Eravamo giovani, sì, ma non nella maniera convenzionale. Non era la giovinezza degli altri, non era quella di chi spera, di chi sogna, di chi si perde nella speranza di un futuro migliore. La nostra giovinezza era un abisso senza fine, una voragine profonda in cui ci gettavamo consapevoli che non sarebbe mai stato possibile risalire, eppure, in quella caduta senza respiro, non cercavamo una via d'uscita. Il nostro mondo non era il mondo di chi costruisce, di chi pianifica, di chi cerca una destinazione. Il nostro mondo era un microcosmo distorto, come il riflesso di una realtà che avevamo deciso di plasmare a nostro piacimento, con l’arroganza di chi non ha mai conosciuto la verità delle cose. Noi non avevamo bisogno di certezze, di spiegazioni. I nostri gesti erano il nostro unico credo, e tutto ciò che facevamo era espressione di un desiderio insaziabile di lasciarci trasportare da un fiume impetuoso, senza preoccuparci di dove ci avrebbe portato. Il presente era il nostro unico dominio, il nostro unico regno, e ogni momento sembrava eterno, immutabile, come se non ci fosse nulla di più grande di noi, nulla che potesse scuoterci o alterare il nostro cammino. La giovinezza che vivevamo non era il semplice atto di esistere, ma un’arte, la nostra arte di non essere, di non appartenere a nulla, di non essere soggetti a nessuna legge.
Era un gioco perpetuo, una danza che si muoveva senza regole, senza una coreografia definita, ma che tuttavia sembrava perfetta nella sua disarmante casualità. Eppure, nel profondo di quella confusione, c’era una sorta di bellezza crudele, una bellezza che non aveva nulla a che fare con la leggerezza che il mondo ci attribuiva, ma che affondava le sue radici in un dolore mai espresso, in una solitudine mai rivelata, in una ricerca di qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Non avevamo bisogno di parole, non avevamo bisogno di esprimere a voce alta il nostro malessere, perché questo malessere era una verità troppo intima per essere condivisa, troppo profonda per essere compresa. Eppure, dietro ogni gesto che facevamo, dietro ogni pennellata, ogni nota, c’era un urlo muto che ci spingeva a continuare, come se solo nell'atto di non fermarci avessimo trovato un modo per esistere. Ma eravamo anche consapevoli che questa esistenza era in bilico, fragile, come una tela che stava per strapparsi, come una nota stonata che stava per rompersi nel suo stesso eco.
La musica, ad esempio, non era mai stata solo una questione di suoni. Ogni nota che suonavo era una sfida, una dichiarazione di resistenza a un mondo che non riuscivamo a capire. Il sax, con il suo suono aspro e tormentato, diventava il mio grido di battaglia, il mio tentativo di trovare un senso in un caos che non volevo comprendere. Non era solo musica, era un atto di pura trasgressione, un'arte che non cercava di piacere, ma di esprimere il nostro essere più profondo, più oscuro. E lui, quel mio compagno di viaggi, quel pittore che non chiedeva altro che di dipingere senza vincoli, senza regole, era la mia ombra, il mio specchio deformante, la mia continua riflessione. Dipingevamo insieme, ma non c'era mai una vera comunicazione tra di noi. Ogni pennellata che lui dava sembrava un riflesso della mia solitudine, e ogni mio respiro mentre suonavo sembrava immergersi nelle sue tele. Eravamo due corpi in movimento, ma nessuno dei due riusciva veramente a toccare l’altro, come se vivessimo su piani differenti, pur condividendo lo stesso spazio, lo stesso tempo. C'era qualcosa di immenso e di doloroso in quella distanza, qualcosa che ci rendeva entrambi più vuoti, più persi, più desiderosi di colmare un abisso che non avremmo mai potuto colmare.
Vivere insieme, come facevamo, non era mai stato un atto di compassione, ma una necessità insopprimibile. La sua presenza non era mai stata una scelta, ma una costante, una continua ombra che mi seguiva, che mi definiva senza volerlo. Non c’era mai un momento in cui mi fosse venuto in mente di chiedergli spiegazioni o di cercare un senso nel nostro convivere. Era come se il tempo avesse smesso di esistere tra di noi, come se le ore si fossero confuse e amalgamate in un unico fiume che scorreva senza fine, senza né inizio né fine. Non c’era mai un motivo per cui lui fosse lì, eppure non c’era mai un motivo per cui non dovesse esserci. Non c’erano regole che definivano la nostra relazione, nessuna parola che potesse descriverla. Eppure, nel silenzio che ci circondava, c’era una comprensione profonda, una conoscenza che non veniva mai espressa, ma che sembrava contenere tutta la verità del nostro essere. La sua presenza era la mia solitudine, e la mia solitudine era la sua compagnia. Ogni movimento che facevamo era un atto di sottomissione al nostro stesso vuoto, una sorta di danza macabra che ci teneva legati, anche se nessuno dei due voleva ammetterlo.
Ogni notte, quando mi allontanavo da lui per esercitarmi al sax, c'era un'inquietudine che mi accompagnava. La musica mi liberava, ma allo stesso tempo mi imprigionava. Ogni suono che producevo sembrava un tentativo di sfuggire a qualcosa che non riuscivo a definire, come se la musica fosse una via di fuga che non portava mai a nessun luogo. La melodia che suonavo era dolorosa, tagliente, come un grido che cercava di esprimere una verità che non riusciva ad uscire. Non era una musica che parlava di speranza, di gioia, ma di una sofferenza che non aveva bisogno di parole. Ogni nota che lanciavo nell'aria sembrava morire prima di avere un senso, come se il suo significato fosse destinato a rimanere nascosto, perduto nel vento. Ma suonavo lo stesso, perché in quel suono trovavo un frammento di me stesso, un riflesso distorto della mia anima che gridava in silenzio, cercando di essere ascoltato.
E lui, in quella casa che condividevamo, dipingeva come un uomo perduto, come un angelo che non sapeva più perché stesse volando. Non dipingeva per il piacere di farlo, ma per il bisogno di estrarre dalla tela la sua stessa angoscia, il suo stesso desiderio di esistere, di non essere dimenticato. Ogni suo quadro era come uno specchio rotto, frammentato, dove ogni pezzo rifletteva una parte di lui che non riusciva a trovare la sua interezza. Eppure, quella disperazione, quella continua ricerca di qualcosa che non sarebbe mai stato trovato, dava vita alla sua arte. E noi, senza mai parlarne, senza mai discutere delle nostre paure, dei nostri sogni, continuavamo a vivere così, insieme e separati, come due anime che si sfiorano senza mai toccarsi veramente. Ogni giorno era una risata stanca, una risata che nascondeva il nostro vuoto, una risata che sapeva di morte, ma che nessuno di noi osava nominare. Eppure, in quel silenzio, in quella disperazione condivisa, c'era una verità che nessuno di noi aveva il coraggio di affrontare. Ma continuavamo, perché non sapevamo fare altro, perché l’alternativa sarebbe stata quella di cadere nell’oblio, di spegnere quella luce che, per quanto debole, continuava a brillare in noi.