martedì 28 gennaio 2025

Lasciando la virtù che tace (20 sonetti)

Sonetto XI

Caddi per le scale, e il lascito ride,
eco lontana d’un patto sospetto.
Dio non rispose, e il diavolo decide
di farmi inciampo a ogni passo stretto.

In vita mai cercai patente o guida,
guarire era un mestiere che sbiadiva.
I direttori, con faccia liquida,
scioglievan sogni come pioggia estiva.

Schiavo nacqui, la carne si fa peso,
l’apocalisse guarda dalle porte.
Ogni lavagna resta senza un nesso.

Bile in tasca e mani che si sbucciano,
persi perfino il senso dell’addio,
e la virtù più lieve s’arruggina.


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Sonetto XII

Caddi per le scale, e il lascito amaro
lasciò la sua firma sui gradini.
Dio distolse lo sguardo, e il più avaro
demone applaudì tra i vicini.

In vita mai patente, mai bandiera,
né un faro a dirigere il destino.
Guarire era favola leggera
che i direttori spinsero a mattino.

Nacqui servo, con la notte per spada,
l’apocalisse scrisse la mia pelle.
Ogni lavagna sbianca e si dirada.

La bile è un nodo stretto alla cintura,
persi il garbo, e con esso la memoria,
lasciando che la virtù si frattura.


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Sonetto XIII

Caddi per le scale, e il lascito offese
le mie ginocchia come spilli.
Non so se fu Dio o il diavolo a stese
le mani, rubandomi gli artigli.

In vita non ebbi patente o fretta,
guarire fu un gioco di specchi.
I direttori piegarono la vetta,
lasciandomi in coda con i vecchi.

Nacqui servo d’un inverno precoce,
l’apocalisse ride tra i denti.
Lavagne spente, labbra senza voce.

Con la bile persi i giorni in tasca,
finché la virtù si sciolse piano,
e ogni cortesia restò in maschera.


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Sonetto XIV

Caddi per le scale, e il lascito pesa
come piombo legato ai polsi.
Dio si distrae e il diavolo si tesa,
stendendo i giorni come banchi smossi.

Patente mai, né una guida che tocchi
le mie mani fredde di mestizia.
Guarire fu un fiore dai petali sciocchi
che i direttori calpestarono in mestizia.

Schiavo sono, nato sotto un rintocco,
l’apocalisse mi prese per mano.
Lavagne bianche restano nel fiocco.

Con la bile in saccoccia chiudo gli occhi,
persi tutto, anche il sogno cortese,
lasciando la virtù tra i rami storti.


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Sonetto XV

Caddi per le scale, e il lascito geme
tra le ossa come il vento d’inverno.
Non so se fu dio, ma il diavolo preme
per portarmi in tasca l’inferno.

Mai patente né stella in cartella,
guarire fu un trucco per santi.
I direttori la strada di stella
cambiarono, lasciandomi avanti.

Nacqui servo di un cielo capovolto,
l’apocalisse si spense nei lampi.
Le lavagne gridarono in volto.

Bile e tasche vuote si addensano,
persi tutto, anche la più lieve calma,
lasciando che la virtù si dissolva.


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Sonetto XVI

Caddi per le scale, e il lascito dorme
come un animale stanco.
Dio scompare, e il diavolo si informe
scava nel buio con passo franco.

Patente mai ebbi, né lampi in pugno,
guarire era l’ombra d’un sogno.
I direttori spingevano a giugno,
rubando al cuore ogni bisogno.

Nacqui servo con la schiena curva,
l’apocalisse danzò sui fianchi.
Le lavagne non ebbero curva.

Con bile e lamenti nella giacca,
persi la virtù tra mani in tasca,
lasciando il senso tra pareti sguance.


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Sonetto XVII

Caddi per le scale, e il lascito canta
una melodia senza fiato.
Dio tace, e il diavolo si pianta
come una rosa nel prato.

Mai patente né retta d’amore,
guarire non fu in mio potere.
I direttori, con risa e furore,
bruciarono il cielo d’invere.

Nacqui servo, con sguardo bruciato,
l’apocalisse baciò il mio petto.
Le lavagne rimasero fiato.

Con bile che pesa nella giacca,
persi tutto, senza trovar pace,
e la virtù si piega, poi tacca.


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Sonetto XVIII

Caddi per le scale, e il lascito inciampa
nelle vene con fretta.
Dio passa, e il diavolo mi stampa
il marchio di chi aspetta.

