Marsiglia. Oh, Marsiglia! Questa città furiosa, questo tumulto di pietra e pelle, un idolo crudele eretto tra il fragore delle onde e il respiro affannato del vento. È una condanna che cammina, un abisso che mi richiama, e io, con ogni passo esitante, mi perdo di più, sprofondo di più. Ogni vicolo è un labirinto che mi inghiotte, un vortice di muri scheggiati che raccontano storie che non comprendo, eppure mi graffiano. C’è una vita qui che pulsa senza tregua, una vita troppo piena, troppo densa, una corrente che mi strappa i vestiti, la pelle, e mi lascia nudo, esposto, vulnerabile. La città mi guarda e ride, una risata che sa di mare in tempesta, di tempesta in mare.
Il sole, quel tiranno implacabile, si abbatte sulle strade come una frusta. I selciati si arroventano sotto i piedi di chi non si ferma mai, di chi corre, ride, urla. Io, invece, mi trascino. Ogni passo è un atto di sfida, ogni respiro è un furto. Mi sento un intruso in questa macchina inarrestabile, un frammento di cenere sospeso in un vento che sa solo trascinare. Le voci che salgono dalla strada non si limitano a chiamare: feriscono, si abbattono su di me come grandine, mi scorticano. I venditori di pesce, con i loro richiami sgraziati, sembrano evocare spettri, creature marine che emergono per schernirmi. Ogni cigolio di un carretto, ogni risata sguaiata di un marinaio, è una frustata sonora che lascia segni invisibili ma profondi.
Gli odori di Marsiglia sono un assalto, un’ondata che mi sommerge e mi soffoca. Il pesce marcio si mescola all’odore dolciastro del vino versato, il salmastro si confonde con il sudore delle strade, il fumo dei forni avvolge tutto in una nube soffocante. Respiro, e ogni boccata d’aria è una lotta, un pugno invisibile che si abbatte sui miei polmoni già stanchi. Eppure, non posso smettere di respirare. Non posso smettere di assorbire questa città che mi riempie, mi travolge, mi consuma. Marsiglia entra in me, come un veleno, come un amante crudele che mi avvinghia e non mi lascia andare.
E il mare, oh, il mare! È lì, sempre presente, sempre minaccioso. Lo vedo brillare in lontananza, una distesa infinita che pare promettere libertà, ma è una promessa vuota, una menzogna. Il mare è come la città: mi chiama, mi respinge, mi deride. Le onde si infrangono contro le banchine con un furore che mi parla di vite spezzate, di sogni annegati. E io, io che sono già un naufrago senza mare, sento la loro voce come un richiamo che non posso seguire.
Marsiglia non è solo un luogo; è un essere vivente, una creatura che respira, che sanguina, che si contorce in un’estasi perpetua. È un dio capriccioso che si nutre della sua stessa furia, che danza sul bordo del caos. E io, piccolo, insignificante, mi aggiro tra le sue viscere come un’ombra, un’eco di qualcosa che non è mai stato. Ogni passo, ogni respiro, ogni sguardo è una battaglia persa. Eppure resto. Perché Marsiglia mi tiene qui, con i suoi artigli invisibili, con le sue promesse non dette, con i suoi insulti che mi penetrano più a fondo di qualsiasi carezza.
E così, continuo a esistere in questo incubo di luce e ombra, in questo teatro di rumori e silenzi, di odori e sussurri. Marsiglia mi circonda, mi soffoca, mi seduce, mi distrugge. È un amante che non posso lasciare, un carceriere che non posso sfidare. Ogni giorno che passa è un altro giorno perso, un altro giorno in cui questa città mi divora un po’ di più, fino a quando non rimarrà nulla di me, nulla di ciò che ero. E allora, forse, sarò davvero parte di Marsiglia. Forse allora sarò finalmente accettato, finalmente consumato.
La mia stanza è un mondo senza confini, un labirinto di grigio che si ripete e si moltiplica all’infinito, avvolgendo ogni cosa in un abbraccio spietato. È uno spazio sospeso, un frammento di tempo spezzato che non appartiene né al giorno né alla notte, un luogo dove ogni istante sembra uguale al precedente, dove ogni respiro pesa come una condanna. Il grigio si muove come una nebbia invisibile, s’insinua nei contorni degli oggetti, li sfuma, li cancella. Ogni cosa qui dentro sembra svuotata, privata del suo scopo, ridotta a un’ombra della sua stessa esistenza. Le pareti, alte e implacabili, si ergono come giganti muti, freddi e distanti, indifferenti al mio sguardo, alla mia presenza. Sono lisce, perfette nella loro nudità, prive di vita e di memoria, come se non avessero mai ospitato nulla, come se il mio stesso essere qui fosse una profanazione. Ogni tanto le fisso, sperando di trovare un segno, una crepa, qualcosa che mi racconti una storia, ma non c’è nulla. Solo il bianco, quel bianco accecante che non riflette la luce ma la ingoia, che non consola ma opprime, che non vive ma sopravvive.
Il letto al centro della stanza è un’isola di gelo in un oceano di desolazione. È stretto, così stretto che sembra voglia soffocarmi, ridurmi, schiacciarmi dentro i suoi confini. È freddo, come se fosse stato scavato dal ghiaccio, e ogni volta che mi sdraio, sento il suo gelo insinuarsi sotto la mia pelle, scivolare nelle ossa, radicarsi nel cuore. Le lenzuola, rigide e impregnate di un odore acre, mi avvolgono come un sudario, un tessuto che porta con sé storie di sofferenza e abbandono. L’odore del disinfettante è così intenso che sembra un’entità viva, un veleno che si infiltra nei polmoni, nel sangue, nella mente. Ogni respiro è una lotta, ogni boccata d’aria è contaminata da quel sapore metallico che mi parla di stanze fredde, di aghi, di bisturi, di vite spezzate. A volte mi sembra di sentirlo urlare, quel letto, come se volesse dirmi che anche lui è prigioniero, che anche lui è stanco di ospitare corpi senza speranza. Ma il suo grido si perde nel silenzio, un silenzio così denso da sembrare un muro, una barriera che separa questo luogo dal resto del mondo.
E sopra di me, come un’ombra onnipresente, il crocifisso pende leggermente storto. È lì, sospeso tra il soffitto e me, un simbolo che dovrebbe portare conforto ma che invece sembra emanare solo una fredda indifferenza. Gesù è scolpito in un legno scuro, il suo corpo inchiodato in una posa che parla di sofferenza eterna, il suo volto un enigma di dolore e distacco. I suoi occhi, scavati nel legno, mi osservano senza vedere, mi scrutano senza giudicare, mi seguono senza muoversi. Sono occhi vuoti, privi di anima, occhi che non raccontano nulla, che non chiedono nulla, che non promettono nulla. Eppure, sento il loro peso su di me, un peso che mi schiaccia, che mi costringe a confrontarmi con la mia piccolezza, con la mia solitudine, con la mia impotenza. Quel crocifisso non è solo un oggetto; è una presenza, un testimone muto che osserva tutto e tace, che conosce ogni cosa ma non parla. Mi chiedo se quel legno, un tempo vivo, senta ancora qualcosa. Se ricordi il profumo della foresta, il calore del sole, il tocco del vento. Ma ora è morto, come tutto qui dentro, e il suo silenzio è più eloquente di qualsiasi parola.
Ogni istante passato in questa stanza è un peso, un macigno che si accumula sul petto, che rende ogni respiro più difficile, ogni pensiero più opaco. La luce, se così si può chiamare, è fredda e distante, un’ombra di luce che non riscalda, che non illumina. Ogni oggetto sembra sospeso in una dimensione parallela, separato da me da una barriera invisibile. Provo a muovermi, a toccare, a sentire, ma tutto è distante, irraggiungibile. Anche il tempo qui dentro sembra essersi fermato, congelato in un eterno presente che non conosce né passato né futuro. Ogni secondo è uguale al precedente, ogni minuto si dissolve nel successivo senza lasciare traccia. È come se questo spazio fosse stato strappato dal flusso della vita, isolato, lasciato a marcire in un vuoto senza senso.
