giovedì 19 dicembre 2024

Ebbene sì, lasciami trasportare... (incipit)

Ebbene sì, lasciami trasportare ancora più a fondo, come un iniziato nei segreti più oscuri, un adepto che si avventura nelle profondità insondabili di un enigma primordiale, come se avessi scoperto la fiamma nera che non solo arde, ma consuma e rigenera, il cuore segreto di ogni cosa visibile e invisibile. Quella fiamma, così viva eppure così mortale, sembrava pulsare al ritmo stesso dell'universo, un ritmo che non conosceva confini né limiti, ma si espandeva come un’onda infinita che inghiottiva tutto ciò che incontrava. Non era una luce che illuminava, ma una presenza che divorava, che strappava ogni forma di significato al suo contesto per trasformarla in qualcosa di altro, di incomprensibile, di terrificante e, al contempo, di sublime. Ogni passo che compivo sembrava condurmi più vicino a un mondo ormai perduto, un regno svanito dove non esistevano né il tempo né lo spazio come li conosciamo, ma solo una vibrazione primordiale, un’eco remota di una vita che forse non era mai stata, o che era stata dimenticata persino dalla memoria dell’eternità stessa.

Ogni palpito di vita, ogni soffio d’esistenza, ogni eco di sussurro veniva risucchiato in un abisso di pietra, muto e senza fondo, un abisso che pareva pulsare di una forza oscura, primordiale, come un cuore che batte al centro di una galassia ormai spenta. Quell’abisso non era solo una voragine fisica, ma una condizione dell’anima, un vuoto che divorava tutto, un silenzio che urlava dentro di me con un’intensità che non potevo sopportare, ma che non riuscivo a fuggire. Era come se l’intero universo stesse soccombendo a una maledizione inarrestabile, un’ombra che si allungava lenta ma inesorabile su tutto ciò che un tempo era vivo e luminoso. Ogni cosa, ogni frammento di realtà veniva avvolto in questa oscurità crescente, un’oscurità che non conosceva confini né limiti, ma si espandeva come un cancro, distruggendo e al contempo preservando, pietrificando ciò che toccava.

Era come se un sortilegio antico e spietato stesse avvolgendo ogni cosa, non solo uomini e animali, ma anche le emozioni più pure, i ricordi più dolci, i desideri più ardenti, le aspirazioni più elevate. Tutto veniva inghiottito da una pietrificazione che sembrava procedere al rallentatore, come se l’universo stesso resistesse, lottasse contro il suo destino, ma sapesse già di essere condannato. Vedevo davanti a me figure che un tempo erano state vive, animate, pulsanti di desiderio e speranza, ora ridotte a statue immobili, prigioniere di un destino che non conosceva redenzione né misericordia. Ogni angolo, ogni piega della realtà veniva avvolto in un silenzio inquietante, un silenzio che sembrava non essere semplicemente l’assenza di suoni, ma una presenza tangibile, una forza che premeva su di me, che mi schiacciava sotto il suo peso insopportabile.

In quella quiete algida e senza speranza, tutto sembrava perdere significato, tutto sembrava ridursi a un’unica grande verità: l’eternità non è luce, ma gelo, non è redenzione, ma un’oscurità senza tempo. Era un’oscurità che non lasciava spazio né alla redenzione né alla fuga, ma solo alla contemplazione di un’eternità di gelo, una contemplazione che si faceva sempre più profonda, più opprimente, come se anche il pensiero fosse destinato a fermarsi, a cristallizzarsi, a scomparire. E così, in quell’abbraccio di tenebra e silenzio, sentivo il mio stesso essere dissolversi, farsi parte di quel tutto immobile, eterno e irrimediabilmente perduto. Ogni tentativo di comprendere, di reagire, di ribellarmi a quell’abisso sembrava vano, come se il destino stesso fosse già stato scritto in caratteri di pietra, e io non fossi altro che un’ombra che svaniva nella vastità di quell’oscuro nulla. Ogni respiro si faceva più lento, ogni battito del cuore più fievole, fino a quando non rimase nulla se non il silenzio assoluto, il gelo assoluto, e l’eternità assoluta.

