lunedì 30 dicembre 2024

Non è altro che silenzio e oblio.

Nel 1985, un anno che per me segnò una vera e propria frattura esistenziale, come un confine netto che separa ciò che è stato da ciò che sarà, ebbe inizio la mia avventura letteraria. A ripensarci oggi, con la distanza del tempo e l'accumulo di esperienze, quel momento appare come un punto di non ritorno, il preludio di un percorso che non avrei mai potuto abbandonare. Prima di allora, la tentazione di scrivere era stata un richiamo persistente, un sussurro che mi accompagnava nei giorni e nelle notti, insinuandosi nei miei pensieri con la forza di qualcosa di inevitabile, di già scritto nel destino. Tuttavia, scrivere non era ancora diventato un atto concreto, ma solo un desiderio sospeso, un'idea vaga che trovava spazio nella mia immaginazione, senza mai trasformarsi in parole vere e proprie. Quell’anno, però, qualcosa cambiò: sentii crescere dentro di me una nuova urgenza, un bisogno che andava oltre il semplice atto dello scrivere. Volevo essere letto, volevo che le mie parole trovassero un pubblico, che entrassero in relazione con altri occhi, altre menti, altre vite. Non si trattava solo di comunicare, ma di creare un legame, di lasciare un segno, per quanto piccolo e incerto, nel mondo degli altri.

Questo desiderio di essere letto, tuttavia, non fu accompagnato da alcun tipo di tregua o di conforto. Non ci furono intervalli in cui potessi fermarmi a riflettere, né medicamenti che potessero lenire il peso di questa necessità. Scrivere si configurava come un atto inevitabile, una strada che dovevo percorrere senza esitazioni, anche se sapevo bene che sarebbe stata irta di difficoltà. Non c’erano scorciatoie, né modi per aggirare l’asprezza di quel cammino. Lo sapevo, e accettavo questa consapevolezza con un misto di timore e determinazione. Già, il mio era un viaggio senza mappe, senza punti di riferimento certi, ma proprio per questo profondamente autentico.

Eppure, nonostante tutto, scrivere non era per me un gesto ossessivo o patologico. Non era un rifugio in cui nascondersi dalle sfide della realtà, né una mania da coltivare in segreto. Al contrario, era un atto lucido, consapevole, che affrontavo con una sorta di reverenza, ma anche con un’inquietudine costante. E qui entra in gioco il mio rapporto con le parole, che non sono mai state per me semplici strumenti o veicoli di significato. Le parole erano, e sono tuttora, materiali complessi, intricati, spesso impuri. Le percepivo come frammenti sporchi, residui di qualcosa di più grande, che dovevano essere ripuliti, analizzati, trasformati. Ogni parola portava con sé un peso, una storia, una stratificazione di significati che dovevo necessariamente affrontare per restituirle una nuova luce, una nuova vita. Questo processo, continuo e mai definitivo, era per me una sorta di lotta interiore, una tensione tra il bisogno di controllare il linguaggio e la consapevolezza che le parole, in fondo, sfuggono sempre a ogni tentativo di dominio.

In tutto ciò, le parole non erano soltanto espressioni del pensiero o strumenti di comunicazione, ma veri e propri residui di tutto ciò che avevo letto, vissuto e immaginato. Erano frammenti, detriti di un'esperienza più vasta, e forse anche frammenti della mia stessa anima. Sì, perché mi sono spesso chiesto se l’anima, ammesso che esista, non risieda proprio nelle parole, in quei segni apparentemente semplici che portano con sé l’intera complessità dell’essere umano. Se mai un’anima c’è stata, la immagino così: come una presenza sottile, nascosta tra le righe, nei margini di ciò che scriviamo e leggiamo, nei silenzi che circondano le parole stesse. Scrivere, allora, non era solo un atto creativo, ma un tentativo di scavare più a fondo, di andare oltre la superficie e trovare, tra le pieghe del linguaggio, qualcosa di vero, di autentico, che potesse parlare non solo di me, ma di un’esperienza universale.


