martedì 31 dicembre 2024

Jean Genet e il contesto di "Un chant d’amour"

"Un chant d'amour" (1950) rappresenta l'unico contributo cinematografico di Jean Genet, e si distingue come un'opera straordinariamente intensa e controversa, capace di sfidare le convenzioni artistiche e morali del suo tempo. Il film affronta con audacia temi complessi e spesso considerati tabù, come l'omosessualità, il desiderio, la solitudine e la repressione, immergendo lo spettatore in un universo poetico e struggente.

Realizzato interamente in bianco e nero, il film è privo di dialoghi, affidando ogni emozione e significato alla potenza delle immagini e al ritmo evocativo del montaggio. Con una durata di circa 26 minuti, questa pellicola assume la forma di un manifesto visivo e poetico, permeato dalla stessa sensibilità letteraria che caratterizza le opere scritte di Genet.
Nonostante la sua brevità, Un chant d'amour riesce a condensare una forza narrativa e visiva rara, posizionandosi come un'opera d’arte capace di trascendere i confini del cinema tradizionale. La pellicola fu accolta con controversie e censure, ma nel tempo è diventata un simbolo di resistenza artistica e una pietra miliare della rappresentazione queer nel panorama cinematografico.

La storia si svolge all’interno di un carcere claustrofobico, un microcosmo di solitudine e repressione dove i prigionieri, isolati nelle loro celle, cercano disperatamente di trovare modi alternativi, simbolici e sensuali, per comunicare tra loro. In questo spazio dominato dall’autorità e dalla coercizione, ogni gesto diventa un atto di resistenza, un grido muto contro l’isolamento. Tra i detenuti emerge una storia d’amore proibita, vibrante e struggente, che nasce contro ogni possibilità e si sviluppa attraverso un minuscolo buco nel muro che separa le loro celle. Da questo varco clandestino non passano solo sguardi furtivi e qualche parola soffocata, ma anche il fumo delle loro sigarette, che si intreccia nell’aria come una danza invisibile, simbolo del loro desiderio e della connessione che li lega.
Sul tutto incombe la figura del carceriere, un uomo che incarna il potere assoluto e una forma disturbante di voyeurismo. La sua presenza è una costante minaccia, un occhio sempre vigile che osserva ossessivamente i detenuti, non tanto per mantenere l’ordine quanto per nutrire il proprio desiderio morboso di controllo. Il suo sguardo non è solo quello di un’autorità repressiva, ma è anche carico di una violenza latente, intrisa di una sessualità deviata che aggiunge un ulteriore strato di tensione alla vicenda. Questa dinamica complessa tra potere, desiderio e repressione diventa il cuore pulsante della storia, trasformando il carcere in una metafora potente delle prigioni interiori e dei muri invisibili che gli esseri umani costruiscono per difendersi dalla vulnerabilità e dal bisogno dell’altro.

Jean Genet, figura di spicco nella letteratura e nel teatro, trasporta nel suo film un’estetica complessa, fatta di ribellione, desiderio e provocazione. Il suo approccio non è mai scontato: ogni elemento, dalla costruzione delle immagini alla scelta delle atmosfere, si colloca in una dimensione profondamente simbolica. La pellicola si nutre di un’attenzione costante al corpo umano, inteso non solo come mezzo espressivo, ma come un territorio di esplorazione sensuale e trasgressiva, dove le convenzioni sociali vengono sovvertite con eleganza e senza mai scadere nella volgarità. Genet riesce a creare un’opera che è, al tempo stesso, un inno alla libertà individuale e un manifesto di resistenza contro ogni forma di conformismo.
L’uso sapiente del bianco e nero non è una semplice scelta estetica, ma un vero e proprio strumento narrativo. Le tonalità contrastanti evocano una drammaticità intensa e conferiscono al film un’aura di intimità che cattura lo spettatore fin dal primo fotogramma. Ogni ombra, ogni riflesso diventa parte di una coreografia visiva in cui nulla è lasciato al caso. La mancanza di dialoghi, lungi dall’essere una limitazione, rappresenta un atto di rottura con le convenzioni cinematografiche: lo spazio lasciato al silenzio viene riempito da gesti, sguardi e movimenti che parlano con una forza straordinaria.
Le immagini si susseguono come frammenti di poesia visiva, dense di significati impliciti e di suggestioni oniriche. I corpi in scena non sono solo oggetti di desiderio, ma protagonisti di una narrazione che celebra la fisicità come strumento di libertà e come linguaggio universale. L’estetica di Genet, influenzata dalla sua esperienza teatrale e letteraria, trova nel film un’espressione matura e compiuta, capace di sfidare lo spettatore, di emozionarlo e, al tempo stesso, di interrogarlo sul senso profondo della trasgressione e del desiderio.
In questo contesto, il film diventa più di una semplice opera cinematografica: si trasforma in un’esperienza totalizzante, in cui ogni elemento contribuisce a creare un universo poetico e ribelle. La capacità di Genet di fondere simbolismo e sensualità, austerità e provocazione, fa del suo lavoro un capolavoro senza tempo, capace di parlare al cuore e alla mente con la stessa intensità.

