In Italia, il rapporto tra arte e istituzioni vive un momento di tensione e incomprensione, che rischia di compromettere irreversibilmente il futuro culturale del paese. Nonostante l’inestimabile patrimonio storico-artistico che rende l’Italia una delle mete culturali più ambite al mondo, la cultura contemporanea, con i suoi protagonisti e i suoi spazi d’avanguardia, è spesso trascurata, se non addirittura soffocata da una visione miope e conservatrice. È una situazione che, se da un lato trova origine in un sistema burocratico inefficiente e rigido, dall’altro riflette una mentalità diffusa che non riconosce nella creatività e nell’innovazione artistica un valore fondamentale per il progresso sociale ed economico.
Un esempio lampante di questa crisi è rappresentato dalle recenti modifiche all’Italian Council, il programma pubblico pensato per finanziare l’arte contemporanea italiana. Con una decisione tanto sorprendente quanto incomprensibile, è stato introdotto il divieto di utilizzare i fondi erogati per pagare le fee agli artisti, salvo rare eccezioni come i programmi di residenza. Questa scelta, apparentemente tecnica, ha conseguenze devastanti. Significa, in pratica, negare agli artisti la possibilità di vivere del proprio lavoro, di essere riconosciuti come professionisti a tutti gli effetti. È un messaggio che alimenta un pregiudizio pericoloso: quello secondo cui l’arte è un’attività superflua, che non richiede investimenti o riconoscimenti economici, ma che dovrebbe essere portata avanti per passione o per amore della bellezza. Si ignora così che fare arte è un lavoro complesso, che richiede studio, sperimentazione, materiali, spazi e una dedizione totale, e che deve essere adeguatamente retribuito, come qualsiasi altra professione.
Questo problema non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di disattenzione cronica verso gli operatori culturali indipendenti. Gli spazi indipendenti, che in molti altri paesi rappresentano i veri motori dell’innovazione culturale, in Italia lottano per la sopravvivenza. Mancano politiche di sostegno adeguate, i bandi pubblici sono spesso inaccessibili o male indirizzati, e le risorse disponibili sono scarse e distribuite in modo inefficiente. Gli spazi che riescono a sopravvivere lo fanno a prezzo di enormi sacrifici, spesso grazie all’impegno volontario di chi li gestisce, senza alcuna garanzia di stabilità economica. Eppure, questi luoghi sono fondamentali: sono i laboratori in cui nascono nuove idee, in cui si sperimenta, si collabora e si costruisce un dialogo tra arte, società e territorio. Privare questi spazi del supporto necessario significa impoverire il tessuto culturale del paese, privandolo di una delle sue componenti più vitali e innovative.
Se si guarda a ciò che accade in altri paesi europei, la differenza è abissale. In Germania, ad esempio, gli artisti e gli spazi indipendenti sono considerati una parte essenziale del sistema culturale e ricevono sostegni significativi da parte dello Stato. Esistono programmi di finanziamento che garantiscono non solo la sostenibilità economica, ma anche la libertà creativa necessaria per portare avanti progetti sperimentali e innovativi. In Francia, i finanziamenti pubblici sono strutturati per promuovere la collaborazione tra artisti, curatori e istituzioni, creando un ecosistema culturale dinamico e inclusivo. Nei Paesi Bassi, gli spazi indipendenti non solo ricevono supporto economico, ma sono anche incentivati a lavorare in sinergia con le comunità locali, diventando così centri di aggregazione e inclusione sociale. Questi esempi dimostrano che un modello diverso è possibile, e che la cultura può essere un motore di sviluppo sociale, economico e umano, se solo si ha il coraggio di investire in essa.
In Italia, invece, prevale una visione arretrata e conservatrice, che continua a privilegiare le grandi istituzioni e gli eventi spettacolari, a scapito della ricerca e della sperimentazione. Si investe poco e male, spesso seguendo logiche burocratiche che penalizzano la creatività e l’innovazione. I finanziamenti pubblici, già scarsi, sono distribuiti in modo inefficace, privilegiando progetti che rispondono a criteri di “sicurezza” e prevedibilità, piuttosto che a esigenze di qualità e rilevanza culturale. Questo approccio non solo penalizza gli operatori culturali, ma priva il pubblico di un’offerta culturale ricca e diversificata, capace di rispondere alle sfide e alle complessità del mondo contemporaneo.
Eppure, il talento non manca. L’Italia è un paese ricco di artisti straordinari, di curatori visionari e di operatori culturali che, nonostante le difficoltà, continuano a portare avanti il loro lavoro con passione, determinazione e una creatività che non ha nulla da invidiare a quella dei loro colleghi stranieri. Queste persone rappresentano una risorsa inestimabile, un patrimonio umano e creativo che potrebbe fare la differenza, se solo venisse valorizzato e sostenuto. Ma per farlo è necessario un cambiamento radicale, che parta dal riconoscimento del valore della cultura come motore di sviluppo sociale ed economico, e che si traduca in politiche concrete, capaci di rispondere alle esigenze reali del settore.
Un’Italia che investe nella cultura sarebbe un’Italia più forte, più coesa e più innovativa. Sarebbe un paese capace di valorizzare le sue radici senza rinunciare a guardare al futuro, di promuovere l’inclusione e il dialogo, di offrire opportunità a tutti coloro che credono nella forza dell’arte e della creatività come strumenti di cambiamento. Ma tutto questo non può essere solo un sogno o un’aspirazione. Deve diventare una realtà. Perché la cultura non è un lusso, ma una necessità. È tempo di riconoscerlo e di agire di conseguenza.