Ecco. A volte mi torna l’interrogativo, insistente e quasi ossessivo, del perché di tutto quell’organizzare di allora. Perché ero così dedito, così ostinato nel tentare di mettere ordine in quel groviglio di emozioni e pensieri che agitavano le mie giornate? Forse perché c’era, in quel caos, una specie di urgenza, una necessità intrinseca di trovare una direzione, un senso, un punto fermo. Ma, come spesso accade, quel tentativo di organizzazione non produceva ordine vero e proprio, bensì un’ulteriore proliferazione di domande, di incertezze, di desideri frammentati. Era un congegno imperfetto, fatto di aspirazioni che non riuscivano mai a raggiungere una forma compiuta, un equilibrio stabile. Ogni mia parola, ogni mio pensiero, sembrava muoversi su un terreno instabile, come su una lastra di ghiaccio sottile che poteva rompersi da un momento all’altro.

E la scrittura – ah, la scrittura – era la manifestazione più evidente di questa instabilità. Mai qualcosa di definitivo, mai un punto d’arrivo, ma sempre un movimento, una tensione irrisolta. Scrivere non era altro che un gioco di equilibri precari tra due poli opposti: da un lato, il desiderio bruciante di farmi vedere, di esistere agli occhi degli altri, di gridare al Mondo ecco, ci sono, io sono qui!; dall’altro, una paura altrettanto intensa, quasi paralizzante, di essere davvero visto, di essere davvero compreso. La mia scrittura oscillava così, continuamente, tra questi estremi, rivelandosi e subito nascondendosi, come un’apparizione fugace che si dissolve prima ancora di essere afferrata. Ogni frase, ogni parola, sembrava essere al tempo stesso un’affermazione e una negazione, un gesto di apertura e uno di chiusura. E tutto questo era sorretto – se così si può dire – dal nulla. Dal vuoto stesso che è il linguaggio: una struttura fragile, illusoria, che però, in un modo quasi miracoloso, consente a chi scrive di andare avanti, di non fermarsi mai. È proprio quel nulla, quel vuoto, che rende possibile un movimento infinito, una ripetizione senza fine, un’esplorazione che non si esaurisce mai.

Riflettere su tutto questo significa, inevitabilmente, tornare con il pensiero a quegli anni. Non è una riflessione neutra, però; è intrisa di emozioni contrastanti, di nostalgia, di rimpianto, ma anche di una sorta di amara gratitudine. Quegli anni mi hanno formato, nel bene e nel male, e non posso che rendergli omaggio, anche se questo omaggio non è privo di ombre. Tra le ombre più scure c’è, senza dubbio, il ricordo di quella maledetta notte oscura, di quel momento che ancora oggi fatico a raccontare, a mettere nero su bianco. Una notte in cui tutto sembrò sgretolarsi, in cui persi tutto: non solo la sicurezza, non solo la fiducia, ma anche il respiro stesso, la capacità di parlare, di reagire. Non fui io a togliermi tutto questo, ma altri, con una facilità e una freddezza che ancora oggi mi sconvolgono. Era come se avessero saputo esattamente dove colpire, come spegnere la mia voce nel modo più silenzioso e definitivo possibile.

Eppure, nonostante tutto, sono qui. Sono ancora qui. Questa scrittura – anche se nessuno la ascolta, anche se nessuno sembra accorgersene – è il mio modo di rispondere, di riprendermi ciò che mi era stato strappato. È una resistenza silenziosa, ma non per questo meno tenace. È una denuncia che non si ferma, che non si lascia zittire, anche se per molti, soprattutto per quelli di quell’ambiente in cui tutto è iniziato, appare come un’inutile testardaggine. Mi vedono come un maledetto senza speranza, un Don Chisciotte del ricordo, qualcuno che non sa fare altro che rinfacciare il passato, riportarlo continuamente alla luce. Ma io so che non è così. Io so che questa insistenza non è un semplice capriccio, né una posa. È qualcosa di più profondo, qualcosa che riguarda la mia stessa identità.

