“La fontana della vergine” (Jungfrukällan, 1960) è molto più di un semplice film: è un rito cinematografico, una meditazione profonda sulla condizione umana, capace di esplorare con spietata delicatezza i temi del peccato, della vendetta e della possibilità di redenzione. Ingmar Bergman, con la sua maestria e il suo stile inconfondibile, plasma un’opera che si insinua nella coscienza dello spettatore, lasciando dietro di sé una traccia indelebile.
Nel panorama del cinema europeo del dopoguerra, "La fontana della vergine" emerge come un film che trascende il suo tempo, collocandosi al crocevia tra la riflessione esistenzialista e la narrazione epica. Sebbene tratto da una leggenda medievale svedese, il film affronta domande universali che continuano a risuonare con forza anche nel pubblico contemporaneo: fino a che punto è giusto cercare vendetta? La giustizia terrena può davvero placare il dolore di una perdita? E, soprattutto, esiste un Dio che osserva dall’alto e che interviene quando tutto sembra perduto, oppure il mondo è abbandonato a se stesso, lasciato in balia di uomini violenti e spietati?
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Il contesto storico e culturale: una terra di confine tra sacro e profano
La Svezia del XIV secolo, sfondo della narrazione, è una terra in bilico tra due epoche, tra la luce del cristianesimo e le ombre persistenti del paganesimo. È un Medioevo rurale, dominato dalla natura selvaggia e dalla superstizione, in cui la religione cristiana non ha ancora estirpato del tutto le antiche credenze nordiche. La foresta, simbolo archetipico del mistero e del pericolo, diventa la metafora di questo conflitto spirituale: è il luogo in cui Karin, la protagonista, incontra la morte, e allo stesso tempo il luogo in cui sgorga miracolosamente la fonte che dà il titolo al film.
Bergman costruisce questo mondo con un’attenzione maniacale ai dettagli, rendendo tangibile la tensione tra il nuovo e l’antico. Le figure del film incarnano questa dualità: da una parte Karin, che rappresenta la purezza cristiana, dall’altra Ingeri, la serva, che porta con sé il peso del peccato e del paganesimo. Ma Bergman non giudica mai in modo netto: il cristianesimo, per quanto portatore di valori di purezza e grazia, non riesce a impedire la tragedia, mentre il paganesimo, pur associato all’oscurità, è anche espressione di un’umanità profonda e tormentata.
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Il dilemma morale di Bergman: la vendetta è mai giustificabile?
Uno degli interrogativi centrali del film riguarda la natura stessa della giustizia e della vendetta. Quando Töre, il padre di Karin, scopre che la figlia è stata uccisa dai pastori che ha accolto nella sua casa, la sua reazione non è immediata. La vendetta non esplode con furia, ma si compie in modo lento e rituale, come se ogni gesto fosse una tappa necessaria di un percorso spirituale e morale. Töre si spoglia della sua umanità per abbracciare la violenza, ma lo fa con una freddezza che ricorda i sacrifici pagani, in cui la morte diventa una forma di offerta agli dei.
Questa rappresentazione della vendetta differisce profondamente dagli stereotipi hollywoodiani dell’epoca. Non c’è alcun trionfo o senso di giustizia compiuta nella violenza di Töre: al contrario, il suo atto lo lascia svuotato, più vicino al dolore che alla liberazione. La scena in cui il padre, dopo aver ucciso i pastori, si inginocchia accanto al cadavere di Karin, è uno dei momenti più intensi del film, un’immagine di profonda desolazione che riassume l’intero senso dell’opera.
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Il miracolo finale: redenzione o condanna divina?
La fontana che sgorga nel punto esatto in cui giace il corpo di Karin è forse il momento più enigmatico dell’intero film. Questo miracolo, che conclude la narrazione, è carico di ambiguità: è un segno del perdono divino o l’ennesima manifestazione di un Dio che si rivela quando ormai tutto è perduto?
Bergman lascia volutamente aperta l’interpretazione. La madre di Karin, che assiste al miracolo, si inginocchia con devozione, mentre il padre, straziato dal dolore, rimane distante, incapace di comprendere o accettare pienamente quanto è appena avvenuto. La fontana, simbolo della purezza e della rinascita, sgorga non come risposta alla violenza, ma come un enigma che nessuno può realmente decifrare.
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La violenza come rappresentazione del male assoluto
Uno degli aspetti più potenti e disturbanti di "La fontana della vergine" è la rappresentazione della violenza. Bergman sceglie di non mostrarla in modo esplicito, ma la sua presenza è palpabile, insinuandosi tra le pieghe della narrazione con un realismo che colpisce nel profondo. La scena dello stupro e dell’omicidio di Karin è girata con una sobrietà che amplifica l’orrore: non ci sono grida o movimenti concitati, solo il silenzio della foresta e la brutalità di gesti rapidi, quasi meccanici.
Questa scelta stilistica non è casuale: Bergman vuole che lo spettatore si confronti con la violenza in modo diretto, senza l’alibi dell’estetizzazione. La violenza, nel film, è parte integrante della condizione umana, una forza che distrugge senza motivo, lasciando dietro di sé solo dolore e assenza.
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Il simbolismo visivo: quando l’arte diventa cinema
Dal punto di vista visivo, "La fontana della vergine" è un capolavoro di composizione e fotografia. Sven Nykvist, storico collaboratore di Bergman, utilizza il bianco e nero in modo magistrale, creando immagini che evocano le opere di Caravaggio e dei pittori fiamminghi. Ogni inquadratura è studiata per esaltare il contrasto tra luce e ombra, tra la purezza di Karin e l’oscurità che la circonda.
Le scene ambientate nella foresta sono particolarmente suggestive: i rami degli alberi si intrecciano come in un dipinto gotico, creando un senso di oppressione che anticipa la tragedia. Anche gli interni della casa di Töre sono illuminati con una luce radente che ricorda le candele delle chiese medievali, contribuendo a creare un’atmosfera di sacralità e raccoglimento.
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L’eredità del film: da Bergman al cinema contemporaneo
"La fontana della vergine" ha lasciato un’impronta indelebile nel cinema mondiale, influenzando registi di generazioni successive. Wes Craven ha apertamente dichiarato di essersi ispirato al film per il suo "L’ultima casa a sinistra" (1972), in cui la trama viene trasportata in un contesto moderno, mantenendo però intatta la riflessione sulla vendetta e sulla violenza.
Più in generale, "La fontana della vergine" ha contribuito a ridefinire il modo in cui il cinema affronta i temi religiosi e morali, ponendosi come uno dei vertici del cinema spirituale e filosofico del XX secolo.