Al momento della sua uscita, il film si trovò immediatamente al centro di una violenta polemica, che ne decretò la censura in numerosi paesi e il bando ufficiale dalle sale cinematografiche tradizionali. Le autorità, sostenute da un’opinione pubblica in gran parte impreparata a confrontarsi con rappresentazioni così esplicite e sincere del desiderio omoerotico, lo condannarono senza appello, definendolo scandaloso e moralmente pericoloso. In un’epoca in cui la sessualità queer era spesso taciuta, fraintesa o relegata all’ambito del vizio, il film apparve come una provocazione intollerabile, capace di mettere in discussione i pilastri di una società costruita sul rigido binarismo di genere e sulla repressione delle identità non conformi.
Nonostante la repressione ufficiale, il film iniziò a circolare nei circuiti underground, diventando una sorta di reliquia clandestina. Esso trovò il suo pubblico tra gli appassionati di cinema sperimentale e gli intellettuali più progressisti, che ne intuirono il potenziale rivoluzionario. Le proiezioni avvenivano spesso in segreto, in spazi marginali e lontani dagli occhi delle autorità, alimentando un’aura di mistero e proibizione che contribuì a trasformarlo in un’opera di culto. Per decenni, il film fu considerato un manifesto silenzioso, una dichiarazione di resistenza artistica in un’epoca in cui l’omofobia permeava ogni aspetto della vita pubblica e privata.
Col tempo, però, i valori culturali iniziarono lentamente a mutare. L’emergere di movimenti per i diritti civili, la visibilità crescente delle comunità LGBTQ+ e una maggiore apertura verso forme di espressione non convenzionali favorirono una rilettura dell’opera. Quello che un tempo era stato giudicato scandaloso cominciò a essere visto sotto una luce diversa: non più come una provocazione fine a sé stessa, ma come un coraggioso atto di affermazione identitaria. Gli studiosi di cinema ne misero in risalto l’estetica innovativa, la profondità psicologica e la forza narrativa, sottolineando come il film fosse riuscito a esplorare con rara sensibilità la complessità del desiderio queer, liberandolo dagli stereotipi e dalle rappresentazioni caricaturali a cui era stato confinato.
Oggi, il film non è solo un’opera d’arte acclamata, ma anche un simbolo della lotta per la libertà espressiva e per il riconoscimento delle identità queer nel panorama culturale globale. Riconosciuto come un capolavoro pionieristico, ha ispirato generazioni di artisti, registi e attivisti, diventando un punto di riferimento imprescindibile nella storia del cinema e un potente esempio di come l’arte possa sfidare le convenzioni, aprire nuove possibilità di rappresentazione e trasformare il modo in cui una società guarda a sé stessa. La sua parabola, da oggetto proibito a icona celebrata, testimonia il potere dell’arte di resistere al tempo, superare i pregiudizi e rivelare verità profonde sull’esperienza umana.

"Un chant d'amour" (1950), l'unico film diretto dal drammaturgo e scrittore francese Jean Genet, è un'opera che non solo ha segnato la storia del cinema, ma ha anche avuto un impatto duraturo sulla rappresentazione dell'omosessualità in ambito cinematografico e culturale. Considerato oggi un film di culto, "Un chant d'amour" è celebre non solo per la sua audacia tematica ma anche per la sua straordinaria bellezza visiva, che coniuga un’estetica ricercata e una riflessione politica sulla sessualità, il desiderio e la reclusione. Genet, già noto per la sua scrittura provocatoria, portò nel cinema la sua capacità di affrontare temi controversi con un linguaggio poetico e simbolico, che si sottraeva deliberatamente alla convenzionalità narrativa e visiva.
L'impatto del film fu immediatamente evidente, ma, come già detto, "Un chant d'amour" rimase per molti anni un’opera underground, diffusa solo in circuiti clandestini o attraverso proiezioni private. Tuttavia, la sua potenza visiva e il suo messaggio radicale di resistenza attraverso il desiderio non passarono inosservati. Registi come Derek Jarman e Todd Haynes riconobbero in "Un chant d'amour" un'opera fondamentale che aveva saputo trasformare la rappresentazione della sessualità in una forma di resistenza estetica e politica.
Jarman, in particolare, rivelò spesso di aver tratto ispirazione dal film di Genet per le sue opere, condividendo la stessa tensione tra desiderio e repressione, e utilizzando il cinema come mezzo per esplorare l'identità sessuale in modo esplicito e non edulcorato. La carica simbolica e provocatoria di Genet, unita alla sua visione del corpo come strumento di contestazione, influenzò anche Haynes, che in film come "Poison" (1991) e "Far from Heaven" (2002) continuò a sfidare le rappresentazioni tradizionali dell'omosessualità, arricchendo il panorama del cinema queer contemporaneo.
"Un chant d'amour" non solo ha rivoluzionato la rappresentazione dell'omosessualità al cinema, ma ha anche aperto nuove strade per comprendere come il cinema possa diventare uno strumento di critica sociale e politica. La pellicola ha reso visibile un desiderio che, in quegli anni, veniva sistematicamente marginalizzato, e lo ha fatto con un’estetica che ha superato la mera rappresentazione del corpo per diventare un linguaggio simbolico di lotta contro l'oppressione. Così, l’opera di Genet non è solo una celebrazione della sessualità come atto di libertà, ma anche una riflessione sulla condizione di reclusione, fisica e mentale, che accompagna ogni individuo emarginato dalla società.
Jean Genet era già noto come scrittore e poeta prima di cimentarsi con il cinema. Ex detenuto e outsider per eccellenza, ha sempre affrontato temi di marginalità, sessualità e potere nei suoi scritti. Questo film può essere visto come un'estensione visiva della sua poetica letteraria: il carcere non è solo uno spazio fisico, ma un simbolo della condizione umana, con la sua tensione tra costrizione e desiderio.

