Cemento la solitudine, la spalmo sulle pareti della mia esistenza come un intonaco freddo e spesso, come un materiale che non si sgretola, che non si piega, che resiste all’usura del tempo e della speranza. La solitudine diventa sostanza, una materia densa che si accumula giorno dopo giorno, notte dopo notte, depositandosi come polvere nei polmoni, come ruggine sulle articolazioni, come un sudario che avvolge il corpo e lo sigilla nel suo stesso respiro. È una solitudine che non fa rumore, che non chiede nulla, che non reclama compagnia, ma che si dilata come una macchia d’olio, come un buco nero che assorbe ogni cosa senza mai restituire niente. È la costruzione di un esilio interiore, di un deserto scavato tra le costole, di un vuoto che si dilata fino a diventare la sola dimensione possibile.
Massacro stare, eppure stare è inevitabile, ineluttabile come la legge di gravità, come il battito del cuore che continua anche quando si vorrebbe fermare, come il respiro che insiste anche quando non c’è più nulla da inspirare. Stare è un atto violento, un massacro silenzioso che si consuma dentro, nelle fibre più profonde, nelle cellule che si ribellano all’immobilità, nei muscoli tesi in una resistenza che non ha nome. Stare è sentire il tempo addensarsi, diventare materia, peso, gravità che schiaccia la volontà e la rende inerme. Stare è una prigione senza sbarre, una condanna senza giudice, un'attesa infinita di qualcosa che non arriva mai.
Stare dentro la ressa della tonnara significa essere parte di un vortice che trascina senza chiedere il permesso, che affolla, che stringe, che spinge senza tregua. È il caos dell’esistenza che si muove in ogni direzione, è l’urto continuo di corpi che si sfiorano senza vedersi, che si mescolano senza conoscersi, che si consumano in un movimento incessante e senza scopo. È la frenesia del mondo che incalza, che inghiotte, che risucchia ogni tentativo di resistenza, ogni sforzo di trovare un angolo di quiete, un margine di silenzio. Eppure, dentro quella ressa, si resta soli. Una solitudine ancora più feroce, più affilata, perché si insinua nel contatto stesso, nell’invasione dello spazio personale, nella vicinanza forzata che non scalda ma isola. La tonnara è la vita stessa, un destino che spinge verso un finale già scritto, un percorso senza deviazioni, una corsa senza uscita.
Stringersi nelle spalle, farsi piccoli, sottrarsi allo sguardo, diventare meno visibili, meno ingombranti, meno presenti. È un gesto istintivo, un riflesso di autodifesa, la speranza vana che se ci si contrae abbastanza si possa sparire del tutto. Ma non c’è scomparsa possibile, non c’è riparo sufficiente, non c’è spazio abbastanza angusto per sfuggire alla pressione del mondo. Stringersi nelle spalle è l’illusione di un rifugio, la menzogna di una protezione, il tentativo disperato di resistere contro la genesi peggiore.
E tutto questo, tutto, per una manciata di baci. Pochi, furtivi, rubati al nulla, dati via come monete senza valore in un mercato in cui l’amore è merce rara e il desiderio è solo un’ombra fugace. Baci che evaporano prima ancora di diventare calore, baci che promettono e non mantengono, baci che sono un’eco di ciò che si vorrebbe ma che non si può avere davvero. Eppure si cercano, si inseguono, si aspettano con la disperazione di chi ha fame e non trova cibo, con l’ostinazione di chi spera ancora, anche quando non c’è più nulla da sperare. Anche l’illusione di un bacio è meglio del vuoto assoluto.
Cerchio di addio il ritornante, perché il ritorno non è mai un vero ritorno. Si torna, ma non si torna davvero. Si ripercorrono le stesse strade, si rivedono gli stessi luoghi, si ripetono le stesse parole, ma nulla è come prima. Il passato è un’illusione che si dissolve nel momento stesso in cui si prova a toccarlo, un’ombra che sfugge, un fantasma che non può essere richiamato alla vita. Il ritorno è una condanna, un cerchio che si chiude e che non lascia vie di fuga, un ripetersi ossessivo di ciò che è stato e che non potrà mai più essere. Si torna per cercare qualcosa che non c’è più, per raccogliere le ceneri di un fuoco spento, per ascoltare l’eco di una voce che si è dissolta nel vento. E così si resta prigionieri del tempo, incatenati a un passato che non esiste più, incapaci di andare avanti, incapaci di restare fermi.
Gemito del solo gelo, il lamento sottile di chi sente il freddo insinuarsi dentro, non solo nel corpo, ma nell’anima, nella volontà stessa di esistere. Il gelo non è solo temperatura, è condizione, è destino, è un sigillo che si imprime sulla pelle e non va più via. È l’assenza di calore, di attesa, di speranza. È il tempo che si congela in un istante eterno, in una notte che non si dissolve all’alba. Il gelo è un silenzio assoluto, un’assenza che pesa più di qualsiasi presenza.
Altitudine remota lo spettro, un’ombra senza nome che osserva dall’alto, distante, irraggiungibile. È il passato che non si cancella, è il rimpianto che non si placa, è il sussurro di una vita che avrebbe potuto essere diversa ma non lo è stata. Lo spettro non parla, non si muove, non agisce. Sta lì, come un guardiano delle rovine, come un testimone silenzioso della disfatta, come il riflesso opaco di un sogno mai realizzato.
E tra i rottami si consumano i giochi del fatuo, gli ultimi bagliori di un teatro senza pubblico, le ultime scintille di una fiamma che non scalda più. Ci si muove tra macerie, tra resti di speranze frantumate, tra briciole di giorni che si sbriciolano sotto i passi. Il tempo si avvolge su se stesso, si chiude in una spirale senza uscita, stringe, soffoca, disperde ogni cosa in un silenzio che pesa più di mille grida.
Eppure, nonostante tutto, si continua a camminare. Anche tra le rovine, anche nel gelo, anche quando il tempo si fa ostile e il futuro un miraggio lontano. Si continua a cercare, si continua a desiderare, si continua a sperare. Perché anche tra i rottami, anche nel vuoto, basta un respiro, basta un battito di ciglia, basta un attimo per riaccendere la fiamma di ciò che si credeva perduto.