Girato in soli 15 giorni, con un budget ridotto e una sceneggiatura essenziale, il film è una lezione di cinema e umanità. In meno di 90 minuti, Fassbinder smaschera la crudeltà di una società incapace di accogliere chi rompe gli schemi, svelando quanto le dinamiche di esclusione e discriminazione siano radicate nelle relazioni quotidiane.
"La paura mangia l’anima" è un melodramma, ma anche una tragedia sociale, una riflessione intima e un pugno nello stomaco. La sua forza sta nella capacità di raccontare il razzismo e la solitudine non attraverso grandi gesti, ma con piccole scene, sguardi, silenzi che dicono più di mille parole.
Negli anni ’70, la Germania Ovest stava vivendo un periodo di profonde trasformazioni. Il miracolo economico del dopoguerra aveva reso il paese una potenza industriale, ma questa crescita aveva un prezzo: la necessità di manodopera a basso costo. Fu così che nacque il programma dei Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti”, uomini e donne reclutati dall’estero per colmare il vuoto lasciato dalla popolazione tedesca.
Tra il 1955 e il 1973, milioni di lavoratori provenienti da Turchia, Grecia, Jugoslavia, Italia e Marocco giunsero in Germania, spinti dalla speranza di un futuro migliore. Ma la loro presenza non fu mai davvero accettata. I Gastarbeiter erano visti come utili, ma non integrabili. Erano necessari, ma considerati estranei. La promessa implicita era chiara: lavorate, ma non mettete radici.
Il risultato fu una società divisa, in cui gli immigrati vivevano ai margini, confinati in quartieri periferici, spesso privati di diritti fondamentali. La diffidenza e il pregiudizio si insinuavano ovunque, anche nelle relazioni più intime. È proprio in questo contesto che si sviluppa la vicenda di "La paura mangia l’anima", un racconto che riflette con precisione chirurgica le tensioni sociali della Germania dell’epoca.
La storia ruota attorno a Emmi Kurowski (Brigitte Mira), una donna tedesca di sessant’anni che vive sola, lavora come donna delle pulizie e conduce un’esistenza monotona. I figli, ormai adulti, sono distanti e la sua vita scorre in una grigia routine. Una sera, per ripararsi dalla pioggia, Emmi entra in un bar frequentato da lavoratori immigrati e conosce Ali (El Hedi ben Salem), un giovane marocchino che lavora come operaio.
Quello che nasce come un incontro casuale si trasforma in qualcosa di più. Emmi e Ali iniziano una relazione, trovando conforto l’uno nell’altra. Emmi, stanca della solitudine, vede in Ali una nuova possibilità di felicità; Ali, abituato a essere trattato come un estraneo, trova in Emmi un rifugio dalla freddezza della società tedesca.
La coppia decide di sposarsi, scatenando immediatamente l’ostilità di chi li circonda. I vicini di casa, i colleghi di Emmi e persino i suoi stessi figli reagiscono con disprezzo e incredulità. La relazione viene vista come innaturale, scandalosa, una minaccia alle convenzioni sociali. Emmi e Ali diventano bersagli di sguardi ostili, pettegolezzi velenosi e discriminazioni quotidiane.
Il film segue la coppia nel tentativo di resistere a questa pressione, ma mostra anche le crepe che iniziano a formarsi nella loro relazione. Ali, oppresso dal giudizio altrui, cerca rifugio in altre relazioni, mentre Emmi, nel tentativo di riconquistare la rispettabilità, finisce per distanziarsi da lui.
Il titolo del film non è casuale. "La paura mangia l’anima" è una frase che Ali pronuncia in modo goffo, in un tedesco imperfetto, ma che diventa una potente metafora. La paura dello sguardo altrui, la paura di essere giudicati, la paura di amare chi è diverso: tutto questo corrode l’anima dei protagonisti, portandoli a dubitare l’uno dell’altra.
Fassbinder ci mostra come il razzismo e il pregiudizio si manifestino non solo attraverso grandi gesti, ma nelle piccole cose: uno sguardo prolungato, una frase sussurrata, il silenzio improvviso quando Emmi entra in una stanza. La violenza è invisibile, ma costante. La società osserva, giudica, e lentamente distrugge ciò che non comprende.
Le inquadrature di Fassbinder enfatizzano questa dinamica. Spesso, Emmi e Ali sono mostrati separati dagli altri personaggi da porte, finestre o corridoi, come se vivessero in una bolla di isolamento. Gli ambienti sono freddi e claustrofobici, e i colori del film – dominati da tonalità marroni e giallastre – trasmettono una sensazione di decadenza e oppressione.
Ali non è un personaggio con una storia definita. Il suo nome stesso è generico, usato per riferirsi a qualsiasi immigrato arabo. Ali non ha un passato, non ha radici. È un simbolo, un'ombra che vaga in una società che lo rifiuta. Il suo tedesco è rudimentale, il suo corpo è il principale mezzo di comunicazione. Quando le parole non bastano, Ali cerca conforto nei gesti, nei sorrisi e nel contatto fisico.
Ma questo non lo salva. Anche nelle relazioni più intime, Ali è visto come un oggetto, un esotico diversivo. Emmi stessa, in alcuni momenti, lo tratta più come un trofeo che come un compagno. E quando Ali si ammala, vittima di un’ulcera simbolica – metafora del peso che la società gli ha imposto – Emmi lo accudisce con amore, ma il film non offre una vera redenzione.
Il film si chiude con Emmi che veglia su Ali in ospedale, ma non c’è un lieto fine. Fassbinder lascia lo spettatore con l’amara consapevolezza che il razzismo, la paura e l’incomprensione continueranno a esistere. Tuttavia, in questo mare di ostilità, l’amore tra Emmi e Ali rappresenta un atto di resistenza, una fragile speranza che, anche se minacciata, non si spegne.