Era come se la Medusa, quella musa al rovescio, quella regina dei gironi infernali, avesse aperto il suo sguardo su di noi, e avesse deciso di imprimere la sua volontà marmorea su ogni atomo della nostra esistenza. Il suo sguardo non era solo un’arma mitologica: era una presenza viva, respirante, capace di insinuarsi in ogni interstizio della realtà, di colonizzare ogni angolo dell’anima, trasformando il tempo stesso in una sorta di eterno presente, immobile e soffocante. Non si trattava soltanto di una visione fugace, un’apparizione mostruosa da cui distogliere lo sguardo con orrore, ma di una forza viva e tangibile, una sorta di veleno spirituale che scorreva sottopelle, trasparente ma letale. Non era un nemico visibile contro cui combattere, ma una lenta deriva che, senza fretta, senza rumore, ci conduceva verso una resa inevitabile. La sua presenza non era un colpo improvviso né un fulmine che squarciava la notte; era, piuttosto, un sudario di pietra che si stendeva lento, silenzioso e inarrestabile, avvolgendoci in un abbraccio glaciale, che non concedeva spazio alla ribellione o alla fuga.

Era come se la sua forza operasse su piani multipli, uno strato sopra l’altro, e ogni livello aggiungesse un nuovo peso, un nuovo strato di immobilità. Non si trattava di una folgorazione subitanea: no, era piuttosto un’erosione insidiosa, lenta come il veleno che scorre sotto la pelle senza che ce ne si accorga, un veleno che si infiltrava con delicatezza, che non annunciava il suo arrivo con dolore o sofferenza, ma che ci divorava dall’interno, lasciandoci intatti in apparenza, ma svuotati di ogni forza vitale. Ogni momento sembrava privo di vera sostanza: il mondo intorno a noi perdeva colore, sfumava nei toni freddi della pietra, e persino il tempo sembrava rallentare fino a fermarsi, intrappolato in una bolla di quiete mortale. Era una presenza che non colpiva come una saetta, che non si manifestava con il fragore di un temporale improvviso, ma si insinuava come una marea che monta inarrestabile, un’onda che non si abbatte con violenza ma che sussurra, che cresce poco a poco, trasformando tutto ciò che toccava in un deserto immobile, un paesaggio lunare senza più vita, un mondo svuotato del suo significato originario.

Ovunque volgevo lo sguardo, mi sembrava di vedere il segno di quella forza. Non era solo il corpo a sentirne il peso, ma anche lo spirito, che sembrava avvolto in un’ombra ineluttabile, una ragnatela che si stringeva lentamente intorno a ogni pensiero, a ogni speranza, a ogni slancio vitale. La sua fredda malia si insinuava ovunque, senza tregua, senza lasciare angoli intatti: nel sorriso di chi incontravo per strada, un sorriso che si spegneva prima di formarsi del tutto, come se qualcosa lo congelasse a metà, trasformandolo in un’ombra del suo potenziale; nei movimenti languidi e lenti dei passanti, i cui corpi sembravano trascinati da un peso invisibile, come statue animate da un’inquietudine segreta, un’inquietudine che sembrava provenire da un tempo remoto, da un luogo lontano e irraggiungibile. Anche gli animali, che di solito vivono al di fuori delle logiche umane, sembravano risentire di quell’influenza. I loro movimenti erano privi di spontaneità, i loro occhi riflettevano un’ombra distante, come se anche loro avessero intravisto quello sguardo pietrificante e non fossero più capaci di sfuggirgli.