Un elemento cruciale è il voyeurismo, incarnato dalla figura del carceriere, che spia ossessivamente i prigionieri. Questo sguardo è ambiguo: da un lato rappresenta il controllo oppressivo, dall'altro suggerisce un desiderio represso. Genet utilizza il voyeurismo per sfidare lo spettatore, invitandolo a riflettere sul proprio ruolo di osservatore e sulla natura del desiderio.
L’erotismo nel film è quasi mistico, intrecciato con un simbolismo complesso
Il fumo delle sigarette che passa da una bocca all’altra attraverso il muro diventa metafora di un’intimità che sfida le barriere fisiche e sociali.
Il corpo umano è spesso ripreso in modo frammentato, trasformato in un oggetto di venerazione estetica, quasi come in un dipinto rinascimentale.
La pistola del carceriere, che accarezza morbosamente, è un evidente simbolo fallico che unisce violenza e desiderio.

Dal punto di vista stilistico, il film si inserisce nella tradizione dell’avanguardia europea, accostandosi a opere come quelle di Cocteau o Buñuel. Genet utilizza la fotografia e il montaggio per creare un'atmosfera sospesa, in cui i gesti lenti e ritualizzati amplificano il senso di tensione e desiderio.

Negli anni, "Un chant d’amour" è stato rivalutato da critici e accademici per la sua capacità di fondere la provocazione con la poesia. È stato anche incluso in studi sulla teoria queer, poiché sovverte le norme eterosessuali e patriarcali, trasformando il carcere da luogo di punizione a spazio di resistenza e liberazione erotica.
Nonostante sia stato girato più di settant’anni fa, "Un chant d’amour" resta una dichiarazione potente sulla necessità dell’amore e del desiderio in un mondo che cerca di reprimerli. È un’opera che sfida lo spettatore a guardare oltre i confini del lecito, verso un’umanità più autentica e universale.
Un’opera unica che ancora oggi incanta e inquieta con il suo linguaggio universale del desiderio e della libertà.

Arthur Rimbaud


Arthur Rimbaud, oh darling, il James Dean della poesia francese. Nato a Charleville nel 1854, questo ribelle delle Ardenne sfornava versi che hanno lasciato il mondo a bocca aperta quando era appena un ragazzino – e per ragazzino intendo uno che Victor Hugo ha descritto come un "bambino Shakespeare". Ma già prima di raggiungere l’età legale per ordinare un bicchiere di vino, Rimbaud disse "ciao ciao" alla poesia e si diede a una vita che avrebbe fatto invidia a un rockstar moderna: tra viaggi, eccessi e un’ossessione per lo sconvolgimento sensoriale, influenzò generazioni di artisti, musicisti e spiriti tormentati. Il tutto, ovviamente, condito da una morte prematura – perché, cosa sarebbe una leggenda senza una fine tragica?

A soli quindici anni, Rimbaud aveva già più maturità poetica di certi adulti in giacca e cravatta. "Ophélie", una delle sue prime poesie, venne considerata un capolavoro e inserita in numerose antologie. Ma poi scoppiò la guerra franco-prussiana, il suo mentore Georges Izambard lo lasciò e, come qualsiasi teenager drammatico, Rimbaud fece le valigie e tentò di scappare a Parigi. Senza un soldo, ovviamente, fu arrestato e finì in galera per una settimana. Tornato a casa, giusto per far impazzire sua madre, scappò di nuovo. Ma chi potrebbe biasimarlo? Il ragazzo cercava una via di fuga dall'oppressione provinciale.

A partire dall'ottobre 1870, il giovane poeta cominciò a vivere la sua migliore (o peggiore?) vita: beveva come se non ci fosse un domani, scriveva poesie che avrebbero fatto arrossire persino il più audace dei decadenti, e adottò uno stile di vita da vero outsider. Rimbaud non si fermò qui: proclamò un nuovo metodo poetico, un “sconvolgimento totale dei sensi”, e abbracciò il caos come fonte di ispirazione. Decisamente non un tipo che amava le mezze misure.

Nel frattempo, grazie a un amico, Rimbaud si mise in contatto con Paul Verlaine, uno dei poeti più hot dell'epoca. Dopo un paio di lettere piene di poesia, Verlaine – che probabilmente aveva già capito dove sarebbe andata a parare la cosa – invitò il giovane genio a Parigi, offrendogli un biglietto di sola andata. È così che cominciò la loro torbida storia d'amore, tra assenzio, hashish e folli avventure. Per un po', furono la coppia più scandalosa della Parigi letteraria. Ma come ogni relazione infuocata, non durò a lungo prima che le cose precipitassero.

Nel settembre 1872, i due amanti si trasferirono a Londra, una decisione che Rimbaud avrebbe in seguito definito "un grande errore". Qui, vivevano nella miseria, tirando avanti con lavori saltuari e un po' di aiuto da parte della madre di Verlaine. E, come puoi immaginare, con Verlaine sempre più preda dell'alcolismo, la loro relazione divenne esplosiva. E non in senso positivo.

Nel luglio 1873, durante un viaggio a Bruxelles, Verlaine decise che era il momento di mettere un po' di pepe alla loro faida e sparò a Rimbaud (tranquillo, lo colpì solo al polso). Rimbaud non lo prese sul personale, ma quando Verlaine cominciò a comportarsi come un pazzo, decise che era meglio farlo arrestare. E così Verlaine finì in prigione, con tanto di processo e umiliante esame medico che rivelò dettagli imbarazzanti della loro relazione. Ah, i drammi d'amore...