E io, intrappolato in questa prigione di nulla, non posso fare altro che aspettare. Aspettare cosa, non lo so. Forse una fine che non arriva mai. Forse una redenzione che non merito. Forse semplicemente il momento in cui il silenzio diventerà così assoluto da cancellarmi del tutto. Ma fino ad allora, resto qui, solo, a fissare quelle pareti bianche, a respirare quell’odore acre, a sentire il peso di quel crocifisso che pende sopra di me come un giudizio eterno. E ogni istante mi sembra un’eternità, un’eternità che non finisce mai.
Mia madre è seduta accanto a me, ma non è una presenza viva: è un monumento, un’ombra congelata in un istante eterno. La sua figura si staglia come un albero morto sul ciglio di un sentiero deserto, bruciato dal sole e dal tempo. Non si muove, o forse si muove appena, come se persino respirare fosse un atto di sfida contro il peso dell’esistenza. Sempre lei, la stessa di sempre, avvolta nel suo abito nero che la stringe come una sentenza definitiva, come un sudario prematuro. Quel vestito non è fatto di stoffa, ma di silenzi e di ombre, cucito con i fili invisibili del dolore. Ogni piega racconta una storia che non conosco, un mistero che si rifiuta di svelarsi, e il suo corpo, lì dentro, sembra scomparire, risucchiato da una forza oscura e inesorabile. È come se il suo essere fosse già altrove, in un luogo lontano da qui, un luogo che non posso raggiungere.
Non dice niente, mai, eppure ogni fibra del suo corpo grida una sofferenza che si riversa nell’aria come una nebbia spessa, avvolgendomi, soffocandomi. Il suo silenzio non è una semplice assenza di parole: è un abisso in cui si perdono tutti i suoni, un vortice che risucchia ogni tentativo di comunicare. Le sue mani, quelle mani pallide e nervose, non trovano pace. Sono come uccelli intrappolati, che sbattono le ali contro le sbarre di una gabbia invisibile. Torturano quel fazzoletto, ormai ridotto a un brandello informe, un piccolo cencio che porta con sé tutta la storia di quel tormento silenzioso. Le sue dita si muovono come se stessero cercando di tessere un incantesimo, o forse di districarne uno, ma ogni gesto sembra destinato a fallire, a dissolversi nel nulla. È una danza senza musica, un rituale che si ripete all’infinito, sempre uguale, sempre disperato.
Il suo volto è una maschera, ma non una maschera qualunque: è un’armatura, una corazza scolpita da mani invisibili che hanno lavorato senza pietà. La pietra di cui è fatta non è dura, non è invincibile, e io lo vedo, lo sento. Ci sono crepe, sottili come capelli, crepe che si insinuano nei suoi lineamenti come radici in una roccia. Sono crepe da cui trasuda qualcosa, una sostanza indefinibile, un’ombra di ciò che si nasconde dietro. Dietro quella maschera c’è un universo, un caos silenzioso di dolore e fragilità, un mare in tempesta che lei cerca disperatamente di domare. Ma io vedo oltre. Dietro la pietra, dietro il ghiaccio, c’è un cuore che batte, un cuore che sanguina, anche se lei non vuole che io lo sappia. Ogni crepa è una finestra su un paesaggio devastato, un paesaggio che lei tiene nascosto come un segreto troppo terribile da condividere.
E io sono lì, accanto a lei, ma mi sento come un intruso in una terra proibita. Non oso parlare, non oso muovermi, perché ogni parola, ogni gesto potrebbe essere una profanazione. Il nostro silenzio è come un ponte sospeso sull’infinito: fragile, precario, pronto a spezzarsi al minimo tremore. Eppure, in quel silenzio c’è una comunicazione più profonda di qualsiasi discorso, un dialogo che si svolge al di là delle parole. Le sue mani parlano, i suoi occhi parlano, persino il suo respiro, lento e affannoso, parla. Mi raccontano di un passato che non conosco, di una battaglia che lei combatte da sola, contro nemici che non posso vedere. È come se lei fosse un’isola, una terra desolata circondata da un oceano di disperazione, e io fossi un naufrago che osserva dalla riva, incapace di attraversare quelle acque.
Rimaniamo così, sospesi in un tempo che sembra non scorrere mai. Ogni secondo si allunga come un filo di ragnatela, fragile ma infinito. Intorno a noi, il mondo potrebbe anche crollare, e non ce ne accorgeremmo. Siamo soli, io e lei, prigionieri di questo momento, di questo spazio. Eppure, in questa immobilità, c’è una strana forma di movimento: un movimento interiore, segreto, che non si vede ma si sente, come il respiro della terra sotto la neve. E io resto lì, accanto a lei, guardando quelle crepe, ascoltando quel silenzio, aspettando un segno che forse non arriverà mai.
“Voglio tornare,” le dico.
Lei non mi guarda. “Dove vuoi tornare, Arthur?”
Dove? Dove scivola il filo invisibile che tiene insieme la mia essenza? Dove si infrange la linea che separa l’essere dall’oblio? Dove si perde la mia voce, il mio corpo, la mia mente, quando l’anima è dispersa in mille frammenti che non trovano mai pace, mai rifugio? Dove? La domanda mi è insopportabile, come un peso che mi schiaccia il petto, come il respiro che mi manca quando tutto sembra essere troppo, quando il mondo che ho conosciuto non è più il mio. Dove? Dove sono stato, dove sono ora, dove andrò? Ogni passo che faccio sembra portarmi più lontano da me stesso, in un cerchio che non smette di chiudersi su di me, in un’oscurità che non trova fine, come una notte che non si spezza mai. Non c’è più luce, non c’è più speranza, non c’è più risposta. Ogni angolo che esploro è un altro specchio che mi riflette come una deformazione, come una figura che non riconosco. Dove? La domanda è una fune che mi stringe il collo, che mi lascia senza respiro, senza speranza di scappare. Non c’è più alcuna certezza, non c’è più alcun punto di riferimento. Il mondo è una palude, un abisso che inghiotte ogni cosa, e io non faccio altro che affondare sempre più. Dove? Non posso più fare a meno di chiedermelo, perché ogni volta che mi guardo, ogni volta che mi fermo, vedo solo ombre e polvere. Dove? È un eco, un grido, una domanda senza risposta che risuona all’interno di un mondo che non mi riconosce più. Dove? Ogni battito del mio cuore è un passo verso l’ignoto, verso un cammino che non trovo mai.
Non voglio tornare a Charleville, non voglio che quella città mi riaccogli, che mi imprigioni di nuovo tra le sue strade grigie, tra i suoi edifici che mi guardano con occhi vuoti, senza più alcuna traccia di vita. Charleville è un luogo che mi ha visto nascere, ma che non mi ha mai accolto. È una città che mi ha dato solo l’illusione di appartenere a qualcosa, ma che non mi ha mai offerto nulla di concreto. Le sue strade sono solo un riflesso del mio cuore vuoto, i suoi muri sono il riflesso della mia solitudine. Charleville è un buco nero che inghiotte ogni cosa, che non lascia mai nulla di buono. Non voglio più camminare su quelle strade bagnate, non voglio più sentire l’odore della pioggia che impregna l’aria come un veleno che mi avvelena, che mi rende incapace di respirare. La città è una prigione che mi ha imprigionato senza neanche accorgermene, una città che mi ha rubato il futuro e mi ha imprigionato nel suo passato grigio e senza speranza. Non voglio tornare, non voglio essere di nuovo parte di quel meccanismo che mi ha ridotto a un’ombra di me stesso. Non voglio essere risucchiato di nuovo in quel vortice di solitudine, di grigiore, di stasi. Charleville è la mia gabbia, il mio inferno personale, un luogo che mi ha rubato la luce e che non ha mai avuto la capacità di restituirmela. Non voglio più rivederla, non voglio più sentirla chiamare, non voglio più essere attratto dal suo abbraccio mortale. Charleville non è casa, è solo un miraggio che svanisce ogni volta che ci metto piede.
