mercoledì 22 gennaio 2025

Il livido delle cose invisibili

1.
Mi sono svegliato,
come chi riemerge da un naufragio interiore,
il corpo incagliato tra gli scogli di un sogno che non si lascia afferrare,
le mani fredde, appoggiate sulle lenzuola sudate,
come se durante la notte avessi scavato gallerie nella mia stessa carne.
Un livido alla tempia destra,
un’impronta violacea, gonfia e dura,
come il sigillo lasciato da un sigaro spento troppo lentamente sulla pelle.
Viola, ma non di quel viola dolce che accarezza i petali dei fiori,
piuttosto il viola cupo delle contusioni profonde,
dove il sangue si raccoglie, imbronciato e immobile,
come un lago che non riflette più nulla.
Non so cosa sia successo.
Forse nulla.
Forse qualcosa che ha deciso di restare nascosto,
come una volpe che attraversa il giardino al crepuscolo,
senza lasciare traccia.
Forse un bacio sfuggito alla notte,
forse una carezza impaziente che si è trasformata in un pugno.
Chissà.
Ma non importa, perché anche se lo sapessi,
la verità arriverebbe con il passo leggero di chi non ha più nulla da spiegare.
Forse il peso di un sogno — di quelli troppo densi,
che si aggrappano ai pensieri come alghe nelle profondità della mente
si è lasciato andare proprio lì,
dove la carne cede,
dove le vene si intrecciano con la memoria.
Forse è stato il tocco di un’idea,
di quelle che nascono nella notte e muoiono all’alba,
lasciando dietro di sé solo il riflesso d’una ferita.

2.
Mi sono alzato piano,
come un animale ferito che teme di trovarsi di fronte al proprio cacciatore.
Il livido ha tremato,
pulsando sotto la pelle,
come un occhio che sbatte le palpebre per proteggersi dalla luce.
Ogni passo era un’eco che rimbalzava tra le pareti vuote della stanza,
come se i miei piedi fossero di piombo e la terra troppo fragile per sostenerli.
L’opacità del sogno mi avvolgeva ancora,
pesante come un sudario di velluto,
ricamato con le dita fredde della notte.
Dietro quel velo sfilacciato,
intravedo figure,
come ombre che si nascondono tra le pieghe d’un sipario sgualcito.
I sicari, vestiti di fumo e cenere,
avanzano con passi leggeri,
le mani bianche,
pronte a stringere o ad accarezzare.
E accanto a loro, i reduci,
coperti di polvere,
trascinano catene di ricordi,
mentre il loro sguardo è fisso,
inchiodato alle stelle che non riescono più a riconoscere.
Chi di loro mi ha lasciato questo segno?
Chi ha inciso,
con la precisione di un chirurgo,
questa piccola luna violacea sulla mia tempia?
Le domande si alzano come uccelli impauriti,
volano in cerchio,
e poi si posano di nuovo,
senza trovare risposta.

3.
L’alfabeto maligno del ricordo
si compone a poco a poco,
una lettera alla volta,
come un canto muto che striscia lungo i corridoi della mia mente.
Ogni parola è una spina,
ogni frase una ferita che si apre e si richiude su se stessa.
Capire? No.
Capire è solo un gioco d’illusioni,
un labirinto di specchi dove ogni riflesso è sbagliato.
Il falso capire si appollaia sulla mia spalla,
come un corvo che mi scruta con occhi di carbone,
in attesa che qualcosa cada,
che un pensiero cada morto davanti ai suoi artigli.
E sopra di me,
nel cielo che non vedo,
ronza il drone —
aureola metallica dei tempi nuovi,
icona postmoderna che non ha sguardo né voce.
Non parla, non giudica, non consola.
Osserva,
con l’indifferenza di chi ha visto troppe cose e non ha più voglia di distinguere.
Resta lì,
immobile,
come una croce d’acciaio sospesa sopra la mia testa.

