sabato 28 dicembre 2024

Ah, mangiare, quell'atto brutale e divino

Ah, mangiare, quell'atto brutale e divino, un patto segreto tra il corpo che chiede e l’anima che supplica, una tregua fragile nel campo di battaglia dell’esistenza. Ma non è fame di cibo, no, è una fame antica, che non sazia e non smette mai di crescere. È il vuoto che divora se stesso, il ventre della disperazione che ingoia bocconi di silenzio mascherati da pane. Il dolore, intanto, non si dissolve, non arretra, ma si rannicchia nell’ombra, osservando con occhi infossati il teatro di questa lotta silenziosa. Mangia pure, sussurra beffardo, riempi il tuo abisso, prova a domare questa bestia invisibile. E ogni boccone scivola giù come una promessa infranta, un frammento di vita che evapora prima di raggiungere il cuore.

E poi quel vestito, ah, quel vestito: comprato non con denaro, ma con speranza—una speranza infantile, quasi grottesca, di coprire il vuoto con stoffa, di mascherare la miseria interiore con un gioco di luci e pieghe. Ma la stoffa è fragile, un’illusione stinta, un sorriso cucito con fili di cotone logoro. Lo indossi, sì, ma non ti veste: ti avvolge come un’ombra, ti incornicia come un quadro sbagliato. Cade male, troppo stretto nei punti sbagliati, troppo largo dove dovrebbe abbracciare. È una pelle finta che non convince neanche il tuo riflesso nello specchio. Eppure, lo porti con la dignità di un prigioniero che indossa la sua uniforme. Perché? Perché altro non hai, se non il peso di questo travestimento.

E lì, tra i capelli, il pipistrello: non un semplice animale, ma il simbolo di un tormento profondo, una creatura di pura tenebra che si insinua nel pensiero, nelle radici del cranio, intrecciandosi come una maledizione. Lo senti, ma non lo vedi: le sue ali, nere come una notte senza stelle, battono appena, come sospiri d’angoscia. I suoi occhi, se ne ha, sono fatti di vuoto, specchi che riflettono paure non dette. E non vola via, non trova un’uscita, perché l’uscita non esiste: è prigioniero, come te, dentro quella gabbia di ossa e capelli. E così rimane, appeso al tuo respiro, come una domanda senza risposta.

Intorno, il mondo si dissolve in un nulla vibrante. Le pareti della stanza non sono pareti, ma sipari stanchi, velati di polvere e memorie spezzate. Il pavimento è vivo, scricchiola sotto il peso di fantasmi invisibili. C’è una sensazione di attesa, un silenzio che urla, un buio che respira. E nel cielo, sopra tutto, la luna. Ah, la luna, indifferente regina delle tragedie umane. Non brilla, non guarda, si nasconde dietro veli di nubi, come una spettatrice annoiata che abbandona il teatro prima della fine dell’atto.

E dentro di te, il fuoco. Non un fuoco che scalda o illumina, ma un incendio freddo, un bruciare di assenza, una fame che lacera. È una fame di senso, di forma, di qualcosa che non si sa nemmeno nominare. Ti brucia il petto, ti stringe la gola, ti riempie gli occhi di un vuoto che pesa come il mondo intero. Ma cosa desideri davvero? Essere riempito o svuotato? Vivere o smettere di vivere? Non lo sai, non lo saprai mai. Sai solo che continui a masticare, a mangiare, a nutrire un dolore che non vuole morire.