E non voglio tornare nei versi, in quel mondo che una volta era la mia casa, il mio rifugio, ma che ora è solo una prigione che mi soffoca, che mi schiaccia. La poesia è diventata un’illusione, una fiamma che si è consumata troppo in fretta, che ha bruciato tutte le mie forze, tutte le mie speranze. Le parole che una volta mi alimentavano ora sono pietre che mi schiacciano il petto, che mi rendono incapace di respirare, di pensare. La poesia era il mio sogno, ma ora è un incubo che mi perseguita, che mi ruba il sonno, che mi costringe a guardare il mio riflesso distorto in un vetro rotto. Ogni verso che ho scritto è un passo verso la mia fine, un altro frammento che si stacca da me, che mi rende sempre più vuoto, sempre più incapace di sentire la bellezza, la verità. Non voglio più tornare nei versi, non voglio che le parole mi stringano di nuovo in una morsa che mi schiaccia, che mi toglie ogni respiro. La poesia è una fiamma che mi ha bruciato, che mi ha consumato, e ora non c’è più nulla che rimanga. Le parole non sono più mie, sono solo segni vuoti su una pagina che non mi appartiene. La poesia è andata, è scomparsa, come un sogno che svanisce al mattino. E io rimango solo con il silenzio, con il vuoto che essa ha lasciato dentro di me.
Non voglio nemmeno tornare in Africa, quella terra che una volta era il mio sogno, la mia speranza, il mio rifugio. Ma ora è diventata una terra che mi respinge, una terra che non mi riconosce più, che non ha più nulla da offrirmi. L’Africa, che una volta mi parlava con il suo respiro caldo, con la sua terra che mi accoglieva come una madre, ora è solo una distesa di sabbia che mi inghiotte, un deserto che mi imprigiona in un’eterna solitudine. Le stelle che una volta mi guardavano come occhi che brillano nel cielo ora sono solo luci lontane che non mi riconoscono più. Il vento che un tempo portava con sé l’odore della terra ora è diventato polvere, una polvere che mi soffoca, che mi impedisce di respirare. Non posso più sentire il canto degli uomini, quei canti che una volta mi parlavano di lotta, di speranza, di vita. Ora sono silenzio, solo silenzio, come se tutto fosse scomparso nel nulla. L’Africa che avevo conosciuto è finita, è diventata un’ombra di sé stessa, una terra che non riesce più a darmi nulla. Non voglio più tornare in Africa, non voglio più cercare qualcosa che non c’è più. La sabbia è diventata polvere, il vento è diventato morte, e l’Africa è diventata il mio cimitero. Non c’è più posto per me lì, non c’è più casa. Non voglio più sentire il suo richiamo, non voglio più inseguire un sogno che è ormai svanito. L’Africa non è più la mia terra.
“Non c’è nulla per te, Arthur,” dice mia madre, spezzando il silenzio.
“Non c’è nulla per nessuno,” rispondo.
Lei alza finalmente lo sguardo, e quel gesto, quel semplice movimento che una volta poteva sembrare una parentesi insignificante nel grande caos della nostra esistenza, ora assume un significato che nessuna parola potrà mai esprimere completamente. È come se, con quel movimento lento e deciso, stesse cercando di afferrare qualcosa di vitale che ha sempre sfuggito, qualcosa che potrebbe liberarla, ma che, in realtà, non può fare altro che imprigionarla ancora di più. I suoi occhi, come due specchi di un lago ghiacciato che si stendono senza fine sotto il cielo di un inverno eterno, sono freddi e distaccati, come se la vita stessa non fosse mai riuscita a intaccarli, a lasciarvi un segno di umanità. Quegli occhi, che sembrano guardare senza vedere, sono due lame che trapassano l'aria, giudicanti e implacabili. Con il loro sguardo, sembrano scrutare ogni angolo della mia esistenza, scoprire ogni frammento della mia anima, squarciando il velo sottile che con fatica ho costruito per nascondere la mia verità. Ma sotto quella corazza di freddezza, sotto quella maschera perfetta di indifferenza che si mostra al mondo, c'è qualcosa di molto più profondo, qualcosa che non può essere mai rivelato se non dal più intimo dei sospiri. Dietro quella superficie di ghiaccio, sotto l'apparente calma che sembra voler distruggere ogni emozione, c'è una ferita che non smette mai di sanguinare, un dolore che non ha mai trovato il modo di sfogarsi, di essere esorcizzato, di ricevere un po' di pace. È un dolore che non ha una forma, che non ha un colore, che non ha un nome, eppure esiste come una presenza invisibile che segna ogni suo passo, ogni suo respiro. È un dolore che nasce nell'infanzia, che si alimenta con le delusioni, che cresce e si espande come una nebbia impenetrabile che avvolge ogni angolo della sua mente, e che, con il passare degli anni, diventa un peso insostenibile, come una pietra che si accumula sui suoi piedi, rallentandola, abbattendola, soffocandola. È un dolore antico, che ha radici profonde nel terreno dell'esistenza, che si estende nel tempo, che si insinua tra i suoi pensieri come un veleno che lentamente la consuma. Non è mai stato un dolore che si è potuto urlare al mondo, che ha trovato una via d'uscita, una via per essere liberato. È un dolore che resta sospeso tra le sue labbra, che non può essere detto, che non può essere mostrato, che rimane chiuso, come un fiume sotterraneo che scorre senza mai emergere. È un dolore che, in un certo senso, l'ha modellata, l'ha resa ciò che è, l'ha fatta essere quella persona che ora guarda con occhi impassibili, che sembra non voler mai lasciarsi andare, mai farsi vedere nel suo stato di vulnerabilità. È una marea che non può mai infrangersi contro le rocce della realtà, che si solleva e si abbassa, sempre trattenuta, mai completa. È un mare che non trova mai la sua riva, che resta in attesa, come un fuoco che non riesce a bruciare abbastanza, come una fiamma che non ha mai trovato il suo legno da consumare. Le onde di quella marea sono il battito del suo cuore, ma quelle onde non hanno mai potuto toccare la riva, mai potuto sfociare in un urlo liberatorio. La marea, pur colmando ogni spazio, resta ferma, intrappolata, incapace di trovare il suo sbocco. Non lo ammetterà mai, lo sa, non dirà mai che dentro di lei c'è quella paura, quella paura che non si può ignorare, che non si può sopprimere, che è sempre lì, nascosta tra le pieghe del suo essere, pronta a riemergere ogni volta che meno se l'aspetta. Non lo ammetterà mai, ma quella paura è una compagna silenziosa che non la lascia mai, che si fa strada tra i suoi pensieri, che le sussurra all'orecchio anche nelle notti più tranquille. Paura di me, paura di quel che sono diventato, paura di un essere che è ormai in bilico tra la vita e la morte, tra il sogno e la realtà, che ha perso la propria essenza, che non sa più chi è, né cosa vuole, né cosa cercare. Paura di un corpo che una volta era giovane e forte, ma che ora si è piegato sotto il peso degli anni, sotto il peso delle esperienze, che ha visto la bellezza svanire e che ora è solo un guscio vuoto, una maschera che non nasconde più nulla. Paura di una mente che è stata logorata, che è stata scossa dalle tempeste della vita, che ha perso la sua capacità di ragionare, di prendere decisioni, di capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Paura di ciò che sono diventato, paura di un essere che è ormai senza identità, che non sa più che forma abbia, che ha dimenticato il proprio nome, che è diventato una presenza indistinta, un'ombra che vaga senza scopo. Paura di ciò che sono sempre stato, paura di quel vuoto che mi ha accompagnato sin dalla nascita, quel vuoto che ha riempito ogni angolo della mia anima, che ha modellato ogni mio gesto, ogni mia parola, ogni mia azione. Paura di un destino che non ha mai smesso di inseguirmi, che mi ha sempre condotto verso la stessa meta, verso la stessa solitudine, verso la stessa fine. Paura di ciò che il tempo ha fatto di me, paura di una vita che si è consumata senza lasciare traccia, senza che nulla di me restasse veramente. Paura di quella parte di me che non posso mai cambiare, quella parte che è indelebile, quella parte che è la mia condanna, che mi ha sempre accompagnato, che mi ha fatto diventare ciò che sono. Una paura che cresce ogni giorno di più, che diventa sempre più grande, che mi schiaccia, che mi fa sentire piccolo, insignificante, come un frammento di un sogno che non si è mai realizzato. Paura che mi assale, paura che mi inghiotte, paura che mi ha plasmato. E lei, con i suoi occhi gelidi, lo sa. E, senza parole, teme, teme ciò che non può comprendere, ciò che non vuole vedere, ciò che, in fondo, non può fare a meno di temere.