Perché scrivere, per me, significa affermare chi ero, chi sono stato, e – nonostante tutto quello che è successo – chi continuo a essere. Significa resistere all’oblio, al silenzio, alla cancellazione. Significa dire, con ogni parola che riesco a mettere su carta: io sono qui, io sono ancora qui. Anche se nessuno ascolta, anche se nessuno risponde. Scrivere è la mia rivincita, il mio modo di restare in piedi, il mio modo di esistere. E continuerò a farlo, anche quando sembrerà inutile, anche quando sembrerà impossibile. Perché, alla fine, è l’unica cosa che so fare. L’unica cosa che mi tiene vivo.


In tutti gli anni di obbligato silenzio, e nell’attuale dimenticanza che mi avvolge come un sudario, s’ambienta questa mia furibonda visione onirica, una fantasia febbrile fatta di niente e nullità, un paesaggio desolato dove il tempo è una prigione e il presente un nemico implacabile. È uno spazio indefinito, senza coordinate né appigli, dove ogni tentativo di ricollegare i fili spezzati della mia esistenza si infrange contro un muro invisibile, ma impenetrabile. È come vivere in una notte eterna, dove la luce non arriva mai, dove ogni passo è un inciampo e ogni ricordo un’ombra che si allunga fino a inghiottirmi. Ecco, questa visione è come una lamentazione premente, un lamento che monta incessante, un canto doloroso che nasce dal profondo della mia anima, una passione scura, tormentata, che sembra sgorgare da un simbolico stupro di gruppo. È un atto di violenza non fisico ma spirituale, un annientamento autorale, una cancellazione di ciò che ero e di ciò che avrei potuto essere, un colpo che ancora mi ferisce, che mi lacera senza tregua, che continua ad annientare ogni valore, ogni idea di giustizia o dignità, se mai ce ne fossero stati, e che soprattutto ha distrutto la pudicizia iniziale del mio essere scrivente. Quella timida pudicizia, quella fragile innocenza che accompagnava i miei primi tentativi di esprimere il mondo interiore attraverso le parole, è stata calpestata, derisa, schiacciata sotto il peso di una crudeltà senza volto e senza nome.

La pochezza estrema di alcuni, di coloro che si sono fatti carnefici senza esitazione, che hanno scelto deliberatamente di ordinare l’oscenità senza remore del mio annientamento, rimane una ferita che brucia incessantemente. Mi colpisce ancora la loro meschinità corrosiva, quella capacità di infliggere dolore senza un minimo tentennamento, di perpetrare una violenza non fisica ma comunque devastante, una violenza che ha trovato in me il suo bersaglio ideale. Di fronte a tutto questo, la mia continua reticenza, per anni, al dire, al raccontare, al ritornare su ciò che è stato, al semplice esserci ancora, è stata una scelta obbligata, ma anche un tormento interiore, una lotta contro la mia stessa natura. Avrei voluto urlare, raccontare, denunciare, ma non ci sono riuscito. E così, questo silenzio si è trasformato in una gabbia, una prigione fatta di parole non dette, di emozioni represse, di un dolore che si accumulava senza mai trovare una via d’uscita. È un urlo disperato, ma muto, che non osa nominare direttamente chi, come, cosa, perché. Un urlo che si perde nel vuoto, in un deserto di indifferenza, dove nessuno chiede, nessuno vuole sapere, nessuno si ferma a guardare. Tutto questo accade come se la mia comunicazione, il mio tentativo di esprimermi, fosse percepito come il delirio di uno squilibrato, come il gesto folle di chi, al silenzio verbale imposto dagli altri e al vortice di pensamenti che lo travolge, oppone con testardaggine l’ultima sequela incalzante di pretese d’ascolto.