Persino nelle risate, quelle risate che un tempo riecheggiavano piene di vita, vibranti e sincere, ora si percepiva un’eco lontana, come se fossero sospese nel vuoto, già pietrificate prima ancora di dissolversi nell’aria, come frammenti di un ricordo che non apparteneva più a nessuno, che non aveva più alcun legame con il presente. E non era solo il suono a mancare: anche gli occhi che avrebbero dovuto brillare di gioia si spegnevano in un’ombra inquietante, un riflesso opaco che tradiva la presa di quella forza oscura. Ovunque volgevo lo sguardo, sembrava che il mondo stesso fosse caduto sotto il giogo di quella regina pietrificante, e ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero fosse intriso di una strana lentezza, di una solenne gravità che annullava ogni desiderio di ribellione, che spegneva ogni scintilla di vitalità. Non c’era respiro, non c’era fuga possibile, perché la Medusa non era un nemico esterno: era dentro di noi, un’incarnazione del nostro stesso terrore, una manifestazione del vuoto che ci abitava e che ora reclamava tutto. Ogni volta che provavo a reagire, era come lottare contro un’ombra: i miei sforzi si dissolvevano, le mie parole non trovavano suono, e la mia volontà sembrava dissolversi, pezzo dopo pezzo, in una polvere che non lasciava traccia.

Oh, questo mondo che si estingueva sotto i miei occhi, come una visione trafitta dalla sua stessa malinconia, sembrava rivelare un paradosso: un'apocalisse silenziosa, senza clamore né violenza, dove ogni cosa svaniva con la compostezza di un attore che lascia il palco al termine di un’opera tragica. Era un lento disfarsi, quasi poetico nella sua tragedia, un disfacimento che non si accontentava di annientare le forme esterne, ma si insinuava nelle pieghe più profonde dell’esistenza. Le strade, gli edifici, persino il cielo sembravano partecipare a questo requiem collettivo, come se tutto il creato avesse trovato nella propria dissoluzione un’inquietante forma di armonia.

Le strade, un tempo vibranti di vita, di storie intrecciate in mille rivoli, si erano trasformate in mausolei di pietra e asfalto. Ogni vicolo, ogni angolo, ogni piazza sembrava congelato in un eterno presente, come se il tempo stesso avesse smesso di scorrere. Non c’erano più suoni, né risate, né urla, né passi frettolosi: solo un silenzio assordante che riempiva ogni spazio, come un fiume invisibile che aveva sommerso ogni cosa. Gli edifici, un tempo custodi di memorie e sogni, ora apparivano come carcasse vuote, gusci spogli di vita. Le finestre, anziché essere occhi spalancati sul mondo, erano ora orbite cieche, vuoti che inghiottivano lo sguardo senza restituirlo.

E poi c’erano i volti, o ciò che ne rimaneva. Quei volti che un tempo avevano narrato emozioni, desideri, paure, ora erano maschere di pietra, effigi senza vita. Ogni espressione sembrava congelata in un'immobilità innaturale, come se la vita stessa avesse abbandonato quei tratti, lasciando dietro di sé solo il ricordo di ciò che erano stati. Camminavo tra questi spettri, incapace di distogliere lo sguardo da quel corteo di ombre, e sentivo il gelo insinuarsi nelle ossa. Era un gelo che non veniva dal clima, ma dalla consapevolezza di trovarmi in un mondo che si era privato della propria anima.

Persino i colori, un tempo vibranti e pulsanti di energia, si erano arresi a quella lenta agonia. Il rosso, il blu, il verde – quei colori che un tempo avevano acceso il cuore e acceso l’immaginazione – ora erano ridotti a una gamma di grigi spenti, opachi, come se una mano invisibile avesse passato un velo di cenere su ogni superficie. Gli alberi, un tempo simboli di vita e di crescita, erano ora scheletri anneriti che si stagliavano contro un cielo plumbeo, allungando le loro braccia nude in una supplica silenziosa. Le foglie, prive di colore e di vita, si accumulavano ai margini delle strade come testimonianze di una bellezza perduta.

Il cielo stesso partecipava a questa desolazione. Non c’era sole né luna, né stelle a spezzare la monotonia di quella distesa uniforme e opprimente. Era un cielo che non prometteva nulla, né alba né tramonto, ma solo un eterno crepuscolo che pareva sospeso tra il giorno e la notte. E in quel crepuscolo, il tempo sembrava essersi fermato. Gli orologi, un tempo custodi del divenire, tacevano; i secondi non si sommavano in minuti, e i minuti non si trasformavano in ore. Era come se l’intero universo avesse deciso di abbandonare la sua danza perpetua, scegliendo invece un’immobilità definitiva.