Mi lascio cadere sul cuscino, il mio corpo che affonda come una pietra nel mare scuro della notte. Ogni fibra del mio essere è un frammento di disperazione che cerca di allontanarsi dalla terra che mi tiene prigioniero, ma la prigione non è la stanza, no, è la mente, il corpo che non trova pace, le mani che si contorcono nel buio mentre la mente cerca di sfuggire, di volare via, di dissolversi nell’infinito. Ogni battito del mio cuore è un colpo che mi inchioda alla realtà, ma ogni battito è anche una via di fuga, un richiamo che mi porta lontano, lontano dal peso del respiro che mi costringe a vivere. Chiudo gli occhi, e in quel gesto mi perdo, mi dissolvo, e non c’è più luce, non c’è più ombra, non c’è più nulla se non il suono del mio respiro che diventa l’unica realtà, l’unica verità che mi appartiene. Ma questo respiro non è quello di un uomo che sta morendo, no, è quello di un uomo che sta rinascendo, che sta cercando una strada da percorrere, una via da seguire. Scivolo nella mente, mi immergo nelle pieghe più oscure della mia coscienza, dove non c’è spazio per i sogni, dove non c’è tempo per la speranza, dove tutto è confuso, tutto è contorto. Cerco di scappare, di fuggire da questa carne che non mi appartiene, da queste mani che mi stringono e mi trattengono, da questa vita che mi schiaccia come un peso insostenibile. E allora, non mi faccio più prigioniero di questa stanza, di questi muri che mi soffocano. No, la mente è libera, la mente non ha confini, non ha leggi, non ha limiti. La mente può volare, può saltare oltre ogni ostacolo, può correre oltre ogni distanza. Mi immagino, mi vedo altrove, altrove dove il mio spirito può respirare, dove il mio cuore può battere senza paura, senza restrizioni. Mi vedo a Parigi, nella città che non dorme mai, nel caos delle sue strade che sembrano vivere da sole, dove ogni angolo è una promessa di follia, ogni volto è una maschera che nasconde un dolore che non troverà mai fine. Mi vedo tra le braccia di Paul, tra le sue braccia che mi stringono come se volessero dirmi che tutto è già scritto, che tutto è già destinato a cadere, ma che in quel cadere c’è una bellezza che nessuno può spiegare. Mi vedo nei suoi baci, che sono taglienti come lame, che mi lacerano la pelle, che mi lasciano cicatrici che sono più vere di ogni altra cosa, che sono più vere di ogni altro desiderio, più vere di ogni altra speranza. Ma non è solo Parigi, no. La mia mente vuole di più, la mia mente vuole l’infinito, la vastità della terra che si estende oltre ogni confine, oltre ogni orizzonte. Mi vedo in Africa, sotto il cielo che non conosce pietà, sotto il sole che non perdona, che brucia la pelle e scotta l’anima, ma che mi fa sentire vivo, che mi fa sentire parte di un mondo che non ha nulla a che fare con la civiltà, con la morale, con la ragione. Mi vedo camminare sulla sabbia rovente, sotto il cielo che non ha inizio né fine, sotto il respiro caldo della terra che mi avvolge e mi consuma. La sabbia è la mia patria, è la mia madre, è la mia prigione e la mia libertà. Ogni passo che faccio è un atto di ribellione, un gesto di resistenza contro ogni legame, contro ogni costrizione. Mi vedo tra i mercanti d’avorio, con le loro mani nere come la notte, con i loro occhi pieni di segreti che non vogliono essere svelati, con i loro sorrisi che nascondono il veleno di un mondo che non si piega mai, che non conosce mai la pace. Cammino scalzo, con la sabbia che penetra sotto la pelle, con la sabbia che brucia i miei piedi e mi lascia cicatrici invisibili, ma che mi fa sentire parte di qualcosa di più grande, parte di un respiro che è più antico della storia, che è più grande di ogni altra cosa che io possa comprendere. Mi vedo giovane, il volto bruciato dal sole, gli occhi pieni di una furia che non conosce sosta, che non conosce fine. La mia rabbia è la mia forza, è la mia essenza, è ciò che mi tiene in piedi, ciò che mi fa camminare quando tutti gli altri si fermano. La mia furia è la mia libertà, è ciò che mi fa correre senza paura, senza indecisione. Non mi fermo mai, non mi piego mai. Mi vedo vivo, vivo come una fiamma che brucia senza mai spegnersi, vivo come un fuoco che non ha paura del vento, che non ha paura della pioggia, che non ha paura della morte. Sono vivo, e questa vita è la mia condanna e la mia salvezza, la mia catena e il mio volo. Vivo come una tempesta che non può essere fermata, come un mare che non ha sponde, come un cielo che non ha stelle. La mia mente è un fuoco che brucia dentro, è un vento che soffia senza sosta, è un grido che risuona nell’oscurità. Vivo come un sogno che non si fa mai realtà, come una realtà che non è mai sogno. Vivo come un viaggio senza fine, come un cammino che non ha meta, come una strada che si perde nell’infinito. La mia mente è la mia prigione, la mia prigione è la mia mente, e insieme corrono, volano, sprofondano nell’oscurità, nell’abisso che non finisce mai. Non sono più un uomo, non sono più un sogno. Sono il sogno che cammina, sono il vento che urla, sono la fiamma che non si spegne mai.
Ma tutto questo non è più reale, non è altro che un’ombra lontana che si allunga come un ricordo perduto, che si dissolve nella nebbia di un passato che non è mai stato, di un futuro che non verrà mai. È un sogno, un sogno che sfuma e si disperde nel vuoto, come il riflesso di una luce che non riesce più a raggiungere la terra, come l’eco di un suono che si perde nell’oceano di silenzio che mi circonda. La realtà, quella che una volta era tangibile, solida, definita, non è che una cortina di fumo, una illusione, un’idea che si frantuma sotto il peso dell’indifferenza del tempo. È una verità che non ha più forma, che non ha più sostanza, come l’inchiostro che lentamente si dissolve su un vecchio manoscritto, le parole che una volta danzavano sul foglio ora sono solo macchie invisibili, tracce di un pensiero che non esiste più, scomparse in un mare di polvere e cenere.
Ogni attimo che vive dentro di me, ogni pensiero che cerco di afferrare, si sbriciola, sfuma, diventa nulla. La realtà si spezza, si frantuma come una vetro lanciato contro un muro, lasciando solo frammenti che non si possono più ricomporre. È come se fossi intrappolato in un labirinto senza uscita, dove ogni via che intraprendo mi porta solo più in profondità, in un abisso che non ha fine. Non posso più distinguere dove inizia la mia carne e dove finisce il dolore, dove finisce la mia mente e dove comincia la confusione. Tutto si mescola, si confonde, e nulla ha più senso. La mia esistenza è come un miraggio che svanisce non appena lo cerco di toccare, un’illusione che non posso più vedere, ma solo sentire nel buio che mi circonda. È un desiderio che non si realizza mai, una speranza che non si è mai accesa, e ora non è che una memoria che svanisce lentamente.