A soli 21 anni, Rimbaud decise che la poesia non faceva più per lui. Dopo aver lasciato Verlaine e la letteratura alle spalle, si dedicò a viaggi avventurosi, vagando per l'Europa, l'Asia e l'Africa. Ma il suo destino lo aspettava dietro l'angolo: nel 1891, mentre si trovava in Nord Africa, sviluppò un'infezione alla gamba. Tornato in Francia, la sua gamba fu amputata, ma non ci fu nulla da fare. Rimbaud morì poco dopo, a soli 37 anni, lasciando dietro di sé una leggenda che brucia ancora oggi.

lunedì 30 dicembre 2024

Non è altro che silenzio e oblio.

Nel 1985, un anno che per me segnò una vera e propria frattura esistenziale, come un confine netto che separa ciò che è stato da ciò che sarà, ebbe inizio la mia avventura letteraria. A ripensarci oggi, con la distanza del tempo e l'accumulo di esperienze, quel momento appare come un punto di non ritorno, il preludio di un percorso che non avrei mai potuto abbandonare. Prima di allora, la tentazione di scrivere era stata un richiamo persistente, un sussurro che mi accompagnava nei giorni e nelle notti, insinuandosi nei miei pensieri con la forza di qualcosa di inevitabile, di già scritto nel destino. Tuttavia, scrivere non era ancora diventato un atto concreto, ma solo un desiderio sospeso, un'idea vaga che trovava spazio nella mia immaginazione, senza mai trasformarsi in parole vere e proprie. Quell’anno, però, qualcosa cambiò: sentii crescere dentro di me una nuova urgenza, un bisogno che andava oltre il semplice atto dello scrivere. Volevo essere letto, volevo che le mie parole trovassero un pubblico, che entrassero in relazione con altri occhi, altre menti, altre vite. Non si trattava solo di comunicare, ma di creare un legame, di lasciare un segno, per quanto piccolo e incerto, nel mondo degli altri.

Questo desiderio di essere letto, tuttavia, non fu accompagnato da alcun tipo di tregua o di conforto. Non ci furono intervalli in cui potessi fermarmi a riflettere, né medicamenti che potessero lenire il peso di questa necessità. Scrivere si configurava come un atto inevitabile, una strada che dovevo percorrere senza esitazioni, anche se sapevo bene che sarebbe stata irta di difficoltà. Non c’erano scorciatoie, né modi per aggirare l’asprezza di quel cammino. Lo sapevo, e accettavo questa consapevolezza con un misto di timore e determinazione. Già, il mio era un viaggio senza mappe, senza punti di riferimento certi, ma proprio per questo profondamente autentico.

Eppure, nonostante tutto, scrivere non era per me un gesto ossessivo o patologico. Non era un rifugio in cui nascondersi dalle sfide della realtà, né una mania da coltivare in segreto. Al contrario, era un atto lucido, consapevole, che affrontavo con una sorta di reverenza, ma anche con un’inquietudine costante. E qui entra in gioco il mio rapporto con le parole, che non sono mai state per me semplici strumenti o veicoli di significato. Le parole erano, e sono tuttora, materiali complessi, intricati, spesso impuri. Le percepivo come frammenti sporchi, residui di qualcosa di più grande, che dovevano essere ripuliti, analizzati, trasformati. Ogni parola portava con sé un peso, una storia, una stratificazione di significati che dovevo necessariamente affrontare per restituirle una nuova luce, una nuova vita. Questo processo, continuo e mai definitivo, era per me una sorta di lotta interiore, una tensione tra il bisogno di controllare il linguaggio e la consapevolezza che le parole, in fondo, sfuggono sempre a ogni tentativo di dominio.

In tutto ciò, le parole non erano soltanto espressioni del pensiero o strumenti di comunicazione, ma veri e propri residui di tutto ciò che avevo letto, vissuto e immaginato. Erano frammenti, detriti di un'esperienza più vasta, e forse anche frammenti della mia stessa anima. Sì, perché mi sono spesso chiesto se l’anima, ammesso che esista, non risieda proprio nelle parole, in quei segni apparentemente semplici che portano con sé l’intera complessità dell’essere umano. Se mai un’anima c’è stata, la immagino così: come una presenza sottile, nascosta tra le righe, nei margini di ciò che scriviamo e leggiamo, nei silenzi che circondano le parole stesse. Scrivere, allora, non era solo un atto creativo, ma un tentativo di scavare più a fondo, di andare oltre la superficie e trovare, tra le pieghe del linguaggio, qualcosa di vero, di autentico, che potesse parlare non solo di me, ma di un’esperienza universale.


Ecco. A volte mi torna l’interrogativo, insistente e quasi ossessivo, del perché di tutto quell’organizzare di allora. Perché ero così dedito, così ostinato nel tentare di mettere ordine in quel groviglio di emozioni e pensieri che agitavano le mie giornate? Forse perché c’era, in quel caos, una specie di urgenza, una necessità intrinseca di trovare una direzione, un senso, un punto fermo. Ma, come spesso accade, quel tentativo di organizzazione non produceva ordine vero e proprio, bensì un’ulteriore proliferazione di domande, di incertezze, di desideri frammentati. Era un congegno imperfetto, fatto di aspirazioni che non riuscivano mai a raggiungere una forma compiuta, un equilibrio stabile. Ogni mia parola, ogni mio pensiero, sembrava muoversi su un terreno instabile, come su una lastra di ghiaccio sottile che poteva rompersi da un momento all’altro.