E queste pretese, queste richieste di attenzione, sono le uniche armi che mi sono rimaste. Sono una catena incessante di parole, un flusso continuo che non si interrompe, una sequela di frasi che si accavallano, si sovrappongono, si rincorrono, come un fiume in piena che cerca disperatamente di trovare uno sbocco, una via per sfuggire alla prigionia del silenzio. È una battaglia impari, una lotta contro un muro di indifferenza, contro un mondo che sembra sordo, cieco, insensibile al mio dolore. Ogni parola che scrivo, ogni frase che pronuncio, è un atto di resistenza, un modo per affermare la mia esistenza, per dire che sono qui, che non sono stato completamente annientato, anche se a volte mi sento come se lo fossi. Eppure, continuo a scrivere, a parlare, a gridare, nella speranza che, da qualche parte, qualcuno mi ascolti, che le mie parole trovino un’eco, che il mio dolore non sia stato completamente vano. Perché, alla fine, è solo attraverso le parole che posso sperare di riconquistare ciò che mi è stato tolto, di ricostruire ciò che è stato distrutto, di ridare un senso alla mia esistenza.


Al contrario, invece, la strepitosa e devastante descrizione degli atti avvenuta nei miei confronti, che potrebbe sembrare a un occhio estraneo un semplice resoconto, un’annotazione superficiale, è invece una perfetta didascalia, un inno disperato e al tempo stesso un epitafio, della mia stessa condizione attuale, una condizione che non lascia spazio né a redenzione né a consolazione, ma si dilata come un abisso senza fondo. È un’eco cupa che risuona incessantemente dentro di me, come se fossi imprigionato nel nientetutto, in quella zona grigia in cui la realtà si dissolve e diventa assenza, e l’assenza stessa si tramuta in una presenza opprimente, quasi tangibile, che mi soffoca e mi avvolge. È come se spingessi, con uno sforzo disperato, umori spermali che non trovano mai ritorno, che scivolano via senza lasciar traccia, umori che si spargono ovunque, impregnando ogni angolo della mia realtà, ma non generano vita, bensì solo vuoto, un vuoto che contamina tutto ciò che tocca. Anche le parole, che dovrebbero essere il mio rifugio, il mio strumento di lotta, si disfano sotto il peso del loro stesso significato, si sgretolano tra le dita come sabbia asciutta e sterile.

È come se potessi davvero andare via da qui, ma non nel senso fisico del termine; è un desiderio più profondo, più radicale, di fuggire da questo stato, da questo scrivere che non mi trattiene più, che si è trasformato in un flusso inarrestabile e incontrollato, un vomitare segni e suoni che scorrono ovunque senza argini, come un fiume in piena che non conosce né direzione né scopo, ma si disperde e si perde. Voglio gridarlo a chiunque, a chiunque sia disposto ad ascoltare, ma intanto mi trovo a rientrare, a ripiegarmi su me stesso, in questo dolore che non mi abbandona, lo ricalco, lo rinforzo con ogni parola che scrivo, eppure il mio desiderio più autentico sarebbe quello di fuggire, di allontanarmi da tutto questo, e soprattutto da voi, voi, maledetti che mi resistete, che erigete muri di indifferenza e disprezzo, che non mi ascoltate, che vi ostinate a non partecipare con un minimo di empatia o di piacere al mio gran lutto. Non scrivo più. Non lo farò più. Non ne vale la pena. Non importa. Non importa a me, non importa a voi, non importa a nessuno.

È un dialogo solitario, senza interlocutori, senza risposta, di un’anima confusa, smarrita, che cerca disperatamente di mettere a nudo il proprio cuore, ma si ritrova invece schiacciata, soffocata da un dialogo insano, un confronto impari e crudele tra ragione e passione, tra l’illusione e il tradimento. E questo tradimento, questo veleno che mi corrode dall’interno, si rinnova incessantemente, ancora e ancora, sì!, ancora una volta!, come un incubo ricorrente che non mi dà tregua. È un maledetto, infido, invisibile inganno, che mi perseguita e si concretizza ogni volta che mi voltate le spalle, ogni volta che chiudete con violenza e noncuranza le porte di una comunicazione che ormai sembra impossibile, ogni volta che mi lasciate solo nella porca notte dell’oblio, un oblio che cancella ogni tentativo, che azzera ogni sforzo di avvicinamento e trasforma ogni speranza in disperazione.