La realtà non è più un concetto che mi appartiene, è qualcosa che non posso più comprendere, che non posso più definire. Non è più quella forma solida che un tempo avevo imparato a riconoscere, ma è un’ombra fluttuante, un’essenza che si contorce e si trasforma ad ogni mio respiro. Ora la realtà è un vortice che mi inghiotte, mi trascina in un’esistenza che non posso più governare, un fiume in piena che scorre inarrestabile, senza sponde, senza direzione. La stanza in cui mi trovo, che una volta era la mia casa, il mio rifugio, è diventata una prigione, un luogo di solitudine che mi stringe come una morsa. Ogni oggetto che vedo, ogni angolo che osservo, ora mi appare estraneo, lontano, come se fossi un estraneo in un mondo che non riconosco più, in un corpo che non è più il mio. Ogni superficie, ogni dettaglio, è come un sogno che si sgretola sotto il mio sguardo, e la sensazione di essere perso, di non appartenere più a nulla, diventa sempre più forte, come un peso che mi schiaccia, che mi fa sprofondare più in profondità nel nulla.
Il mio corpo è ormai solo una carcassa vuota, un involucro che non può più rispondere ai comandi della mente. È una forma mutilata, una ombra di ciò che ero, e il dolore che mi pervade, che mi esplode in ogni fibra, in ogni muscolo, è l’unico segno di una vita che non esiste più. Ma questo dolore, che un tempo sarebbe stato sopportabile, ora è diventato il mio unico compagno, il mio unico legame con il mondo, con la realtà che non riesco più a toccare. Dove una volta c’era una gamba, ora c’è il nulla, un vuoto profondo che pulsa in modo incessante, come una ferita che non smette mai di sanguinare, come una lacrima che non si ferma mai. Eppure, nonostante questa mutilazione, nonostante questa lacerazione profonda che ha strappato una parte di me, continuo ad essere qui, a respirare, a sentire, ma non posso più riconoscere questo corpo che mi tradisce, che mi inganna, che mi ferisce. È come se fossi prigioniero di un guscio che non posso più abitare, di un corpo che è diventato estraneo, un corpo che non mi appartiene.
Il dolore che scorre dove una volta c’era la mia gamba è l’unica cosa che resta di me, l’unico ricordo che posso ancora possedere, ma è un ricordo che non è mio, è un’impronta che si espande, che cresce dentro di me, che non posso più fermare. È come una fiamma che brucia, ma che non mi consuma mai del tutto, che continua a divampare in un fuoco che non si spegne mai. E questo dolore, che non ha pietà, che non ha limiti, è la mia unica realtà, l’unica cosa che posso sentire, che posso toccare. Eppure, anche mentre mi distrugge, mi rende consapevole di ciò che sono diventato, di ciò che sono ora: un’ombra di ciò che ero, un frammento di uomo che si aggrappa alla vita, ma che sa che sta per dissolversi. Il mio corpo, ormai, è diventato solo un monumento al dolore, una scultura che racconta una storia che nessuno vuole ascoltare, ma che tutti vedono. La carne che una volta era viva, che un tempo era forza, ora è solo un ricordo sbiadito, un eco di qualcosa che non esiste più.
Ogni respiro che prendo è un atto di resistenza, ma è anche un atto di resa. Resisto, perché non posso fare altro, ma so che ogni respiro mi avvicina sempre di più alla fine, che ogni attimo che passa mi separa sempre più da quella vita che avevo, da quella realtà che credevo di conoscere. La mia carne si sgretola, il mio cuore non batte più come un tempo, ma ancora il sangue scorre, ancora la vita non mi ha abbandonato completamente, e in questo spazio di non-vita, in questo limbo tra il tutto e il niente, io continuo ad essere. Ma cosa significa essere, quando non si ha più forma, quando non si ha più una consistenza, quando la realtà stessa si dissolve sotto i miei occhi? La sofferenza che mi consuma è l’unica cosa che mi tiene ancorato a questa terra, ma è anche la stessa sofferenza che mi distrugge lentamente, che mi sgretola pezzo dopo pezzo. La mia carne è diventata sabbia, il mio corpo un paesaggio che non può più essere abitato, ma che si ostina a esistere, come se fosse incapace di rendersi conto che la sua fine è inevitabile. La realtà è solo un sogno che svanisce, e io, con essa, continuo a dissolvermi nell’ombra del nulla.
“Portami a vedere il mare,” sussurro.
Mia madre mi guarda, e il suo sguardo, implacabile, si fissa in me come se fosse un abisso che non ha né fondo né senso, come se volesse attraversarmi e scoprire ogni singolo segreto che vivo senza poterlo condividere, senza poterlo mostrare. I suoi occhi sono come fiumi che scorrono senza sosta, senza che nessuna quiete possa mai fermare l’onda che travolge, senza che il tempo possa mai placare il loro turbinio. Non c’è nulla di umano in quello sguardo, nulla di caldo, di accogliente. Mi sento un peso sotto quella profondità, un’ombra smarrita che si perde tra le pieghe di un volto che non riconosco, che non mi appartiene, eppure è l’unico che conosco. I suoi occhi sono una finestra che si apre su mondi che non ho il coraggio di guardare, su paesaggi devastati che non sono mai stati pensati per me. E per un attimo, un attimo che sembra durare un’eternità, vedo qualcosa che si staglia al di là del suo sguardo, un lampo che mi acceca, una scintilla che mi brucia dentro. Un’emozione. Forse compassione, ma non la compassione che mi ero sempre immaginato, quella che viene dal cuore, quella che ti prende per mano e ti solleva dalla polvere, quella che ti consola anche quando non hai più speranza. No, questa è una compassione che non sa di dolcezza, che non sa di calore. È come il ghiaccio che taglia l’anima, è come una tempesta che scuote le fondamenta stesse della mia esistenza. È una compassione che non vuole farti sentire al sicuro, che ti vuole scuotere, che vuole che tu veda la realtà per quello che è, cruda e senza pietà, e ti faccia confrontare con la verità che non hai mai voluto accettare. È una compassione che non conosce conforto, ma solo una silenziosa, terribile rivelazione di ciò che siamo e di ciò che non saremo mai.
E poi, sì, forse è amore, ma non l’amore che sogno nei miei sogni di adolescente, quello che si intreccia con il cuore, che ti fa volare e ti fa sentire che il mondo intero è tuo, che ti avvolge in un abbraccio che ti riscalda quando tutto intorno è buio. Questo non è amore. Non è quello che conosco. È un amore che non ha volto, che non ha forma. Un amore che non ti accarezza, ma ti strappa via da te stesso, che ti rinnega in ogni istante, che ti costringe a guardare dentro di te e a scoprire ciò che non avresti mai voluto vedere. È un amore che si muove come una fiamma che brucia senza consumarsi, che ti scuote, che ti frantuma, che ti scava il cuore come una scure e lascia dietro di sé solo un dolore che non ha fine. È un amore senza tenerezza, senza dolcezza, senza la grazia che ci aspettiamo. È un amore che non è destinato a nutrire, ma a distruggere, a piegare, a modellare. È come una tempesta che arriva all’improvviso, che ti colpisce con tutta la sua forza, senza preavviso, senza un secondo di tregua. È un amore che ti fa sentire vivo, ma non in senso umano, che ti fa sperimentare la bellezza e la crudeltà di un’esistenza che non ha mai trovato un posto dove fermarsi, dove riposare. E in quel momento, quando i suoi occhi penetrano nei miei, vedo questo amore, vedo l’assenza di tutto ciò che avrei voluto, di tutto ciò che avrei sperato. Non c’è più nulla da salvare, non c’è più nulla da ricercare, solo un vuoto che mi inghiotte, una disperazione che mi trascina nell’abisso. Non c’è conforto in quegli occhi. C’è solo una distanza infinita, un’insondabile differenza che ci separa. Non c’è nessun ponte, nessuna via di ritorno, solo una realtà che si fa sempre più cruenta, che mi costringe a rimanere fermo, a non osare più nulla, a non sperare più nulla.