Camminavo, o forse vagavo, in questo panorama di desolazione, con il cuore gravato da un’angoscia che non trovava parole. Ogni passo mi sembrava un atto di ribellione contro un mondo che mi chiedeva solo di arrendermi, di diventare anch’io un’ombra tra le ombre. Ma camminare era l’unico modo per resistere, per affermare che qualcosa di vivo esisteva ancora, anche se quella vita era fragile, precaria, sull’orlo del collasso. Guardavo ciò che mi circondava e cercavo di trovare una traccia di ciò che era stato, un segno che mi dicesse che quel mondo aveva avuto un senso, un significato.

Ma non trovavo nulla. Ogni cosa era svanita, come un sogno al risveglio, lasciando dietro di sé solo una sensazione di vuoto. Gli alberi, i muri, persino il vento sembravano essere stati inghiottiti da un silenzio che divorava tutto. Non c’era respiro, non c’era movimento. Era un silenzio assoluto, un vuoto che si insinuava nell’anima come un veleno lento, lasciando dietro di sé solo un senso di abbandono, di irrevocabile perdita. Eppure, in quel silenzio, mi sembrava di sentire un sussurro, una voce tenue e indistinta che sembrava provenire da un luogo lontano, come un’eco di qualcosa che non voleva arrendersi del tutto. Era una voce che diceva che, forse, non tutto era perduto. Ma era così flebile, così fragile, che non sapevo se fosse reale o solo un’illusione creata dalla mia mente per sopravvivere.

