Gli dèi di una volta, decaduti dalla gloria sfolgorante che li elevava sopra le miserie umane, non sono morti. No, la morte è un lusso che non appartiene alle divinità. Essi giacciono, languidi e sprezzanti, nelle cripte dell’oblio, avvolti in un sonno inquieto, simile a quello di amanti maledetti, di cui il risveglio non è che un’agonia mascherata da rinascita. Hanno perduto l’aureola e le corone, e ciò che resta di loro è il riflesso oscuro di un tempo in cui il sangue degli uomini scorreva sugli altari come nettare divino.
Ora, spogli di ogni parvenza d’innocenza, questi dèi si confondono con le ombre che danzano sul nostro cuore quando il sole si eclissa dietro il velo della malinconia. Essi non parlano più con il fragore del fulmine, né con il mormorio delle onde, ma s’insinuano nei sospiri che sfuggono dalle labbra dischiuse nel sonno, nei brividi che corrono lungo la schiena senza ragione apparente. Sono i padroni delle nostre febbri segrete, di quei desideri che ci lacerano con la dolcezza di un veleno raffinato, e che sussurrano, con voce di seta, l’invito irresistibile a perdersi.
Chi li crede svaniti, li cerca invano nelle rovine dei templi o tra le pagine ingiallite dei poemi epici. Essi, però, non amano essere trovati, eppure si rivelano, con crudele eleganza, nei languori dell’anima che si dibatte tra il peccato e la virtù. Ogni volta che la bellezza ci ferisce con la lama invisibile del desiderio, ogni volta che la tristezza ci avvolge come un mantello di velluto, essi emergono dai sepolcri, come fiori neri sbocciati sotto la luna.
E se ascolti con attenzione, in quei momenti in cui la notte si fa più densa e il cuore batte con il ritmo sordo dell’angoscia, puoi quasi sentire il loro respiro. È il soffio caldo che accompagna i baci più amari, il fremito che ci sfiora quando, con lo sguardo fisso su un orizzonte irraggiungibile, proviamo quella strana gioia che nasce dalla disperazione. Gli dèi non si accontentano più di sedere sui troni celesti: essi si annidano dentro di noi, nutriti dalle nostre cadute, splendenti nel fango delle nostre passioni.
Oh, non inganniamoci! Loro combattono ancora, ma non brandiscono spade o fulmini: il loro campo di battaglia è la carne, il loro sangue scorre nelle nostre lacrime, e le loro ferite si aprono nei solchi delle nostre cicatrici invisibili. Essi si mescolano al nostro spirito con la stessa naturalezza con cui il veleno si dissolve nel vino, e ci avvelenano dolcemente, lasciandoci inebriati da un piacere che sa di sconfitta.
E noi, poveri mortali, non siamo che marionette in questa tragedia sottile. Camminiamo, danziamo, ridiamo, ma ogni passo che compiamo è guidato da mani invisibili, mani che tremano di voluttà e di rabbia antica. Gli dèi non ci hanno abbandonati: essi si sono fatti parte di noi, carne della nostra carne, fino a che il confine tra l’umano e il divino non si è dissolto, lasciando dietro di sé solo un eco languido e perverso, come il profumo di una rosa che appassisce sul letto di un morente.
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Gli dèi di una volta, privati del fasto che un tempo li rendeva inaccessibili agli uomini, vagano ora tra i rottami del nostro mondo come mendicanti con l’anima in rovina. Non più scolpiti nel marmo né invocati nelle preghiere, essi non sono scomparsi, ma si sono piegati alle leggi sottili della decadenza. Le loro voci, un tempo alte e tremende, si sono fatte flebili e suadenti, simili a melodie che si insinuano nella mente al calare della sera. Essi non si mostrano più nei presagi celesti o nelle tempeste che squarciano il cielo, ma nel languore che ci prende all’improvviso, quando il cuore si stanca delle sue illusioni e si abbandona alla dolce vertigine della malinconia.
Il tempo li ha spogliati delle forme con cui regnavano sul mondo, ma non della loro essenza. Essi vivono ora nella penombra delle nostre passioni inconfessate, nei gesti che facciamo senza saperne il motivo, nelle pause inesplicabili che interrompono i nostri sorrisi. Non hanno bisogno di apparire; bastano i nostri sogni, che loro percorrono come spettri avvolti nel velluto, seminando dubbi e carezze, facendosi sentire come un bacio proibito sulla pelle di chi dorme.
Gli dèi decaduti si dilettano a camminare sulle rovine delle nostre certezze. Si aggirano tra le macerie dei nostri ideali come fossero giardini in fiore, nutrendosi di ogni crepa che si apre nell’armatura fragile con cui ci difendiamo dal mondo. Essi affondano le loro radici nei nostri fallimenti, e lì germogliano, discreti e tenaci, fino a quando non ci ritroviamo avvolti nei loro rami, incapaci di distinguerci da loro.
Ogni volta che amiamo con disperazione, ogni volta che il piacere ci sfiora con dita fredde, essi si ridestano. Ogni lacrima versata invano è una libagione offerta ai loro spiriti avidi, che si piegano su di noi come vampiri, desiderosi di bere ogni goccia di ciò che ci rende fragili. Loro non cercano di distruggerci, no: si limitano a farci vivere con maggiore intensità, a ricordarci che la vita non è altro che un labirinto in cui ci perdiamo volontariamente, perché amiamo troppo il rischio, perché amiamo troppo il dolore che ci fa sentire vivi.
E così gli dèi camminano tra noi, invisibili e tangibili al tempo stesso. Sono i sussurri che ci invitano a restare quando dovremmo fuggire, sono i sorrisi che si disegnano sulle nostre labbra proprio quando la speranza si spegne. Loro non ci lasciano mai, perché sanno che senza di loro saremmo vuoti, e che nel fondo di ogni cuore c’è un piccolo altare su cui brucia ancora una fiamma, per quanto tenue, dedicata a quei sovrani dimenticati.