“Non puoi, Arthur,” dice, e quelle parole sono come il clangore di una campana che rimbomba nell’eternità, che mi annienta con la loro certezza, con la loro spietata precisione. Quelle parole non sono un giudizio, non sono una semplice risposta. Sono un colpo, un fulmine che mi trafigge il cuore e mi lascia senza fiato. Mi avvolgono come una ragnatela che non posso spezzare, che mi imprigiona, che mi lega a una verità che non voglio accettare. In quel momento, tutto il mio essere vacilla, tutto ciò che credevo di sapere su di me e su di lei crolla come un castello di carte, come un miraggio che scompare non appena cerchi di afferrarlo. Non c’è scampo, non c’è via di fuga. La sua voce è un ordine che non può essere ignorato, un comando che scivola nelle mie ossa e mi spegne, che mi paralizza senza che io possa fare nulla per reagire. È come se le sue parole avessero la forza di un uragano, la potenza di un’onda che inghiotte tutto, che spazza via ogni possibilità, ogni speranza. Eppure, nonostante tutto, una parte di me continua a lottare, a cercare un segno, una scappatoia. Ma quelle parole, che sembrano venire da un luogo lontano, che suonano come un richiamo a un destino che non posso sfuggire, non mi permettono di liberarmi. Sono prigioniero di un’idea, prigioniero di una visione che non posso sfidare. Non posso, Arthur. E in quel momento, capisco tutto ciò che non ho mai voluto capire. La verità mi colpisce come una frusta, come un dolore che non si può raccontare, che si può solo vivere, un dolore che non trova parola, ma solo silenzio.
Chiudo gli occhi di nuovo, questa volta senza speranza, senza nemmeno l’illusione di poter trovare qualcosa che mi risvegli dal mio abisso interiore. È un gesto che ormai non ha più senso, ma che compio, come una sorta di invocazione a un mondo che non ha mai risposto, come un ultimo tentativo di fermare il tumulto che mi attraversa. Il mondo esterno svanisce in un istante, come se non fosse mai esistito, come se la realtà fosse solo una costruzione effimera, una rifrazione della luce che non è mai riuscita a prendere forma. Tutto ciò che rimane è il mare, quel mare che ho sempre cercato, quel mare che mi ha sempre chiamato con la sua voce sorda, con la sua furia primitiva, eppure il suo richiamo non è mai stato chiaro, mai pieno. Non importa, ormai, non importa più. Non ci sono più risposte, non c'è più nulla da chiedere o da scoprire. Il mare è tutto quello che conta, è la mia unica verità, l'unica certezza in questo abisso che non ha nome, in questa solitudine che non lascia spazio alla speranza. Posso immaginarlo, il mare, come un grande corpo di acque oscure che si agitano sotto il peso di una forza invisibile, di una gravità che non conosco, che non riesco a comprendere. Lo vedo con la mente, non con gli occhi, perché i miei occhi non possono sopportare la sua immensità, non possono reggere la sua potenza travolgente. Le onde nere, queste enormi mani di un’entità senza volto, si sollevano dall’oscurità, come ifranti uragani di un altro mondo, di una dimensione in cui non c’è spazio per la pietà, per il perdono, dove ogni battito d’ala, ogni respiro, è solo una battaglia per la sopravvivenza, una lotta per resistere alla furia cieca della natura. Le onde si infrangono sugli scogli, come macigni che frantumano l'anima, come colpi inferti senza malizia ma con una violenza che non si ferma mai. Non c’è pausa, non c’è tregua, solo la continua risonanza di un suono che rimbalza nel cuore, nel sangue, nel corpo, come il battito di un cuore lontano, che non riesce mai a calmarsi, che non trova mai pace. Il vento soffia, lacerante e penetrante, come una lama che taglia l’aria, come una forza invisibile che s’infiltra nelle crepe più nascoste della carne, che scivola nelle ossa e ne fa polvere, che divora la speranza di chi pensa di poter sfuggire. Porta con sé l’odore di sale, che è come una promessa antica, una promessa di salvezza che non è mai arrivata, che non arriverà mai, ma che si fa strada, sottile, tra le narici, invadendo i pensieri con la sua fragranza amara. Un odore che sa di morte, che sa di un mondo che è stato, che è scomparso, che ha lasciato dietro di sé solo una traccia di umidità e desolazione, un ricordo che non può essere toccato. L’odore di alghe, una sensazione che si infila nelle pieghe più profonde del mio essere, che si fa spazio tra le cellule e vi resta, come una memoria di qualcosa che è andato perduto, che non esiste più, ma che continua a rodermi, a spingermi verso il nulla. Il mare è sempre lì, presente, eppure inesistente. È la promessa di qualcosa che non si può avere, di una libertà che non esiste, di un potere che non si lascia mai afferrare, che non si fa mai possedere. Il mare è eterno, indifferente, come una forza che non può essere piegata, come un'entità che non ha bisogno di alcuna giustificazione. La sua esistenza non dipende da me, non dipende da chi lo guarda, da chi lo sogna, da chi lo invoca. È lì, e basta. Un mare che non ha volto, che non ha storia, che non ha passato, ma che è sempre stato, sempre sarà, e non ha bisogno di noi. Le sue acque non conoscono la pietà, non conoscono la sofferenza, non conoscono la gioia. Sono acque che scorrono senza mai fermarsi, che avanzano come una marea che non può essere arrestata, che non può essere fermata da nulla. Il mare è il vuoto che tutto inghiotte, la distruzione che tutto consuma, la fine che non ha fine. Eppure, non posso fare a meno di cercarlo, non posso fare a meno di desiderarlo, perché in quella sua indifferenza, in quella sua maestosa solitudine, c'è qualcosa che mi appartiene, qualcosa che non posso ignorare. Il mare è il mio specchio, è il mio riflesso in un mondo che non ha né futuro né passato, è il mio ricordo di un tempo che non è mai stato, eppure è sempre lì, a portata di mano, ma irraggiungibile. Il mare non ha pietà, non ha compassione, non ha scopo. È la verità che non si rivela, il dolore che non si spezza, la morte che non si lascia vedere. Il mare è la fine che non finisce mai, è l’inizio che non ha mai avuto un inizio.
Penso alla poesia, quella poesia che per me un tempo era l’incarnazione della tempesta, la rottura di tutte le leggi e tutte le forme, una ribellione senza fine contro tutto ciò che era troppo fermo, troppo immobile. La poesia era la mia carne e il mio sangue, la mia stessa esistenza, una risata folle che risuonava nei miei giorni e nelle mie notti, come una sinfonia dissonante che intonava un inno alla libertà, alla follia, all'incertezza. Era la mia ossessione, la mia lussuria, il mio desiderio impetuoso, il mio tormento che mi divorava da dentro, che mi faceva crollare, mi spezzava e poi mi ricostruiva, mi faceva nascere ancora e ancora, come un fuoco che si spegne solo per risorgere più forte. Ogni parola che scrivevo era un passo nel caos, un passo che mi portava sempre più lontano dalla realtà che gli altri vedevano, ma che io ormai non riconoscevo più. Ogni verso che prendeva forma sul foglio era un colpo di vento, una scossa che sradicava gli alberi della ragione, che spazzava via la polvere delle convenzioni, che spalancava le porte di mondi invisibili, mondi che solo io, in quel preciso istante, riuscivo a vedere. Eppure, anche se tutto era chiaro e sconvolgente, non riuscivo mai a possedere totalmente quella bellezza, quel furore, quella libertà che mi avevano invaso. La poesia mi sfuggiva sempre, come l'acqua tra le dita, ma in quella continua fuga io mi sentivo vivo, in un modo che nessuno avrebbe potuto capire. La mia poesia era la mia fuga, il mio allontanamento da tutto e da tutti, il mio viaggio senza fine nelle pieghe più oscure e scintillanti dell'animo umano.