E che dire degli amanti, poveri fantasmi che si muovevano come ombre senza sostanza, intrappolati in un dramma antico che ormai li aveva consumati e ridotti a mere apparizioni senza vita, prigionieri di una trama che non aveva più nulla di reale, ma solo il peso di un'esistenza svuotata di ogni vero significato? Guardarli era come assistere a un bacio di statue, due forme di pietra che sembravano così vicine, così simili all'amore che avrebbero dovuto esprimere, eppure irrimediabilmente lontane dalla realtà di un sentimento che era ormai sfuggito loro per sempre. Le loro bocche, che avrebbero dovuto fondersi in un bacio appassionato, erano già fredde, assorte in un gelo che non permetteva più nemmeno l'idea di un'emozione, ma solo il ricordo di qualcosa che un tempo aveva bruciato dentro. I loro occhi, che una volta avevano potuto brillare di passione e di vita, erano ora spenti, vuoti, incapaci di riflettere la luce di un amore che non c'era più. Prima ancora che potessero sfiorarsi, già sapevano che quella connessione sarebbe stata solo una farsa, una posa indossata per rispecchiare il passato, ma priva di ogni speranza di essere vissuta nel presente. Eppure, nonostante l'immobilità che li aveva imprigionati in quella scena immutabile, nonostante i corpi che rimanevano sospesi tra il ricordo e l'illusione, nulla di quello che restava era capace di suscitare una vera emozione. La passione che avrebbero dovuto incarnare? Quella non era altro che una maschera di cera, levigata e brillante come un oggetto d'arte, perfetta nella sua illusoria bellezza, ma intrinsecamente fragile, come una sostanza che non avrebbe mai potuto resistere all'usura del tempo e del vero sentimento. La sua lucentezza era solo una facciata che celava la verità di un cuore ormai vuoto, di un amore che non sarebbe mai riuscito a sprigionare alcuna calda scintilla, ma che si era già trasformato in una forma fredda e immobile, incapace di far vibrare anche solo la minima nota di desiderio. Il loro abbraccio, che una volta avrebbe dovuto infiammarsi di ardore e trasporto, ora si chiudeva come una morsa, fredda e soffocante, come una gelata che penetra silenziosamente nella carne senza farsi notare, ma che lascia dietro di sé un'incessante sensazione di morte e distacco. Ogni volta che quei corpi si toccavano, ogni volta che si avvicinavano, era come se il vuoto tra di loro diventasse sempre più profondo, una distanza incolmabile che li separava non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, una separazione che non poteva essere colmata da nessun gesto, da nessuna parola. Il loro abbraccio non bruciava, non scaldava, ma lasciava solo il freddo, un freddo che sembrava impossibile da dissolvere, che si insediava nel cuore e nella mente, che non si esauriva mai, come una presenza oscura che non cede mai. E in quel gelo, non c'era spazio per nessuna emozione, per nessuna scintilla di vita. Solo il silenzio di una tomba dimenticata, dove non si sentiva nemmeno più il suono di un respiro, dove le voci di un amore che avrebbe potuto essere non si udivano mai, sepolte sotto il peso di una solitudine che non aveva più senso. Quella tomba era quella dell'anima, di un'anima che non aveva più alcuna speranza di trovare una via di uscita, di risorgere da un passato che ormai non apparteneva più a nessuno. In quel luogo vuoto, solo l’eco di un amore che non aveva mai visto la luce risuonava, eppure non bastava nemmeno a dare un senso a quella tristezza che aleggiava nell'aria, un'assenza di vita che diventava sempre più palpabile. La loro passione, ormai assente, non sarebbe mai tornata, e quei corpi, prigionieri di un'immagine immutabile, non avrebbero mai potuto essere altro che ciò che erano