E le suppliche iniziali, le implorazioni, le preghiere accorate per essere ascoltato, per ricevere un cenno, una parola, un gesto, si contorcono su se stesse, si stravolgono, si deformano in una spirale di cristi urlati e bestemmie gridate contro di voi, contro quegli uomini che osano calpestare la mia esistenza, che osano ignorarmi, e che, un giorno, possano provare lo stesso inferno che mi ha ridotto in brandelli: la fine di tutto, l’annichilimento assoluto di ogni loro fatica, di ogni loro costruzione, come una torre che crolla su se stessa senza pietà. Siate maledetti!, sì!, che di voi si dica male per l’eternità! Questo è il mio augurio! Questo è il mio maledetto desiderio! Che la mia consunzione, il mio esaurimento come essere umano e come scrivente, si ritorca contro di voi come un boomerang avvolto in un manto di luci cupe e sanguigne, un urlo muto che vi perseguiti nei vostri peggiori incubi e che faccia scempio del vostro mondo, così come voi avete fatto del mio. Sia questo il mio testamento, sia questa la mia ultima parola, che non sarà dimenticata, ma risuonerà per sempre nelle vostre orecchie, come un’eco oscura che vi accompagnerà ovunque andiate, perché di voi si dica male, e il mio dolore non venga mai dimenticato.


Dalla disperazione più profonda, quella che non trova tregua, quella che non conosce riposo, vi consegno il vuoto, un abisso senza fondo, un'assenza di speranza tanto vasta da inghiottire qualsiasi barlume di luce. Non c'è conforto qui, né possibilità di redenzione, né promessa di un domani migliore. Vi lascio, come un dono avvelenato, un futuro fatto di incertezza, di implorazioni mute rivolte a un cielo sordo, un futuro in cui non ci sarà alcuna consolazione, solo la fatica sterile di cercare attenzione da parte di un mondo che si rifiuta di guardare. Un futuro che non è altro che una continua fuga da un presente che si dissolve come nebbia al sole, un presente che non riesco più ad afferrare, che si sgretola tra le dita lasciandomi con un senso di perdita che non può essere descritto. Vi affido, con rabbia, la mia estraneità a ogni parola che osate mettere sulla carta, a ogni frase che tentate di far vivere. Io non ci sono più in quelle parole, non mi appartengono, non mi riflettono, e non voglio più avere nulla a che fare con voi. Editori o scrittori, qualunque titolo vi siate arrogati, vi auguro l’unica cosa che resta in me: la maledizione eterna. Siate maledetti, per sempre, senza requie.

Eppure, non basta. Voglio di più. Vi pretendo qui, davanti a me, subito, ora, in questo momento che è già un’eco di follia. Voglio trascinarvi dentro la mia assenza, costringervi a partecipare a questo spettacolo disperato in cui non c’è spazio per l’ascolto, in cui tutto si perde nel ruggito del non-detto, del non-sentito. Voglio sentirvi tacere, chiudere quelle bocche che parlano troppo e non sanno dire nulla. Voglio vedere il silenzio calare come una mannaia, definitivo, irreversibile, spegnendo ogni vostro sussurro, ogni vostro tentativo di esprimere ciò che non vi appartiene. Voglio chiudere quelle bocche per sempre, tappandole con il peso della mia collera, del mio rifiuto, della mia insopportabile solitudine.

Venite qui, allora. Venite a condividere questo inferno in cui vivo e di cui non conosco più l’origine, questo luogo di desolazione dove il tempo non ha significato e dove io stesso non riesco più a ricordare chi sono. Venite a sedervi accanto a me, nell'ombra e nel nulla, e cercate di trovare un senso laddove non ce n’è. Venite a condividere il tormento di un’esistenza che non si riconosce più, che ha smarrito ogni traccia di sé, che si è spenta senza lasciare altro che un’eco vuota. Portatevi qui, nel fuoco e nella cenere, e ditemi se riuscite ancora a parlare, a scrivere, a creare, quando tutto ciò che vi circonda non è altro che silenzio e oblio.