La mia poesia era la mia prigione, ma al contempo il mio volo, la mia liberazione, un paradosso che mi teneva prigioniero mentre mi sollevava dal fango. Ogni verso era un grido, ogni verso un passo verso l’infinito, come se potessi davvero intraprendere una via che mi avrebbe portato a scoprire i segreti più nascosti dell’universo, come se ogni sillaba potesse frantumare la realtà e restituirmi un mondo nuovo, costruito su sogni e su fuoco. Quando scrivevo, mi sentivo invincibile, come un dio che cammina tra gli uomini, come se il mio corpo fosse solo una maschera, e io, dietro quella maschera, non fossi più uomo, ma una forza indomabile, capace di dominare l’oscurità e la luce con la stessa intensità. La poesia era la mia arma, la mia scudo e la mia ferita, e nel mentre che creavo, io stesso mi distruggevo, mi perdevo in quell'infinità che io stesso evocavo. Sentivo di poter racchiudere il mondo intero in un singolo verso, una sola frase che avrebbe potuto contenere il tempo, lo spazio, l’amore e la morte. La poesia era il mio punto di partenza e la mia fine, la mia creazione e la mia distruzione, l'unica cosa che riuscivo a tenere tra le mani mentre tutto intorno a me crollava. Il mondo, quel mondo che vedevo, era fluido e vibrante, in continua mutazione, e io ero lì, nel mezzo, a scrivere, come un sacerdote del caos, come un architetto dell’assurdo. Ogni parola che scrivevo era una scossa nel terreno, una scossa che mi trascinava sempre più giù, più lontano da me stesso, ma ogni volta che toccavo il fondo, mi rendevo conto che avevo appena iniziato il mio viaggio. La poesia mi trasformava, mi mutava, mi faceva diventare qualcosa di più grande di me, eppure in quel divenire, in quel continuo cambiamento, io stesso perdevo la mia identità, la mia sostanza.
E ora? Ora tutto è cambiato, tutto è svanito come il fumo al vento. Non sono più il giovane folle che camminava sulle strade scivolose del sogno e della realtà, non sono più il visionario che scriveva nel cuore della notte, sperando che le sue parole fossero abbastanza forti da distruggere il mondo e crearne uno nuovo. Ora, ora sono solo un uomo svuotato, una carapace vuota che non ha più nulla da offrire, un contenitore che non sa più che cosa contenere. L’inchiostro che una volta scivolava facilmente sulla pagina ora è solo una macchia che non riesce a prendere forma, che non riesce a trasmettere più niente, che non può più neanche sperare di raccontare una verità, di gridare una verità. Non sento più quella forza che una volta mi percorreva, quella forza che rendeva la poesia una ragione di vita, un’urgenza di essere e di non essere. Non c'è più nulla di tutto ciò. Ogni parola che scrivo adesso è come una riga disegnata nel vento, come una crepa che si allarga senza che io possa fermarla. Sono un uomo vuoto, una scultura di carne senza anima, una figura che si dissolve nel nulla. Le parole, una volta il mio rifugio, ora sono catene che mi imprigionano, catene che mi legano a un passato che non riesco più a rivivere. Ogni passo che faccio mi sembra inutile, ogni respiro che prendo mi sembra vuoto, come se stessi vivendo in un mondo che non mi appartiene, come se il mio corpo fosse stato preso in prestito da qualcun altro. Sono diventato come una foglia secca che vola nell'aria, trascinata dal vento senza direzione, senza scopo. Quello che una volta era il mio fuoco, la mia scintilla di vita, ora è solo un cenere che non scotta più, che non brucia più, che non infiamma più nulla. Sono un contenitore vuoto, un’anima senza scopo, un corpo senza desiderio, e la poesia, quella poesia che mi aveva fatto volare, ora è solo un ricordo che si dissolve nell’aria, un ricordo che si perde nel buio, senza lasciare traccia. E io, io sono rimasto qui, a guardare quel vuoto che mi circonda, incapace di trovare una via d'uscita, incapace di credere ancora in quel fuoco che mi aveva consumato, incapace di credere ancora in me stesso.
La notte si abbatte su di me con la forza di un mare in tempesta, ma questo mare è di ombre, di silenzi, di vuoti insondabili che sembrano inghiottire ogni cosa. È come se ogni angolo dell'universo si fosse contratto in un unico punto, un piccolo e opprimente nodo che stringe la mia anima e soffoca la mia carne. Il buio non è più solo un'assenza di luce, ma un corpo che si espande, una sostanza densa che permea ogni cellula, ogni pensiero, ogni respiro. Ogni movimento è lento, faticoso, come se il tempo stesso fosse diventato denso, una melassa che inghiotte ogni frazione di vita, rallentando ogni respiro e facendo il silenzio insostenibile. Le ombre si allungano, si avvinghiano, si fanno carne e si fanno sangue, ogni angolo della stanza è un abisso che si riflette in mille altri abissi, e io, solo io, sono perduto al centro di questa distesa infinita, alla ricerca di qualcosa che non può essere trovato.
Il respiro si fa pesante, carico di un’aria che non ha più forma, di una materia che non esiste, eppure è presente, come un peso che grava sul petto, come una morsa invisibile che stringe più forte ad ogni attimo che passa. Ogni battito del cuore è un suono lontano, un’eco che mi giunge da un mondo che non esiste più, o forse non è mai esistito. Sento i miei polmoni dilatarsi, ma ogni tentativo di inalare aria è vano, l’aria stessa si fa evaporare, sfuggente, irraggiungibile, come se il mio corpo fosse dimenticato dall’universo, abbandonato nella sua solitudine più assoluta. E io, io mi muovo come un automa, come un sogno che non sa di essere tale, afferrato da un desiderio senza scopo, una fame che non trova sazietà.
La mente si perde, vagabonda in uno spazio senza forma, alla ricerca di un appiglio, un ricordo, un volto, un segno che possa tirarla fuori dal nulla in cui è immersa. Ma la ricerca è vana. Non ci sono immagini, non ci sono volti, non ci sono parole che possano sciogliere il nodo che stringe la mente in una morsa invisibile. Ogni pensiero che emerge è effimero, fuggevole come il fumo, si dissolve nell’aria prima ancora che possa farsi luce. C’è solo il buio, il vuoto, un’oscurità che non è solo l’assenza di luce, ma l’assenza di tutto ciò che è concreto, di tutto ciò che può essere afferrato. Mi sento come un'ombra che attraversa un altro abisso, senza meta, senza scopo, senza direzione. Ogni tentativo di ancorarsi alla realtà è inutile, come cercare di afferrare l'acqua tra le dita. C'è solo la vertigine di un esistere che non si comprende, un moto continuo senza fine, un ciclo di speranze infrante e desideri mancati, un vortice che non dà tregua.
Il silenzio intorno a me cresce, come una forza che diventa tangibile, come una presenza fisica che invade ogni spazio. Non è solo il silenzio del mondo esterno, ma quello che si insinua dentro di me, inondando la mia mente, colando nei recessi più profondi del mio essere. È come se non ci fosse più alcuna separazione tra l’interno e l’esterno, tra ciò che è dentro la mia testa e ciò che esiste al di fuori di essa. Ogni pensiero che cerco di afferrare scivola via come sabbia, senza lasciare traccia, e la mente diventa una distesa di cenere, grigia, infinita, in cui ogni speranza è spenta prima ancora di accendersi. Mi sento come se stessi affondando, lentamente, nel cuore di un deserto che non ha fine, dove ogni passo mi porta sempre più lontano dalla luce, sempre più immerso nell’oscurità che mi avvolge.