diventati: due statue, fredde, distaccate, incapaci di farsi realmente vivi. In quel silenzio, l'amore che avrebbero dovuto vivere non sarebbe mai stato vissuto, e il mondo attorno a loro sembrava essere anch'esso congelato, immobile, come se tutto fosse rimasto sospeso in un tempo che non avrebbe mai più avuto un futuro. Eppure, nonostante tutto, continuavano a restare lì, a sembrare vivi, ma non lo erano. Il loro amore non c'era più, e non c'era più niente che potesse farli tornare a vivere. Le loro ombre si stagliavano in una scena surreale, come apparizioni di un passato lontano che non apparteneva più a nessuno, eppure non potevano fare a meno di essere intrappolati in quella ripetizione infinita. I loro corpi, sebbene immobili e paralizzati dalla fatale incomunicabilità che li separava, non cessavano mai di essere la proiezione di un amore che non esisteva, una maschera di un desiderio che non avrebbe mai preso forma. Quella scena di congelato abbandono non conosceva la possibilità di cambiamento, non ammetteva il ritorno di quella fiamma che un tempo aveva scaldato il loro cuore. Ora, solo il freddo li avvolgeva, lo stesso freddo che si sentiva nella tristezza delle parole non dette, nelle promesse mai mantenute, nei sogni infranti sotto il peso della realtà. Non c'era più speranza per loro, non c'era più futuro in quelle braccia che non si sarebbero mai più strette con passione. La bellezza che avevano una volta condiviso non esisteva più se non come un ricordo sbiadito e lontano, un'eco che rimbalzava su pareti vuote. Ogni istante che passava era solo un altro pezzo di tempo che li separava sempre di più da ciò che avrebbero potuto essere, eppure, nonostante tutto, non potevano fare a meno di restare intrappolati in quella danza senza fine, come se la vita stessa avesse smesso di scorrere dentro di loro, come se tutto fosse ormai ridotto a una parodia di ciò che un tempo avevano desiderato. Così restavano, immobili e distanti, due corpi che avrebbero dovuto essere una cosa sola, ma che invece si erano trasformati in statue di cera, una volta tanto belle, ma ormai completamente disincarnate, incapaci di toccarsi veramente, incapaci di amarsi. E così sarebbe stato per sempre, in un eterno ritorno di solitudine e gelo, senza alcuna speranza di cambiamento, di riscatto, di vita. I loro corpi, privati di ogni sostanza vitale, si mostravano ora come fragile ombre di se stessi, come relitti di una nave che aveva già affondato da tempo, ma che continuava a galleggiare sull'acqua, senza meta, senza scopo, senza anima. Le mani, un tempo piene di promesse e di promesse mai mantenute, si tendevano senza riuscire a toccarsi, non perché non volessero, ma perché la barriera invisibile che li separava era ormai troppo forte, troppo consolidata, troppo definitiva. Ogni parola che avrebbero potuto scambiarsi rimaneva sospesa, schiacciata dal peso di ciò che non poteva più essere detto. I loro corpi non sapevano più come fare per cercarsi, per trovarsi, per fondersi di nuovo in quella connessione che sembrava ormai impossibile. Ogni gesto che compivano non faceva altro che sottolineare la loro distanza, la loro solitudine, la loro incapacità di essere qualcosa di più che ombre di ciò che una volta avevano rappresentato. Ora, solo la morte sembrava restare come unica compagna di quel cammino senza fine, eppure non morivano, non finivano mai, ma restavano lì, sospesi nel tempo, nei loro corpi rigidi e freddi, a guardarsi senza mai vedersi veramente. Il loro amore, così come le loro vite, era ormai un ricordo lontano, ma quel ricordo continuava a perseguitarli, come un peso insostenibile, un fardello che non riuscivano a deporre, un'ombra che non li abbandonava mai.

