Erano ovunque. Erano i vicini di casa, i colleghi di lavoro, i politici, i giornalisti. L’intera società partecipava a questo meccanismo di esclusione, in modi più o meno espliciti. E noi, spesso, accettavamo tutto questo. Non perché lo trovassimo giusto, ma perché non avevamo scelta. Era così che funzionava il mondo. E il mondo ci diceva che non avevamo alcun diritto di lamentarci.

Crescendo, interiorizzavamo questa violenza. Diventava parte di noi, si insinuava nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni, nel modo in cui percepivamo noi stessi. La vergogna era un veleno che ci paralizzava, che ci faceva dubitare di ogni cosa: delle nostre capacità, del nostro valore, persino della possibilità di essere amati. Ci guardavamo allo specchio e non vedevamo persone, ma caricature, ombre, macchie. E quella visione distorta ci accompagnava ovunque, come un fardello invisibile ma inesorabile.

Poi, un giorno, qualcosa ha iniziato a cambiare. Non all’improvviso, non senza fatica, ma le crepe in quel muro di oppressione hanno cominciato a farsi strada. Le prime manifestazioni, i primi coming out pubblici, le prime voci che si alzavano per dire “esistiamo, e non ci vergogniamo” hanno aperto un varco. Ogni passo avanti è stato una conquista, ma anche una lotta. Ogni legge approvata, ogni diritto riconosciuto è stato il risultato di sacrifici immensi, di anni di lavoro, di sconfitte dolorose. Ma era un progresso reale, tangibile. E per la prima volta, molti di noi hanno potuto iniziare a immaginare un futuro diverso, un futuro in cui avremmo potuto vivere alla luce del sole.

Eppure, oggi, tutto questo sembra di nuovo in pericolo. Le forze conservatrici avanzano, i discorsi di odio si moltiplicano, le leggi anti-LGBTQ+ trovano nuovi sostenitori. È un ritorno al passato che spaventa, ma che al tempo stesso ci deve ricordare una lezione fondamentale: nulla di ciò che abbiamo conquistato è garantito per sempre. Ogni diritto, ogni libertà, ogni spazio di visibilità è fragile, e richiede una vigilanza costante.

Non possiamo permettere che il silenzio torni a dominarci. Non possiamo accettare che la paura riprenda il controllo delle nostre vite. Abbiamo già vissuto quel buio, e sappiamo quanto sia devastante. Ma sappiamo anche come resistere. Sappiamo che la comunità è la nostra forza, che la solidarietà è il nostro scudo, che la memoria è la nostra arma più potente.

Il passato può bussare alla porta, può persino cercare di sfondarla. Ma questa volta siamo pronti. Questa volta non abbasseremo la testa. Non torneremo indietro. Non torneremo mai più a vivere nelle ombre. Abbiamo imparato a volare, e nessuno potrà mai spezzare le nostre ali.