Mai patente né freno a frenarmi,
guarire fu un’ombra sottile.
I direttori lasciarono a mani
vuote ogni sguardo gentile.

Nacqui servo d’un giorno incolore,
l’apocalisse si fece luce.
Le lavagne non hanno più cuore.

Bile e cenere nelle scarpe,
persi il senso delle scale,
lasciando la virtù alle tarme.


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Sonetto XIX

Caddi per le scale, e il lascito attende
nel fondo dell’anima vuota.
Dio guarda, e il diavolo distende
il suo passo tra la rota.

Mai patente né guida fedele,
guarire fu un ricordo sottile.
I direttori, con mani di fiele,
spensero ogni lume gentile.

Nacqui servo del vento freddo,
l’apocalisse mi scrisse sul volto.
Le lavagne restano in petto.

Bile che cola in tasca lenta,
persi l’ultima piuma del giorno,
lasciando che la virtù si spenta.


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Sonetto XX

Caddi per le scale, e il lascito pesa
come un’eco che non s’arresta.
Dio si nasconde, e il diavolo ascesa
copre con l’ombra ogni festa.

Mai patente né un faro di fronte,
guarire restò in un cassetto.
I direttori cambiarono monte,
rubando anche il mio tetto.

Nacqui servo con mani vuote,
l’apocalisse mi prese il fiato.
Le lavagne rimasero rotte.

Bile e passi senza voce,
persi tutto, anche la notte,
lasciando la virtù che tace.


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I sonetti ruotano attorno a temi esistenziali cupi e intensi, intrecciati con immagini di caduta, perdita e alienazione. Ecco i principali temi che emergono:

1. Caduta e Destino Ineluttabile

La caduta per le scale diventa una metafora della vita stessa, segnata da incidenti e scivoloni inevitabili. Il protagonista si percepisce vittima di un destino che non può controllare, in bilico tra la volontà di Dio e l'influenza del diavolo.

2. Assenza di Guida e Smarrimento

C'è una costante assenza di orientamento: il poeta confessa di non aver mai avuto patente, né guida morale o spirituale. Questo simbolizza un'esistenza vissuta senza punti di riferimento, priva di direzione o aiuto.

3. Malattia e Incapacità di Guarire

Il tema della malattia interiore, non fisica ma spirituale o mentale, attraversa i versi. L'incapacità di guarire diventa un leitmotiv, un segno che nessuna cura o rimedio sembra possibile. La guarigione resta un miraggio lontano.

4. Oppressione e Schiavitù Congenita

Il poeta si descrive come schiavo per nascita, senza possibilità di riscatto. La schiavitù è sia fisica che psicologica, una condizione radicata che lo imprigiona e lo condanna a uno stato perpetuo di sofferenza.

5. Apocalisse Interiore

Lo sguardo apocalittico e fatuo simboleggia una visione distorta del mondo, segnata da un’imminente rovina. L’apocalisse non è un evento esterno, ma una condizione dell’anima, un tormento personale che si riflette in ogni esperienza.

6. Perdita e Disfacimento

C'è una lenta e inesorabile perdita di tutto: non solo beni materiali, ma anche dignità, virtù, e cortesia. La bile, simbolo di amarezza e rancore, diventa il lascito più concreto, mentre ogni altro valore si dissolve.

7. Critica alla Società e ai "Direttori"

I "direttori di ogni cosa" rappresentano figure di potere o autorità che gestiscono il destino del poeta in modo ingiusto. Essi agiscono con indifferenza o malizia, soffocando ogni possibilità di riscatto.

8. Alienazione e Solitudine

Il poeta è isolato, incapace di connettersi con il mondo esterno. La caduta e il lascito creano una distanza incolmabile tra lui e la realtà circostante, alimentando un senso di abbandono e marginalità.

9. Memoria e Oblio

Le lavagne indelebili che il poeta non riesce a leggere sono simboli di esperienze che lasciano tracce, ma che non possono essere comprese o rimosse. È una memoria dolorosa, impressa eppure sfuggente, che alimenta l’angoscia.

10. La Bile come Simbolo Finale

La bile, ripetuta quasi ossessivamente, rappresenta la rabbia repressa, l’amarezza che accompagna la perdita. È il segno tangibile del disfacimento interiore, l’ultimo residuo di un’umanità ferita e corrotta.

In sintesi, i sonetti dipingono un quadro esistenziale di dolore e disillusione, giocando con simboli forti e un linguaggio denso di immagini oscure.