Eppure, nonostante tutto ciò che mi circondava, nonostante il peso schiacciante e opprimente di una realtà che mi avvolgeva come un manto gelido e implacabile, una realtà che sembrava impossibile da cambiare, come se fosse scolpita nella roccia stessa del nostro destino, nonostante l'inquietudine che si annidava dentro di me come un veleno sottile che intaccava ogni angolo della mia mente e del mio cuore, nonostante quella sensazione di impotenza che mi faceva sentire intrappolato in un labirinto senza via d'uscita, nel fondo più profondo del mio essere, là dove risiedono le emozioni più intime, quelle più segrete e più nascoste, cresceva come una fiamma indomabile, una sete inestinguibile, una sete che non riuscivo a placare, né con le parole che mi ripetevo, né con le azioni che intraprendevo, né con le risposte che cercavo nel mondo esterno, che sembravano sempre più lontane e vane. Era una sete che mi corrodeva dentro come un fuoco che non trovava mai pace, una sete che mi faceva sentire come se fossi incapace di saziare il mio animo, come se qualcosa di essenziale mi fosse stato negato e, ogni volta che cercavo di ignorarla o di distrarmi, quella sete diventava più forte e più intensa, come un urlo muto che mi lacerava da dentro. Non c'era nessun modo per calmare quella brama, nessuna medicina che potesse lenire quel dolore interiore che cresceva inesorabile. Era una sete che non riguardava solo il corpo, ma che abbracciava la mia anima intera, come un vuoto che non riusciva a essere colmato da nessuna delle cose terrene, da nessuna delle risposte che la vita mi offriva. Una sete che affondava le sue radici in un luogo profondo del mio essere, un luogo che forse avevo dimenticato di esplorare, che probabilmente avevo chiuso a chiave per paura di affrontare il suo contenuto, e che, ogni volta che mi tentavo di sfuggirla, tornava a tormentarmi con la sua presenza, insostenibile. E quella sete non era altro che il segno di un desiderio disperato, un desiderio di cambiamento, di liberazione, un desiderio di rivolta che mi dominava e che non riuscivo a controllare, una frenesia che mi spingeva a pensare, a sperare, a immaginare un altro mondo, un mondo che non fosse quello in cui mi sentivo intrappolato. Un mondo che non fosse governato dalle leggi di una realtà che mi faceva sentire come una marionetta nelle mani di un potere più grande e misterioso, come una pedina in un gioco che non avevo scelto. Ogni volta che chiudevo gli occhi, cercando rifugio nei sogni, mi ritrovavo a desiderare un mondo diverso, un mondo che offrisse una via d'uscita, un mondo che non fosse intriso di monotonia e di rassegnazione. Eppure, ogni volta che cercavo di immaginare questo nuovo mondo, mi rendevo conto che tutto sembrava troppo perfetto, troppo uguale, troppo statico. Ogni cosa sembrava imprigionata in un ordine immutabile, come un quadro dipinto su una tela che non avrebbe mai conosciuto il cambiamento, come un orologio che avanza senza mai fermarsi, ma che non porta mai nulla di nuovo, nulla che potesse spezzare la routine, nulla che potesse portare la vera novità. Ogni dettaglio sembrava rigido, immutabile, come se fossimo tutti condannati a vivere secondo uno schema che non potevamo modificare. E mi chiedevo, con sempre più disperazione, con un fremito che mi percorreva la schiena, se fosse davvero possibile spezzare l’incanto che ci avvolgeva. Se ci fosse davvero una possibilità di evadere da questa prigione mentale, da questa gabbia invisibile che ci rendeva schiavi delle nostre stesse paure e dei nostri stessi dubbi. Ogni giorno, la stessa domanda mi tormentava: era possibile sfidare il destino, infrangere l’ordine prestabilito? Esisteva ancora un piccolo spazio di libertà, anche solo un angolo di luce, dove un urlo, un grido, un gesto potessero scuotere le fondamenta di questo mondo inerte, di questo universo che sembrava morto, ma che in realtà era solo addormentato, privo di vita? E se, forse, quel gesto, anche il più insignificante, potesse essere il primo passo per infrangere la simmetria lugubre e spietata di questa esistenza, per iniziare a scuotere il silenzio e la rassegnazione che avevano imprigionato ogni essere umano in una gabbia senza sbarre? La simmetria che ci circondava, infatti, non era altro che una prigione invisibile, una forma di controllo perfetta che ci rendeva tutti uguali, ma che al contempo ci annullava come individui unici, ciascuno con i propri sogni, i propri desideri, la propria storia. Era un’armonia di indifferenza, una calma apparente che nascondeva sotto di sé il disfacimento, la decadenza, la morte silenziosa di ogni aspirazione, di ogni possibilità di cambiamento. Mi sentivo come un animale imprigionato, come un uccello senza ali, destinato a vivere per sempre nella gabbia della propria mediocrità, incapace di volare verso nuovi orizzonti, verso nuove opportunità. Ogni giorno che passava senza che facessi qualcosa, senza che agissi, sentivo che la mia prigione diventava sempre più piccola, che le sbarre invisibili mi si stringevano attorno. E, come un Prometeo che sfida l’Olimpo, come chiunque, pur di cambiare il corso delle cose, si oppone al volere degli dèi, sentivo che dovevo fare qualcosa, che non potevo più rimanere inerme, che non potevo più accettare il mio destino come fosse una condanna inevitabile, senza alcuna speranza di redenzione. La mia anima bruciava di una passione incandescente, come una fiamma che non riusciva a spegnersi, come un incendio che divampava in mezzo alla notte buia, divorando ogni cosa che trovava sul suo cammino. Sognavo con tutte le forze di riuscire a strappare le catene di pietra che ci avvolgevano, che ci imprigionavano in una condizione di inerzia e apatia, che ci rendevano prigionieri di una realtà che non volevamo, e di liberarmi finalmente dal peso che mi schiacciava. Sognavo di scagliare un incendio sul mondo, un incendio purificatore che bruciasse via la paura, l’indifferenza, l’ignoranza che ci tenevano legati. Un fuoco che distruggesse quella Medusa che ci pietrificava con il suo sguardo, che sciogliesse le catene invisibili della nostra prigionia. Ah, se solo ci fosse un fuoco che potesse ridarci la carne, il sangue, l’anima, che ci restituisse la nostra umanità, la nostra essenza più profonda. Se solo esistesse un fuoco che potesse risvegliare in noi il coraggio, la passione, il desiderio di vivere davvero, senza paura, senza catene. Se solo potessimo, per un istante, spezzare le leggi di questo mondo e riscoprire ciò che siamo veramente. Se solo potessimo sfidare il nostro destino, abbandonare questa gabbia e ritrovare la libertà che ci spetta, la libertà di essere, di esistere, di amare senza restrizioni, senza paure, senza i confini che ci sono stati imposti.