E la scrittura – ah, la scrittura – era la manifestazione più evidente di questa instabilità. Mai qualcosa di definitivo, mai un punto d’arrivo, ma sempre un movimento, una tensione irrisolta. Scrivere non era altro che un gioco di equilibri precari tra due poli opposti: da un lato, il desiderio bruciante di farmi vedere, di esistere agli occhi degli altri, di gridare al Mondo ecco, ci sono, io sono qui!; dall’altro, una paura altrettanto intensa, quasi paralizzante, di essere davvero visto, di essere davvero compreso. La mia scrittura oscillava così, continuamente, tra questi estremi, rivelandosi e subito nascondendosi, come un’apparizione fugace che si dissolve prima ancora di essere afferrata. Ogni frase, ogni parola, sembrava essere al tempo stesso un’affermazione e una negazione, un gesto di apertura e uno di chiusura. E tutto questo era sorretto – se così si può dire – dal nulla. Dal vuoto stesso che è il linguaggio: una struttura fragile, illusoria, che però, in un modo quasi miracoloso, consente a chi scrive di andare avanti, di non fermarsi mai. È proprio quel nulla, quel vuoto, che rende possibile un movimento infinito, una ripetizione senza fine, un’esplorazione che non si esaurisce mai.

Riflettere su tutto questo significa, inevitabilmente, tornare con il pensiero a quegli anni. Non è una riflessione neutra, però; è intrisa di emozioni contrastanti, di nostalgia, di rimpianto, ma anche di una sorta di amara gratitudine. Quegli anni mi hanno formato, nel bene e nel male, e non posso che rendergli omaggio, anche se questo omaggio non è privo di ombre. Tra le ombre più scure c’è, senza dubbio, il ricordo di quella maledetta notte oscura, di quel momento che ancora oggi fatico a raccontare, a mettere nero su bianco. Una notte in cui tutto sembrò sgretolarsi, in cui persi tutto: non solo la sicurezza, non solo la fiducia, ma anche il respiro stesso, la capacità di parlare, di reagire. Non fui io a togliermi tutto questo, ma altri, con una facilità e una freddezza che ancora oggi mi sconvolgono. Era come se avessero saputo esattamente dove colpire, come spegnere la mia voce nel modo più silenzioso e definitivo possibile.

Eppure, nonostante tutto, sono qui. Sono ancora qui. Questa scrittura – anche se nessuno la ascolta, anche se nessuno sembra accorgersene – è il mio modo di rispondere, di riprendermi ciò che mi era stato strappato. È una resistenza silenziosa, ma non per questo meno tenace. È una denuncia che non si ferma, che non si lascia zittire, anche se per molti, soprattutto per quelli di quell’ambiente in cui tutto è iniziato, appare come un’inutile testardaggine. Mi vedono come un maledetto senza speranza, un Don Chisciotte del ricordo, qualcuno che non sa fare altro che rinfacciare il passato, riportarlo continuamente alla luce. Ma io so che non è così. Io so che questa insistenza non è un semplice capriccio, né una posa. È qualcosa di più profondo, qualcosa che riguarda la mia stessa identità.

Perché scrivere, per me, significa affermare chi ero, chi sono stato, e – nonostante tutto quello che è successo – chi continuo a essere. Significa resistere all’oblio, al silenzio, alla cancellazione. Significa dire, con ogni parola che riesco a mettere su carta: io sono qui, io sono ancora qui. Anche se nessuno ascolta, anche se nessuno risponde. Scrivere è la mia rivincita, il mio modo di restare in piedi, il mio modo di esistere. E continuerò a farlo, anche quando sembrerà inutile, anche quando sembrerà impossibile. Perché, alla fine, è l’unica cosa che so fare. L’unica cosa che mi tiene vivo.


In tutti gli anni di obbligato silenzio, e nell’attuale dimenticanza che mi avvolge come un sudario, s’ambienta questa mia furibonda visione onirica, una fantasia febbrile fatta di niente e nullità, un paesaggio desolato dove il tempo è una prigione e il presente un nemico implacabile. È uno spazio indefinito, senza coordinate né appigli, dove ogni tentativo di ricollegare i fili spezzati della mia esistenza si infrange contro un muro invisibile, ma impenetrabile. È come vivere in una notte eterna, dove la luce non arriva mai, dove ogni passo è un inciampo e ogni ricordo un’ombra che si allunga fino a inghiottirmi. Ecco, questa visione è come una lamentazione premente, un lamento che monta incessante, un canto doloroso che nasce dal profondo della mia anima, una passione scura, tormentata, che sembra sgorgare da un simbolico stupro di gruppo. È un atto di violenza non fisico ma spirituale, un annientamento autorale, una cancellazione di ciò che ero e di ciò che avrei potuto essere, un colpo che ancora mi ferisce, che mi lacera senza tregua, che continua ad annientare ogni valore, ogni idea di giustizia o dignità, se mai ce ne fossero stati, e che soprattutto ha distrutto la pudicizia iniziale del mio essere scrivente. Quella timida pudicizia, quella fragile innocenza che accompagnava i miei primi tentativi di esprimere il mondo interiore attraverso le parole, è stata calpestata, derisa, schiacciata sotto il peso di una crudeltà senza volto e senza nome.

