Il Cielo di Chiodi e di Sogni
Fu questo il Cielo, Cristo Ognuno,
Dove ogni angelo, stanco e dolente,
Annunziava un cammino di spine,
Tra le stelle, ferite ardenti e sorde.
Lì, nel cosmo d’astri spezzati,
Si incidevano lamenti d’eterni,
E i chiodi, seminati su sentieri muti,
Brillavano come fiori di piombo.
Ma dal mio petto, squarcio d’amore,
Un arcobaleno, tricolore e feroce,
S’alzò come un urlo, ruggente e grave,
E prese i cieli, di polo in polo.
Oh mondo, lumaca-ridesta dal sonno,
Che strisciando circondi l’abisso,
Nel tuo guscio dimora il segreto
Di un’alba che mai cede al tramonto.
E i cieli, tesi come archi di guerra,
Accoglievano le urla dei vivi,
Un coro di spettri, d’inferni e di glorie,
Che osavano sfidare il firmamento.
Io, marinaio di oceani celesti,
Con mani spezzate al remo dei sogni,
Traccio un solco tra gli astri crudeli,
Cercando un porto che non si dissolve.
Ogni passo è un grido, una stella che cade,
Ogni respiro un chiodo conficcato,
Ma l’arco del mio petto si tende ancora,
E il mondo mi cinge, eppure si spezza.
Fu questo il Cielo, fu questo il canto,
Un abisso di gloria e pianto,
Dove il fuoco dell’uomo, eterna scintilla,
Sfida il buio che tutto cancella.
E sulla soglia, tra luce e tenebra,
Vedo il Giudice che mai parla,
Un volto di cera che tutto contempla,
Senza premiare, senza condannare.
Le stelle, aghi dell’eterno ricamo,
Trapassano la tela del mio spirito,
E il mio sangue si mischia ai colori del cielo,
Per dipingere un’alba che non verrà.
Che ne è del sogno, del grido divino?
Che ne è del fulgore, del verbo eterno?
Solo chiodi rimangono, solo spine intrecciate,
E un eco vuoto che il cuore trafigge.
Ma nel buio il respiro si alza, ribelle,
Un soffio che danza tra brandelli di stelle.
Ed ecco il mio arco: non piega, non cede,
Illumina il mondo, poi muore e risorge.
I cieli si squarciano, ventri feriti,
E partoriscono silenzi infiniti.
Dagli abissi, un grido ancora rinasce:
È l’uomo, eterno, che i confini spezza.
Sotto i chiodi, tra le spine,
Sorge un fiore di luce sottile,
Un canto remoto, un’ebbrezza fugace,
Che muta il dolore in un’eco vivace.
Fu questo il Cielo, crogiolo di fuoco,
Dove ogni passo si fa eterno gioco.
E mentre cado, avvolto dal manto,
Il mio arco di luce si espande nel canto.
Oh uomo, lumaca d’ambrosia e veleno,
Porti la notte nel cuore terreno.
Ma tra gli abissi di spine e d’affanni,
Sei tu che accendi il sole dei danni.
E il firmamento, immane cicatrice,
Si richiude in un baleno di pace.
Ogni ferita è un astro che brilla,
Ogni sofferenza un'eco che scintilla.
Io, ultimo viandante, mi accosto al confine,
Dove il tempo si spegne, dove il tutto si affina.
Né vita, né morte, né gloria, né cenere:
Solo un soffio eterno che tutto penetra e tiene.
E lì, tra i resti d’un cosmo infranto,
Scopro l’essenza, la chiave del canto:
Che l’uomo, eterno portatore di spine,
È l’unico dio dei suoi stessi confini.
Fu questo il Cielo, di chiodi e di sogni,
Un tempio d'amore, un regno di inganni.
Ma in ogni ferita, in ogni caduta,
Sorge un fuoco che mai si consuma.