Sovente, prima che il sipario del mondo visibile si chiuda, lasciandomi scivolare nell’insondabile vastità del sonno – quel regno intoccabile dove la ragione si dissolve e il tempo perde ogni significato – mi ritrovo a indugiare sull’orlo di un precipizio che separa la veglia dall’oblio. È una soglia sottile, una fragile frontiera tra il reale e l’ignoto, un limbo in cui l’anima, sola e inquieta, combatte contro il desiderio di abbandonarsi. Sento in quei momenti una resistenza che mi trattiene, una paura antica, quasi viscerale, come se oltre quella soglia non vi fosse soltanto il sonno, ma qualcosa di più oscuro e profondo, qualcosa di irrevocabile.
Mi sorprendo allora a procrastinare l’inevitabile, rifiutando di lasciarmi andare a quel vasto nulla che mi chiama con una voce silenziosa, ma irresistibile. La mia mente vaga, si aggrappa a ricordi fugaci, a immagini che si accendono e si spengono come lucciole nel buio della notte. Cerco rifugio in pensieri familiari, in frammenti di dialoghi passati, in visioni di volti che amo o che ho amato. Ma tutto si sfalda, tutto si dissolve, perché il sonno non tollera compagnia, non accetta che alcuna forma sopravviva alla sua carezza obliante.
E così, in quell’istante sospeso, invento. Creo per me stesso un’illusione, un piccolo inganno che possa placare la mia inquietudine. Fingo che una mano invisibile si posi sulla mia, una mano calda e gentile, capace di rassicurarmi con il suo silenzioso tocco. Non so di chi sia quella mano: forse è la proiezione di un affetto lontano, o forse è semplicemente il frutto del mio desiderio di non essere solo. Eppure, al solo pensiero di quel contatto immaginario, qualcosa in me si rilassa. Il mondo sembra meno ostile, meno minaccioso. Mi sento guidato, come un bambino che attraversa un ponte sospeso nel vuoto, aggrappandosi con fiducia a una figura che non può vedere.
Così, finalmente, avanzo. Mi inoltro in quel mare sconfinato che è il sonno, un mare fatto di assenza e silenzio, di ombre che si intrecciano e si dissolvono senza mai assumere contorni definiti. È un viaggio che mi riempie di meraviglia e di terrore, un viaggio verso un luogo che non posso conoscere ma che ogni notte mi accoglie come se fosse casa. In quel vuoto smisurato, il mio essere si espande e si perde, lasciandosi alle spalle le angosce e le certezze del giorno. Ogni pensiero si frantuma in una miriade di scintille, ogni emozione si trasforma in un’eco lontana, e io divento parte di qualcosa di più grande, di qualcosa che non ha nome.
Eppure, non sempre riesco a compiere questo viaggio. Ci sono notti in cui la paura mi paralizza, in cui la mia mente si rifiuta di cedere il controllo, e io rimango sospeso in un limbo inquietante, incapace di dormire e incapace di restare sveglio. Sono notti lunghe, interminabili, in cui il silenzio diventa un peso insopportabile, e ogni ombra sembra minacciare di inghiottirmi. In quei momenti, il sonno mi appare come un nemico, un’ombra incombente che non riesco a affrontare. E allora, prigioniero di me stesso, cerco un’altra via d’uscita.
Questa via è il sogno. Non il sogno che nasce spontaneo nel sonno profondo, ma un sogno che io stesso costruisco, pietra su pietra, con i frammenti della mia immaginazione. È un sogno fragile, effimero, ma sufficiente a colmare il vuoto e a darmi l’illusione di un riposo che non posso trovare. Mi lascio trasportare da questa costruzione, immergendomi in un mondo che è mio e soltanto mio, un mondo fatto di visioni e ricordi intrecciati, di desideri che si confondono con le paure, di paesaggi che non esistono ma che pure sembrano più reali della realtà stessa.
In questo sogno, mi perdo e mi ritrovo. Cammino in luoghi che non ho mai visto, incontro volti che non conosco ma che mi sembrano familiari. Parlo con voci che risuonano dentro di me come echi lontani, come frammenti di una melodia dimenticata. E lì, in quel regno incerto e mutevole, trovo una strana pace, una tregua temporanea dalla lotta tra veglia e sonno. È una pace che dura solo un istante, ma che sembra eterna. E quando alla fine il sonno arriva davvero, mi accoglie come una madre indulgente, cancellando ogni traccia del mio passaggio, portandomi con sé in un abbraccio che non lascia spazio a nient’altro.