La pochezza estrema di alcuni, di coloro che si sono fatti carnefici senza esitazione, che hanno scelto deliberatamente di ordinare l’oscenità senza remore del mio annientamento, rimane una ferita che brucia incessantemente. Mi colpisce ancora la loro meschinità corrosiva, quella capacità di infliggere dolore senza un minimo tentennamento, di perpetrare una violenza non fisica ma comunque devastante, una violenza che ha trovato in me il suo bersaglio ideale. Di fronte a tutto questo, la mia continua reticenza, per anni, al dire, al raccontare, al ritornare su ciò che è stato, al semplice esserci ancora, è stata una scelta obbligata, ma anche un tormento interiore, una lotta contro la mia stessa natura. Avrei voluto urlare, raccontare, denunciare, ma non ci sono riuscito. E così, questo silenzio si è trasformato in una gabbia, una prigione fatta di parole non dette, di emozioni represse, di un dolore che si accumulava senza mai trovare una via d’uscita. È un urlo disperato, ma muto, che non osa nominare direttamente chi, come, cosa, perché. Un urlo che si perde nel vuoto, in un deserto di indifferenza, dove nessuno chiede, nessuno vuole sapere, nessuno si ferma a guardare. Tutto questo accade come se la mia comunicazione, il mio tentativo di esprimermi, fosse percepito come il delirio di uno squilibrato, come il gesto folle di chi, al silenzio verbale imposto dagli altri e al vortice di pensamenti che lo travolge, oppone con testardaggine l’ultima sequela incalzante di pretese d’ascolto.

E queste pretese, queste richieste di attenzione, sono le uniche armi che mi sono rimaste. Sono una catena incessante di parole, un flusso continuo che non si interrompe, una sequela di frasi che si accavallano, si sovrappongono, si rincorrono, come un fiume in piena che cerca disperatamente di trovare uno sbocco, una via per sfuggire alla prigionia del silenzio. È una battaglia impari, una lotta contro un muro di indifferenza, contro un mondo che sembra sordo, cieco, insensibile al mio dolore. Ogni parola che scrivo, ogni frase che pronuncio, è un atto di resistenza, un modo per affermare la mia esistenza, per dire che sono qui, che non sono stato completamente annientato, anche se a volte mi sento come se lo fossi. Eppure, continuo a scrivere, a parlare, a gridare, nella speranza che, da qualche parte, qualcuno mi ascolti, che le mie parole trovino un’eco, che il mio dolore non sia stato completamente vano. Perché, alla fine, è solo attraverso le parole che posso sperare di riconquistare ciò che mi è stato tolto, di ricostruire ciò che è stato distrutto, di ridare un senso alla mia esistenza.


Al contrario, invece, la strepitosa e devastante descrizione degli atti avvenuta nei miei confronti, che potrebbe sembrare a un occhio estraneo un semplice resoconto, un’annotazione superficiale, è invece una perfetta didascalia, un inno disperato e al tempo stesso un epitafio, della mia stessa condizione attuale, una condizione che non lascia spazio né a redenzione né a consolazione, ma si dilata come un abisso senza fondo. È un’eco cupa che risuona incessantemente dentro di me, come se fossi imprigionato nel nientetutto, in quella zona grigia in cui la realtà si dissolve e diventa assenza, e l’assenza stessa si tramuta in una presenza opprimente, quasi tangibile, che mi soffoca e mi avvolge. È come se spingessi, con uno sforzo disperato, umori spermali che non trovano mai ritorno, che scivolano via senza lasciar traccia, umori che si spargono ovunque, impregnando ogni angolo della mia realtà, ma non generano vita, bensì solo vuoto, un vuoto che contamina tutto ciò che tocca. Anche le parole, che dovrebbero essere il mio rifugio, il mio strumento di lotta, si disfano sotto il peso del loro stesso significato, si sgretolano tra le dita come sabbia asciutta e sterile.

È come se potessi davvero andare via da qui, ma non nel senso fisico del termine; è un desiderio più profondo, più radicale, di fuggire da questo stato, da questo scrivere che non mi trattiene più, che si è trasformato in un flusso inarrestabile e incontrollato, un vomitare segni e suoni che scorrono ovunque senza argini, come un fiume in piena che non conosce né direzione né scopo, ma si disperde e si perde. Voglio gridarlo a chiunque, a chiunque sia disposto ad ascoltare, ma intanto mi trovo a rientrare, a ripiegarmi su me stesso, in questo dolore che non mi abbandona, lo ricalco, lo rinforzo con ogni parola che scrivo, eppure il mio desiderio più autentico sarebbe quello di fuggire, di allontanarmi da tutto questo, e soprattutto da voi, voi, maledetti che mi resistete, che erigete muri di indifferenza e disprezzo, che non mi ascoltate, che vi ostinate a non partecipare con un minimo di empatia o di piacere al mio gran lutto. Non scrivo più. Non lo farò più. Non ne vale la pena. Non importa. Non importa a me, non importa a voi, non importa a nessuno.

È un dialogo solitario, senza interlocutori, senza risposta, di un’anima confusa, smarrita, che cerca disperatamente di mettere a nudo il proprio cuore, ma si ritrova invece schiacciata, soffocata da un dialogo insano, un confronto impari e crudele tra ragione e passione, tra l’illusione e il tradimento. E questo tradimento, questo veleno che mi corrode dall’interno, si rinnova incessantemente, ancora e ancora, sì!, ancora una volta!, come un incubo ricorrente che non mi dà tregua. È un maledetto, infido, invisibile inganno, che mi perseguita e si concretizza ogni volta che mi voltate le spalle, ogni volta che chiudete con violenza e noncuranza le porte di una comunicazione che ormai sembra impossibile, ogni volta che mi lasciate solo nella porca notte dell’oblio, un oblio che cancella ogni tentativo, che azzera ogni sforzo di avvicinamento e trasforma ogni speranza in disperazione.

