Nel profondo delle botteghe medievali, immerse nell’odore pungente di resine e oli, nel fruscio di carte smerigliate e nel battito sordo dei martelli sulle cornici dorate, il blu non era semplicemente un colore tra gli altri: era una rivelazione, un soffio del divino che scendeva sulle superfici, fissandosi per sempre in un frammento di eternità. In un’epoca in cui il linguaggio visivo si fondeva con la simbologia sacra, ogni pennellata di blu evocava qualcosa di ultraterreno, un frammento di cielo sospeso sulla terra. Dipingere di blu significava sfidare i limiti del mondo fisico, portando lo spettatore a contemplare una realtà superiore, invisibile ma palpabile attraverso i riflessi della luce.
Questa magia del blu non era però immediata né scontata. Per secoli, l’arte della pittura ha intrecciato la ricerca del pigmento perfetto con rotte commerciali, tecniche esoteriche e segreti di bottega tramandati di generazione in generazione. Ogni artista sapeva che il blu non era solo una questione di estetica, ma di status, di significato e, non da ultimo, di denaro. Non tutti potevano permettersi il lusso di possedere il pigmento più prezioso, e non tutte le opere meritavano di essere rivestite del blu più puro.
Nel panorama dei pigmenti medievali, due tonalità di blu dominavano la scena: l’azzurrite e l’oltremare. L’azzurrite, di origine minerale, si estraeva da giacimenti europei, spesso proveniente dalle miniere tedesche o francesi, e veniva impiegata in larga scala nelle opere pittoriche per il suo costo relativamente contenuto. Tuttavia, la sua resa era delicata e capricciosa: un blu brillante e freddo appena steso, che con il tempo tendeva a virare verso il verde, sbiadendo in modo irregolare. Questo cambiamento era talvolta tollerato, altre volte temuto, a seconda del soggetto e del contesto dell’opera. Alcuni artisti cercavano di mitigare la trasformazione aggiungendo strati di vernice protettiva o mescolando l’azzurrite con altri pigmenti, ma il risultato era spesso imprevedibile.
L’azzurrite, per quanto ampiamente utilizzata, non poteva competere con la maestosità dell’oltremare, il vero sovrano tra i pigmenti blu. Questo pigmento straordinario non si ricavava da materiali ordinari, ma dai lapislazzuli, pietre semipreziose estratte principalmente in Afghanistan, nei remoti monti dell’Hindu Kush. Da quelle terre lontane, i lapislazzuli intraprendevano un lungo viaggio che li conduceva attraverso la Via della Seta, superando deserti, montagne e fiumi, fino a giungere nei porti del Mediterraneo, dove i mercanti veneziani e genovesi li importavano a caro prezzo. Già il solo fatto di possedere lapislazzuli era simbolo di ricchezza e prestigio, ma il vero valore si celava nella loro trasformazione in oltremare puro.
Il processo di estrazione del pigmento era lungo, complesso e quasi alchemico. I lapislazzuli venivano frantumati e macinati fino a ottenere una polvere fine, che veniva impastata con resine, cera d’api e oli, formando una massa densa e granulosa. Questo impasto veniva poi immerso in acqua e impastato ripetutamente. Attraverso lavaggi successivi, il pigmento puro si separava dai residui terrosi, emergendo in tutta la sua intensità: un blu profondo, saturo, capace di conservare la sua brillantezza per secoli. Ogni ciclo di lavaggio produceva pigmenti di qualità diversa: il primo estratto, chiamato “blu di prima”, era il più puro e prezioso; i lavaggi successivi producevano pigmenti via via meno intensi, utilizzati per aree secondarie dell’opera o per sottostrati.
L’estrazione dell’oltremare era talmente costosa e laboriosa che il suo valore superava quello dell’oro, tanto che i committenti delle opere d’arte specificavano nei contratti l’impiego del pigmento blu per determinati dettagli. In molti casi, il blu oltremare era riservato esclusivamente ai manti della Vergine Maria o del Cristo, simboli supremi di purezza e regalità celeste. Dipingere con l’oltremare non era soltanto una scelta estetica, ma una dichiarazione teologica e politica. Un’opera in cui il manto della Madonna brillava di oltremare segnalava la potenza del committente e la sua devozione profonda, quasi come se attraverso quel blu si potesse aprire un varco verso il paradiso.
Uno degli esempi più straordinari di questo uso si trova nella “Maestà” di Duccio di Buoninsegna, dove il manto del Cristo e della Vergine è dipinto con un oltremare così intenso da sembrare quasi tridimensionale. Il blu, bordato da raffinati ricami dorati, crea un effetto di luce e ombra che amplifica il senso di profondità e movimento della figura, trascinando l’osservatore in una contemplazione silenziosa e reverente. Similmente, Giotto nella Cappella degli Scrovegni utilizza l’oltremare per ricoprire interamente la volta della cappella, creando un cielo stellato che avvolge le scene sacre come una cupola celeste. L’effetto è di un’intensità mistica straordinaria: lo spazio architettonico si dissolve, trasformandosi in un’emanazione del divino.
Anche i fratelli Lorenzetti, nella Basilica Inferiore di Assisi, impiegano l’oltremare con una precisione quasi chirurgica. Pietro Lorenzetti, in particolare, riserva questo pigmento per i volti di Cristo e della Madonna, lasciando che le figure secondarie siano dipinte con azzurrite o terre meno costose. Questa scelta non è casuale, ma parte di una strategia visiva che organizza la composizione gerarchicamente: il blu profondo e vibrante agisce come una luce sacra che guida l’occhio dello spettatore verso il centro spirituale dell’opera.
Tuttavia, lavorare con l’oltremare non era privo di difficoltà. Il pigmento, benché stabile, era ostico da stendere in modo uniforme. Gli artisti dovevano applicarlo con pennellate leggere, procedendo per strati sottili, quasi trasparenti, lasciando asciugare ogni passaggio prima di procedere con il successivo. Troppa vernice avrebbe compromesso la brillantezza, mentre troppo poca lasciava emergere il fondo della tavola, rischiando di sminuire l’effetto complessivo.
Ogni pennellata era un atto di devozione e disciplina, una sfida continua per l’artista, consapevole che il blu oltremare, più di qualsiasi altro colore, incarnava la bellezza celeste, inalterabile e eterna. Così, attraverso secoli di arte sacra e profana, l’oltremare rimase il colore che meglio di ogni altro rappresentava il mistero del cielo, il riflesso dell’infinito, un dono prezioso che collegava la terra al divino.