4.
Ora sento il crampo del patriota,
ma non di quello che marcia fiero sotto le bandiere.
No, il mio è il crampo di chi resta indietro,
di chi cammina su strade deserte,
mentre il suono della battaglia si spegne all’orizzonte.
Sono solo,
nella mia trincea invisibile,
dove il vento soffia canzoni che nessuno vuole ascoltare.
Stringo la cesta delle cerase infanti,
come si stringe un cuore appena nato.
Le cerase sono rosse,
ma d’un rosso pallido,
come il sangue giovane che non ha ancora imparato a scorrere veloce.
Le osservo,
una ad una,
come se fossero piccole lune cadute dal cielo.
Ogni frutto è un segreto,
ogni cerasa un battito che dorme,
in attesa che il sole decida se farle maturare
o lasciarle a marcire nell’ombra.
Le sfioro con dita leggere,
e sento che il loro respiro è caldo,
come se da qualche parte,
nella profondità del loro essere,
ci fosse ancora speranza.

5.
E il sole,
quel re arrogante,
sorge con la noncuranza di chi sa di non avere rivali.
Getta la sua luce su di me,
ma non come una benedizione,
piuttosto come un insulto.
Ogni raggio è una frusta,
ogni ombra un nemico che si dissolve.
Ma io resto fermo.
Non mi muovo.
Non cerco rifugio.
Stringo la cesta come fosse un’urna,
come fosse un ricordo che non voglio lasciar andare.
E mentre il giorno cresce,
sento che il tempo si distende attorno a me,
come un mare immobile,
dove ogni onda è un’eco che si spegne prima di raggiungere la riva.
Forse, da qualche parte tra quelle cerase,
c’è ancora un sogno che non ha smesso di respirare.
Forse, se resterò fermo abbastanza a lungo,
potrò sentirlo fiorire tra le mie dita.


___

I temi di questi testi si intrecciano in un gioco di ombre e luci, scavando nelle profondità dell’animo umano. Ecco i principali:

1. L’angoscia esistenziale e il mistero del sé
Il livido sulla tempia diventa simbolo di un dolore o di un trauma inspiegabile, una ferita che non ha nome né causa certa. Questo riflette il tema dell’angoscia interiore, di quei segni che la vita o il subconscio lasciano sul corpo e sull’anima, senza una chiara origine. L'ignoto che avvolge l'accaduto richiama il senso di smarrimento esistenziale.

2. La fragilità del corpo e dello spirito
Il corpo emerge come un campo di battaglia silenzioso, vulnerabile alle forze invisibili della notte e del sogno. Il livido rappresenta non solo una ferita fisica, ma anche una debolezza emotiva e spirituale. L’anima è tratteggiata come qualcosa di tenero, esposto ai colpi della vita e dei ricordi.

3. Il sogno e l’inconscio
Il sogno, con la sua opacità e i suoi sicari senza volto, si mescola alla realtà, sfumando i confini tra ciò che è stato vissuto e ciò che è stato solo immaginato o temuto. L’inconscio si manifesta attraverso immagini sfuggenti e sensazioni viscerali che resistono alla comprensione logica.

4. La memoria e il rempo
I reduci che camminano accanto ai sicari evocano il peso della memoria e del passato che si trascina nel presente. Il tempo viene percepito come una distesa immobile, dove i ricordi si accumulano come detriti sulla riva. Ogni gesto quotidiano — come osservare le cerase — diventa un tentativo di confrontarsi con ciò che è stato e con ciò che potrebbe non arrivare mai.

5. L’alienazione e la solitudine
Il protagonista è un patriota dimenticato, un soldato senza guerra, lasciato solo nella trincea della vita quotidiana. L’isolamento si riflette nella mancanza di risposte e nella presenza di un drone impassibile, simbolo di una modernità distante e priva di empatia.

6. La natura e la morte
Le cerase infanti, ancora acerbe e incerte, diventano un simbolo di vita sospesa. Questi frutti rossi richiamano sia la nascita che il declino, poiché potrebbero maturare o marcire. La loro fragilità riflette l’instabilità del destino e il ciclo della vita che oscilla tra fioritura e decomposizione.

7. La resistenza e la speranza silenziosa
Nonostante il dolore e l’incertezza, il protagonista rimane fermo, stringendo la cesta di cerase come fosse un’urna. Questo gesto suggerisce una forma di resistenza, un attaccamento ai piccoli simboli di speranza che ancora sopravvivono nell’ombra.

In sintesi, i testi attraversano temi universali come il dolore, la memoria, il sogno e la solitudine, avvolgendoli in un’atmosfera densa di malinconia e lirismo.