E le suppliche iniziali, le implorazioni, le preghiere accorate per essere ascoltato, per ricevere un cenno, una parola, un gesto, si contorcono su se stesse, si stravolgono, si deformano in una spirale di cristi urlati e bestemmie gridate contro di voi, contro quegli uomini che osano calpestare la mia esistenza, che osano ignorarmi, e che, un giorno, possano provare lo stesso inferno che mi ha ridotto in brandelli: la fine di tutto, l’annichilimento assoluto di ogni loro fatica, di ogni loro costruzione, come una torre che crolla su se stessa senza pietà. Siate maledetti!, sì!, che di voi si dica male per l’eternità! Questo è il mio augurio! Questo è il mio maledetto desiderio! Che la mia consunzione, il mio esaurimento come essere umano e come scrivente, si ritorca contro di voi come un boomerang avvolto in un manto di luci cupe e sanguigne, un urlo muto che vi perseguiti nei vostri peggiori incubi e che faccia scempio del vostro mondo, così come voi avete fatto del mio. Sia questo il mio testamento, sia questa la mia ultima parola, che non sarà dimenticata, ma risuonerà per sempre nelle vostre orecchie, come un’eco oscura che vi accompagnerà ovunque andiate, perché di voi si dica male, e il mio dolore non venga mai dimenticato.


Dalla disperazione più profonda, quella che non trova tregua, quella che non conosce riposo, vi consegno il vuoto, un abisso senza fondo, un'assenza di speranza tanto vasta da inghiottire qualsiasi barlume di luce. Non c'è conforto qui, né possibilità di redenzione, né promessa di un domani migliore. Vi lascio, come un dono avvelenato, un futuro fatto di incertezza, di implorazioni mute rivolte a un cielo sordo, un futuro in cui non ci sarà alcuna consolazione, solo la fatica sterile di cercare attenzione da parte di un mondo che si rifiuta di guardare. Un futuro che non è altro che una continua fuga da un presente che si dissolve come nebbia al sole, un presente che non riesco più ad afferrare, che si sgretola tra le dita lasciandomi con un senso di perdita che non può essere descritto. Vi affido, con rabbia, la mia estraneità a ogni parola che osate mettere sulla carta, a ogni frase che tentate di far vivere. Io non ci sono più in quelle parole, non mi appartengono, non mi riflettono, e non voglio più avere nulla a che fare con voi. Editori o scrittori, qualunque titolo vi siate arrogati, vi auguro l’unica cosa che resta in me: la maledizione eterna. Siate maledetti, per sempre, senza requie.

Eppure, non basta. Voglio di più. Vi pretendo qui, davanti a me, subito, ora, in questo momento che è già un’eco di follia. Voglio trascinarvi dentro la mia assenza, costringervi a partecipare a questo spettacolo disperato in cui non c’è spazio per l’ascolto, in cui tutto si perde nel ruggito del non-detto, del non-sentito. Voglio sentirvi tacere, chiudere quelle bocche che parlano troppo e non sanno dire nulla. Voglio vedere il silenzio calare come una mannaia, definitivo, irreversibile, spegnendo ogni vostro sussurro, ogni vostro tentativo di esprimere ciò che non vi appartiene. Voglio chiudere quelle bocche per sempre, tappandole con il peso della mia collera, del mio rifiuto, della mia insopportabile solitudine.

Venite qui, allora. Venite a condividere questo inferno in cui vivo e di cui non conosco più l’origine, questo luogo di desolazione dove il tempo non ha significato e dove io stesso non riesco più a ricordare chi sono. Venite a sedervi accanto a me, nell'ombra e nel nulla, e cercate di trovare un senso laddove non ce n’è. Venite a condividere il tormento di un’esistenza che non si riconosce più, che ha smarrito ogni traccia di sé, che si è spenta senza lasciare altro che un’eco vuota. Portatevi qui, nel fuoco e nella cenere, e ditemi se riuscite ancora a parlare, a scrivere, a creare, quando tutto ciò che vi circonda non è altro che silenzio e oblio.

La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali


La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali tradotti e presentati da Alessandro Barbero è una raccolta che porta alla luce un lato spesso ignorato del Medioevo: quello della licenziosità arguta e della satira popolare. Il titolo, audace e diretto, non lascia spazio a dubbi: qui si affrontano i fabliaux, brevi racconti burleschi e talvolta scabrosi che rappresentano una finestra sulla quotidianità e sulla mentalità di un'epoca lontana.

Barbero, storico noto per la sua capacità di avvicinare il grande pubblico alla storia, si dimostra anche eccellente traduttore e curatore. Il libro offre testi che spaziano dal comico all'irriverente, spesso focalizzati su temi corporei, relazioni sessuali, e rovesciamenti di potere tra i sessi e le classi sociali. La traduzione restituisce con freschezza il gusto dell'originale, senza perdere il sapore un po' piccante e la vivacità dei testi medievali.

Il grande pregio del volume sta nella sua capacità di coniugare il rigore accademico con la leggerezza narrativa. Barbero non si limita a tradurre, ma offre un'introduzione e note puntuali che contestualizzano ogni fabliau, rendendo chiaro al lettore moderno il contesto storico e culturale di queste storie. Le illustrazioni e la grafica della copertina, che richiamano il mondo medievale, completano l'esperienza di lettura.

È un libro che, pur non essendo per tutti a causa del linguaggio esplicito, risulta irresistibile per chi vuole esplorare il Medioevo senza filtri idealizzati. Con humour e intelligenza, La voglia dei cazzi ci ricorda che il passato, pur distante, è molto più simile a noi di quanto si potrebbe pensare. Una lettura godibile, irriverente e sorprendentemente istruttiva.

Un aspetto che vale la pena sottolineare è come i fabliaux rappresentino un'autentica voce popolare, lontana dall'aulicità e dalle raffinatezze della letteratura cortese. Sono racconti dove il corpo, il desiderio, e la trasgressione si intrecciano con una feroce ironia, smascherando ipocrisie sociali e religiose. Qui, preti lussuriosi, mogli furbe e mariti ingenui diventano i protagonisti di un teatro grottesco che parla di pulsioni universali, ancora riconoscibili oggi.