Eppure, in mezzo a questa solitudine, a questa sofferenza, c’è qualcosa che mi spinge a continuare a cercare, anche se so che non troverò nulla. È la ricerca stessa che diventa il mio scopo, il desiderio di aggrapparmi a qualcosa, a un ricordo, a un volto, a una parola che mi possa dare sollievo, anche se so che ogni traccia di ciò che cerco è perduta da tempo. Ogni ricordo che emerge è frammentato, evanescente, come polvere che si dissolve nell’aria, eppure la mia mente si aggrappa a questi frammenti come un naufrago si aggrappa alla roccia, sperando che qualcosa, da qualche parte, possa restituirmi un senso, una speranza, anche se so che non è più possibile. L'infinito silenzio mi avvolge e mi inghiotte, lasciandomi solo con la mia ricerca senza fine, con il mio desiderio senza risposta.
Forse mia madre ha ragione, e io lo so, anche se non voglio accettarlo. Non c’è davvero nulla per me, né qui, in questo luogo che ormai mi sembra sempre più estraneo, dove cerco invano un senso in ogni angolo, in ogni sguardo che incrocio, in ogni parola che pronuncio. Mi sembra che nulla abbia valore, come se tutto fosse stato già deciso, come se la vita stessa mi avesse escluso, lasciandomi in un angolo sperduto di un mondo che non mi appartiene. Né altrove, dove ho provato a cercare rifugio, a immaginare che ci fosse qualcosa di meglio, qualcosa che potesse finalmente darmi la pace, ma anche lì, la realtà si è rivelata crudele e inesorabile, facendomi capire che non c’è nessun posto dove potrei essere veramente al sicuro, nessun luogo che mi possa accogliere come vorrei. Forse non c’è mai stato nulla, forse la mia intera esistenza è stata solo una serie di illusioni che mi hanno tenuto in piedi per un po', come un sogno che svanisce appena si prova a toccarlo, lasciandomi a mani vuote. Forse la verità è che la mia ricerca è stata una corsa senza meta, una fuga da qualcosa che non posso nemmeno identificare, una disperata speranza che, alla fine, non ha mai trovato risposta. Forse ho sempre cercato in posti sbagliati, forse non c’è mai stato nulla da cercare, solo un vuoto che mi ha seguito senza mai lasciare tregua, un vuoto che mi ha avvolto e mi ha inghiottito senza che me ne accorgessi.
Quando il sonno mi avvolge, non c’è paura, non c’è dolore. Solo una strana dolcezza che mi sussurra parole dimenticate, evocazioni di un mondo antico, che sprofonda nel mistero. È come se mi stessi dissolvendo, come se mi stessi perdendo tra mille frammenti di me stesso, come se il mio corpo fosse sabbia, il mio respiro vento, la mia anima mare. Le onde mi accarezzano, mi sollevano, mi trascinano in una danza senza fine, senza più forma. Il mondo si dissolve in un abbraccio cosmico, una carezza infinita. Il mare, vasto e misterioso, non ha inizio né fine, è un respiro che vibra nell’infinito. E io sono parte di quella vastità, del silenzio che riempie l’universo. Il vento canta, una melodia lontana, l’eco di un sogno che non finisce mai. La terra scompare, il cielo mi abbraccia, e io, dissolto in esso, non sono più che una presenza evanescente.
In questo spazio tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte, esisto senza peso, senza tempo. I confini del mio corpo si frantumano, come sabbia spazzata via da un vento che non si ferma mai. Non c'è paura di svanire, non c'è angoscia nell'abbandonarsi all'infinito. C'è solo la quiete di una dissoluzione dolce, che mi avvolge e mi trasforma in uno con l'universo. Sono il battito del mare, l'ondeggiare di una foglia nel vento, il movimento delle stelle nell'oscurità. Non c'è più un io separato da ciò che mi circonda. La mia essenza si mescola con quella della terra, dell'acqua, dell'aria. Ogni particella di me si fonde con l'infinito, si perde nel cosmo, dove non esistono confini né definizioni, solo pure sensazioni, impulsi che scorrono senza fine, senza direzione.
Il respiro del mondo è il mio respiro. Le onde che lambiscono la riva sono le mie mani che cercano, che si allungano nel vuoto, che si tuffano nel mistero. L'orizzonte non è più una linea distante, è un abbraccio che mi avvolge e mi inghiotte, un invito a perdere la forma, a lasciarmi andare nell’invisibile. La mia carne diventa trasparente, leggera come la polvere, come la luce che filtra tra le fronde degli alberi. Non sono più una singola entità, ma un insieme di sensazioni, una vibrazione che attraversa tutto. Il suono del vento diventa la mia voce, il rumore delle onde è il battito del mio cuore. Ogni cosa che mi circonda è viva, respira con me, mi accoglie, mi dissolve.
La realtà si trasforma in un sogno senza inizio né fine. In questo stato, il tempo non ha più alcun significato. Non c'è più ieri né domani, solo l'eterno presente che si estende oltre le stelle, oltre ogni pensiero. Ogni istante è un mondo che nasce e muore, ogni respiro è un universo che si espande e si ritrae. E io, senza più paura, senza più dolore, mi dissolvo in esso, diventando uno con ogni cosa, fino a non essere più niente, fino a non esistere più, ma a essere tutto.
Il corpo non è più un limite. Ogni cellula, ogni fibra di carne, ogni battito del cuore, ogni respiro diventa un ponte tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra il tangibile e l'astratto. Non esisto più come forma definita, ma come una corrente di energia che scorre senza fine, senza fine né scopo, perdersi e ritrovarsi continuamente nel flusso infinito dell’esistenza. L’aria che entra nei miei polmoni è la stessa che accarezza le stelle, la stessa che solleva il mare e solletica la pelle delle montagne. Ogni particella del mio essere è legata al tutto, è connessione che trascende ogni spazio, ogni tempo, ogni separazione. Non c'è più un dentro o un fuori, non c'è più un me e un tu, solo l'unione perfetta di tutte le cose, di tutte le esistenze, di tutti i sogni.
L'universo si stende davanti a me come un tappeto di sensazioni senza fine, ogni frammento di realtà è una nota nella sinfonia infinita della vita, ogni movimento è un passo di danza, ogni pensiero è una risonanza nel vuoto che si espande all'infinito. Non c'è inizio né fine, solo il continuo fluire, il continuo divenire, un eterno ritorno che mi attraversa, mi possiede, mi trascina, mi dissolve. La mia mente si dissolve nel tutto, come una goccia che si fonde nell’oceano, come un fiore che svanisce nel vento. E io non sono più un individuo separato, ma un’eco che risuona in ogni angolo del mondo, un sussurro nell’immensità del cosmo.
Le montagne diventano onde, il cielo si fa mare, la terra si dissolve in luce, in un respiro che non ha forma. Ogni cosa che vedo è una manifestazione di ciò che non posso vedere, ogni parola è un silenzio che parla, ogni silenzio è un suono che risuona nel profondo. Ogni granello di polvere è un riflesso dell’infinito, e io sono il riflesso di tutti i riflessi, la risonanza di tutti i suoni, il battito di tutti i cuori. Non c’è separazione, solo una continua fusione di forme e sensazioni, un abbraccio senza fine tra la luce e l’ombra, tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e lo spirito.
In questo stato senza tempo, senza fine, io sono tutto e niente, un respiro che si espande nell'infinito, un pensiero che scivola nel vuoto. La mia esistenza è un sogno che si intreccia con tutti gli altri sogni, una trama che si dissolve nell'eternità, un'onda che si frange contro le rocce dell'infinito. E mentre mi perdo in questo abisso, non sento più nulla, solo la dolcezza di un ritorno a casa, un ritorno all'origine, dove non c’è più separazione tra il mio respiro e quello del mondo, dove non c’è più paura, né dolore, solo un’immensa, infinita dolcezza che mi avvolge, che mi attraversa, che mi dissolve nel nulla e nell’infinito.
E nel mio ultimo pensiero, c’è un lampo di poesia:
Sono l’onda che si spezza. Sono il nulla che si compie.