Ci sono giorni in cui l’aria è satura di presagi, in cui ogni ombra si allunga più del dovuto, in cui anche il silenzio sembra voler dire qualcosa che non si ha il coraggio di ascoltare. Ci sono notti in cui il sonno è un lusso che non posso permettermi, in cui i sogni non sono altro che stanze vuote in cui il passato cammina senza fare rumore. E allora resto sveglio, ad ascoltare il battito del mio cuore, il suono delle ore che si sgranano come un rosario di spine, il sussurro della tua assenza che si insinua tra le pareti, tra le vene, tra le costole.
Il contrario di un uomo limpido non è solo l’acqua torbida, ma la mano che la mescola, il gesto che la rende opaca, il pensiero che la agita fino a farla ribollire. Il contrario della chiarezza è un vetro scheggiato, un riflesso distorto, un volto che si sfalda appena cerchi di metterlo a fuoco. E io non so più se la mia immagine è quella di un uomo che esiste o solo di un’ombra che continua a muoversi per inerzia.
Il contrario del mare è una donna cieca, che non sa distinguere il sale dalle lacrime, che non sente il richiamo delle onde, che non ricorda più il suono della risacca. Il mare è ciò che ti ha sempre chiamato, ciò che ti ha accolto, ciò che ti ha inghiottito senza restituirti più. E allora io mi chiedo: se il mare è il tuo sepolcro, se l’acqua è la tua tomba, cosa resta per me? Solo la sabbia che scivola tra le dita, solo il vento che spazza via ogni traccia di ciò che è stato, solo il vuoto che si allarga come una voragine.
Chi distrugge un ponte costruisce un precipizio. E tu hai demolito ogni passaggio, hai frantumato ogni possibilità di ritorno, hai lasciato solo il vuoto tra me e te. Io mi affaccio su quell’abisso e vedo il riflesso di qualcosa che non riconosco più: è la mia voce che si perde nel nulla, è la tua ombra che si dissolve prima ancora di toccare il suolo. Non c’è ritorno, non c’è ricostruzione. Solo il crollo, solo la caduta, solo il suono sordo di ciò che si frantuma e non si ricompone più.
Le cicatrici sono colpi che non si dimenticano. Sono il segno di una ferita che ha smesso di sanguinare, ma che non ha mai davvero smesso di far male. Sono la prova che qualcosa è successo, che qualcosa è rimasto incastrato sotto la pelle, che il tempo non ha guarito nulla, ma ha solo insegnato a convivere con il dolore. Io porto le mie cicatrici come un codice segreto inciso nella carne, come un alfabeto muto che solo io so leggere. Ogni segno racconta una storia, ogni solco è una parola non detta, ogni linea è il confine tra ciò che ero prima di te e ciò che sono diventato dopo di te.
Ci sono verità senza limite e ci sono cose che finiscono. Il tempo è una strada che non torna mai indietro, un fiume che non conosce tregua. I fiumi sono Machado, scrivevi. E allora dimmi: se tu sei l’acqua che scorre, io cosa sono? Il sasso che resta immobile sul fondo, il legno che galleggia senza direzione, il detrito che la corrente trascina via senza chiedere permesso? Ti ho amato oltre me stesso, oltre il possibile, oltre ogni confine che avrei dovuto rispettare. Ti ho amato come si ama un segreto che non si può rivelare, come si ama un’illusione che si sa già destinata a dissolversi.
Gli scorpioni luccicano alla luce della luna e poi tornano velenosi e oscuri. Tu eri così: luce e veleno, bagliore e ombra, bellezza e morte nella stessa pelle. Ti muovevi tra le persone con la grazia di un animale notturno, con il mistero di chi sa di essere amato eppure resta irraggiungibile. Ti ho visto brillare nelle notti d’estate, ti ho visto spegnerti nei pomeriggi d’inverno, ti ho visto sparire nel nulla senza lasciare altro che il sibilo di un’ultima parola sussurrata nel vento.
È così semplice.
Lottare per le ceneri è rinunciare al fuoco. Eppure io ho passato anni a raccogliere i resti di ciò che siamo stati, a stringerli nelle mani, a soffiarci sopra sperando di vederli ardere ancora. Ma le ceneri sono mute, fredde, pesanti. Non raccontano niente, non restituiscono niente. Sono solo polvere. E io ho smesso di cercare il calore in ciò che non può più bruciare.
Una parola detta è un uccello che vola via. Le parole che non ho detto, invece, sono rimaste incastrate nella gola, pesanti come sassi, taglienti come vetro rotto. La tua morte è ancora sotto la mia pelle, uguale a un insetto intrappolato in un bicchiere rovesciato. Lo sento muoversi, lo sento sbattere contro il vetro, lo sento graffiare le pareti trasparenti di qualcosa che non si rompe mai.
Che altro posso dirti?
Che ti ho amato da Nord a Sud, senza fine, con la ferocia di un animale ferito, con la tenacia di chi non sa smettere di lottare anche quando la battaglia è già persa. Ti ho amato con unghie e denti, senza segreti, senza tregua. Ti ho amato come si ama il vento prima che diventi tempesta, come si ama un tramonto sapendo che porterà con sé il buio.
E poi ho scelto di dimenticarti. Ho scelto di non ascoltare più la tua voce, di non guardare più le nostre foto, di non immaginarti più mentre accarezzavi con le tue dita azzurre i cani randagi, mentre lasciavi che il tempo ti scorresse addosso senza mai afferrarlo.
Ora voglio solo oscurità e fumo. Sono venuto a dire che ti ho dimenticato. Che ti dimenticherò ancora, ogni giorno, in ognuno dei giorni che mi restano.
Eppure, so che non è vero. Perché l’ombra di chi siamo stati non se ne va mai davvero. Perché il tuo nome è ancora inciso tra le crepe del mio respiro. Perché ogni notte che si stende davanti a me è solo un altro modo di camminare all’indietro nel tempo.