domenica 26 gennaio 2025

“Film” di Samuel Beckett con Buster Keaton (1965): Il cinema come esperienza filosofica e sensoriale

Ci sono opere che non si limitano a esistere, ma che sembrano interrogare direttamente lo spettatore, quasi costringendolo a guardarsi dentro. "Film", il cortometraggio scritto da Samuel Beckett e interpretato da Buster Keaton nel 1965, è una di quelle rare creazioni che sfidano il concetto stesso di cinema, trasformandolo in un esercizio di riflessione esistenziale.

Non è un film che si guarda passivamente, e nemmeno uno di quelli che si raccontano facilmente agli amici dopo una visione. Non ci sono dialoghi memorabili, né colpi di scena o narrazioni lineari. Eppure, l’impatto di Film è così potente da lasciare una traccia indelebile. È come un sogno di cui non si comprende il significato, ma che continua a riaffiorare, strano e familiare al tempo stesso.

In questa pellicola di poco meno di venti minuti, Beckett distilla la sua visione del mondo in un linguaggio puramente visivo. Non è una trasposizione delle sue opere teatrali, ma una creazione autonoma che esplora i confini del linguaggio cinematografico. Al centro di questo esperimento c’è una figura solitaria: Buster Keaton, icona indiscussa del cinema muto, che diventa il volto (o meglio, l’assenza di volto) di una riflessione sull’identità, la percezione e il bisogno inappagabile di sfuggire allo sguardo altrui.


Per chi conosce l’opera di Beckett, la sua incursione nel cinema potrebbe sembrare anomala. Beckett è il maestro dell’immobilità, delle lunghe pause e dei silenzi che, nel teatro, diventano carichi di tensione. Le sue pièce più celebri – 'Aspettando Godot" (1953), Finale di partita (1957) o "L’ultimo nastro di Krapp" (1958) – sono costruite su dialoghi lenti e reiterati, su personaggi spesso incapaci di muoversi o costretti in spazi ristretti.

Eppure, proprio in questa fissità teatrale si cela qualcosa di profondamente cinematografico. I testi di Beckett evocano immagini potenti, scene che sembrano dipinte su una tela o scolpite nella memoria dello spettatore. Beckett scrive per il teatro con una precisione quasi pittorica, creando mondi che si sviluppano attraverso pochi gesti, dettagli minimi e scenografie spoglie. In un certo senso, il cinema di Beckett esisteva già nel suo teatro, e "Film" non è che una naturale evoluzione di questa estetica.

L’idea di realizzare un cortometraggio nacque nel 1963, quando Alan Schneider – regista americano che aveva già lavorato sulle opere teatrali di Beckett – propose al drammaturgo di scrivere qualcosa per il grande schermo. Beckett accettò con una sola condizione: niente dialoghi.
Il risultato è "Film", una pellicola che non solo elimina le parole, ma riduce al minimo anche il suono. La narrazione si costruisce attraverso immagini scarne, gesti misurati e una tensione costante che accompagna il protagonista nella sua fuga dal mondo (e da se stesso).

La scelta di Buster Keaton come protagonista è forse uno degli aspetti più intriganti di "Film". Keaton, all’epoca settantenne, era già una leggenda vivente del cinema muto. Negli anni '20, con il suo volto impassibile e le sue acrobazie incredibili, aveva incarnato l’uomo che sfida il caos con stoica resistenza, sopravvivendo a frane, treni impazziti e crolli apocalittici senza mai cambiare espressione.

Per Beckett, Keaton non è solo un attore: è un’icona dell’essere umano che lotta contro l’assurdità dell’esistenza.
A differenza di Chaplin, che infondeva nei suoi personaggi una vena sentimentale e spesso romantica, Keaton è distaccato, enigmatico, un uomo che attraversa la vita senza mai lasciarsi travolgere dall’emozione.

Beckett voleva proprio questo: un volto che non tradisse alcuna emozione, un corpo che potesse muoversi nello spazio con una strana combinazione di agilità e pesantezza. Keaton era perfetto per incarnare la figura di O (Oggetto), un uomo che cerca disperatamente di sfuggire alla percezione del mondo, coprendo specchi, distruggendo fotografie e chiudendo fuori tutto ciò che potrebbe “vederlo”.

Durante le riprese, Keaton – abituato a film di ritmo frenetico e gag fisiche – non capì mai veramente il senso del progetto. Più volte chiese a Beckett e Schneider:
“Di cosa parla esattamente questo film?”
La risposta che ricevette fu laconica:
“Di te che tenti di non essere visto.”

Keaton, con la sua ironia asciutta, rispose:
“Non ci sarà bisogno di recitare.”


La trama di "Film" è essenziale, quasi inesistente:
Un uomo (Keaton), identificato come O (Oggetto), cammina lungo una strada deserta. Dietro di lui, qualcosa o qualcuno lo osserva. O entra in un edificio in rovina, sale lentamente una scala scricchiolante e si rifugia in una stanza spoglia.

Una volta dentro, comincia a coprire o distruggere tutto ciò che potrebbe “guardarlo”:

Un vecchio specchio viene coperto con un panno.

Una fotografia sulla parete viene strappata e fatta a pezzi.

Un gatto e un pappagallo che si trovano nella stanza vengono cacciati con gesti bruschi.


Alla fine, rimasto solo, O si siede su una sedia. Sembra aver eliminato ogni possibile sguardo esterno. Ma proprio in quel momento, si rende conto che c’è ancora un occhio che non può evitare: il proprio.

L’ultima inquadratura ci mostra Keaton che guarda dritto nella telecamera, con un’espressione che mescola resa e consapevolezza.


In "Film", Beckett introduce una dicotomia visiva che diventa il cuore dell’intera opera:

O (Oggetto): il protagonista, che cerca di sfuggire alla percezione.

E (Eye, Occhio): la telecamera, che rappresenta lo sguardo esterno.


Durante il film, la telecamera segue O da dietro o di lato, come se fosse una presenza invisibile che lo osserva a distanza. Solo alla fine, dopo un lento inseguimento, l’occhio (E) riesce a superare O e a inquadrarne il volto.

Beckett suggerisce così che sfuggire alla percezione è impossibile. L’essere umano, anche quando si nasconde dal mondo, non può evitare il proprio sguardo interiore. La fuga, sebbene disperata e ossessiva, conduce inevitabilmente a uno scontro con se stessi.