Alessandro Barbero si dimostra magistrale nel cogliere lo spirito di questi testi e nel trasporlo in un italiano moderno che non tradisce l'ironia mordace degli originali. Riesce a conservare la crudezza senza scadere nel volgare gratuito, facendo emergere la genialità narrativa di questi racconti spesso snobbati dalla storiografia tradizionale. Inoltre, il suo lavoro di traduzione non si limita a una resa letterale, ma restituisce il ritmo e la musicalità che i fabliaux avevano come testi orali, destinati a essere recitati.

Un altro punto di forza del libro è la riflessione che ispira: questi racconti, per quanto apparentemente leggeri e comici, offrono una lente critica sulla società medievale, mettendo in ridicolo le gerarchie e rivelando le tensioni tra classi sociali, ruoli di genere e potere ecclesiastico. In un'epoca in cui il sesso e il corpo erano controllati e moralizzati, i fabliaux erano una ribellione narrativa, un mezzo per dare voce alle fantasie e ai desideri repressi.

In definitiva, La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali non è solo una lettura spassosa, ma anche un invito a riconsiderare il Medioevo come un'epoca vivace, carnale e incredibilmente umana. È un libro che soddisfa sia la curiosità storica che il gusto per la provocazione intellettuale, lasciandoti sorridere e riflettere allo stesso tempo. Un gioiello raro per chi sa apprezzare il lato più scanzonato della cultura medievale!

Un'ulteriore riflessione interessante riguarda il fatto che La voglia dei cazzi e la sua selezione di fabliaux ci pongono di fronte a una delle contraddizioni più affascinanti della cultura medievale: la coesistenza di un'ideologia cristiana che predicava la castità e la purezza, e una produzione letteraria che invece celebra il corpo, il sesso e la carnalità in modo esplicito. I fabliaux non sono solo storie di trasgressione, ma spesso raccontano il lato ironico e liberatorio della vita quotidiana, facendo emergere un conflitto tra le morali imposte dalla Chiesa e i desideri più terreni e immediati delle persone.

Al di là del contenuto spiccatamente erotico, questi racconti sono anche un riflesso di un'umorismo di classe e di un'abilità di osservazione sociale che potrebbe facilmente adattarsi alla realtà di qualsiasi epoca, compreso il nostro tempo. Le storie di inganni, tradimenti, e vittorie delle donne sui loro mariti o dei poveri sui ricchi, mostrano un'abilità narrativa che non perde di attualità. In un certo senso, leggere i fabliaux è un atto di "smascheramento": è come se l'autore medievale ci dicesse che la vita è fatta di ipocrisie e di piccole (e grandi) trasgressioni, e che, in fondo, siamo tutti uguali davanti alla nostra umanità più cruda.

Inoltre, proprio grazie alla traduzione di Barbero, possiamo vedere come certi temi "scabrosi" del Medioevo siano, in realtà, abbastanza universali. In un'epoca in cui il puritanesimo e la censura dominano i discorsi pubblici, i fabliaux ci ricordano che la libertà di parlare di sesso, desiderio e piacere, sebbene a volte problematica, è stata sempre una parte fondamentale della letteratura e della cultura.

In conclusione, La voglia dei cazzi non è solo un viaggio nelle trasgressioni medievali, ma anche un'opera che stimola una riflessione sul nostro rapporto con la morale, l'umorismo e la cultura. Ci invita ad apprezzare la vitalità dei racconti che, pur nell'irriverenza e nella volgarità, raccontano la parte più autentica e "umana" della vita sociale, rivelando quanto, in fondo, poco siamo cambiati nel tempo.

Un'altra nota potrebbe riguardare il modo in cui La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali sfida anche il nostro rapporto con la storia letteraria e la censura. Oggi, i temi trattati nei fabliaux potrebbero sembrare eccessivi o scandalosi, ma è interessante come la letteratura medievale fosse in grado di affrontare con umorismo e disinvoltura argomenti che oggi vengono spesso marginalizzati o trattati con imbarazzo. La presenza di temi come il sesso esplicito, l'inganno, e il cinismo sociale, che in molti contesti contemporanei verrebbero considerati tabù, venivano celebrati in queste storie come parte integrante della condizione umana.

Inoltre, il fatto che Alessandro Barbero abbia scelto di tradurre e presentare questi testi ai lettori moderni non è solo un atto di recupero storico, ma anche una provocazione. È come se l’autore ci stesse dicendo che non dobbiamo avere paura di affrontare la dimensione "scomoda" della storia letteraria e, al contempo, ci invita a riflettere su come la nostra visione della storia sia spesso filtrata da pregiudizi morali e ideologici.

In un'epoca in cui la censura e la moralizzazione del contenuto sembrano essere sempre più prevalenti, leggere e apprezzare i fabliaux diventa anche un atto di resistenza culturale. Questi racconti ci invitano a fare un passo indietro rispetto alla nostra idea di "decenza" e ad abbracciare la parte più viscerale e non filtrata della narrativa umana.

In definitiva, oltre al piacere della lettura per la sua vivacità e il suo carattere scanzonato, il libro invita anche a una riflessione più profonda sulla natura della letteratura, su come la società ha sempre gestito e trattato il corpo e il desiderio, e su quanto poco, forse, siamo davvero cambiati rispetto ai tempi medievali in termini di risate, trasgressioni e riflessioni sulla vita.