Nostra Signora dei Turchi è un’implosione, un rovesciamento totale di ogni convenzione letteraria, un testo che non semplicemente si legge, ma si divora, si consuma, si fonde con la carne stessa del lettore. Carmelo Bene non si limita a scrivere: esplode, erutta dal foglio come una forza naturale incontrollabile, come una frana che spazza via tutto ciò che è ordinario, che annienta le strutture, che polverizza i significati. Qui, la letteratura non è solo un atto di creazione, ma un atto di distruzione – una distruzione violenta che scivola nell’epico, nel tragico, nel comico, ma che si trasforma anche in un estremo atto sessuale, in un tormento corporeo che non concede pause, che strappa via ogni barriera tra il corpo e la mente, tra il soggetto e l’oggetto, tra la sacralità e la bestialità.
Il protagonista, che non è mai solo un personaggio ma una totalità, un’entità che abita e decostruisce l’universo stesso del romanzo, è un essere che si dissolve in un continuo cambiamento, una metamorfosi incessante, una mutazione che non trova mai fine. È un uomo che si erge contro la realtà, contro la coscienza stessa, un individuo che non esiste se non nel suo desiderio più puro, più brutale, più totale. E questo desiderio non è un semplice impulso carnale: è un vuoto che si riempie con la follia della ricerca, con l’assoluto che non conosce limiti. La sua ossessione per Nostra Signora dei Turchi non è solo un desiderio erotico, non è solo un culto religioso, ma una fusione di queste due dimensioni che si traducono in un atto divino e infernale al contempo, un'orgia cosmica dove la salvezza è solo una menzogna, una promessa irraggiungibile. La Santa, che in altri contesti sarebbe un simbolo di pietà e misericordia, in Bene è trasformata in un corpo pulsante, violento, un oggetto di desiderio sfrenato che lo assorbe e lo distrugge, lo riflette e lo annienta.
La scrittura stessa diventa un corpo, e la sua fisicità è esorbitante, insostenibile. Ogni parola di Bene non è mai statica, mai compiuta. È come un animale che si contorce sulla pagina, che urla, che geme, che si sbrana, che non accetta definizioni. La sintassi è un atto di pura liberazione, ogni frase è una rivoluzione, ogni segno è un colpo inferto all’ordine linguistico. Bene non scrive: fa esplodere le parole in una pioggia frenetica, in una tempesta che non conosce tregua. I periodi si allungano all’infinito, si spezzano, si rincorrono come serpenti in un ammasso di corpo e suono, come un orgasmo sonoro che non smette mai di crescere, che divora ogni respiro, ogni punto, ogni virgola. Il romanzo stesso è un'implosione di parole, un crivello di pensieri senza fine che si intrecciano e si contraddicono, creando una tela impossibile da decifrare, una rete di significati che si intrecciano e si fondono nel caos totale. Il linguaggio si fa carne, si fa sangue, si fa urlo: la mente stessa non può restare intatta, e il corpo del lettore non può evitare di essere scosso, come se ogni parola fosse una scossa elettrica che attraversa il corpo e lo mente.
Il paesaggio che Bene disegna non è solo un luogo fisico: è una terra che respira, che urla, che geme, una terra di sangue e carne, di morte e piacere. La Puglia non è più una regione italiana, ma un corpo malato che suda, che grida, che si fa liquido e roccia, che scivola nell’anima. Otranto, la città martire, diventa un simbolo dell'assurdo, della lotta senza fine, della guerra tra la luce e le tenebre, tra il divino e il demoniaco. Le immagini del martirio si fondono con quelle del piacere, con quelle dell’animalità più profonda, in un paesaggio dove la violenza è un atto quotidiano, una pratica che non ha mai fine, che non ha un confine, che divora il corpo e la mente con la stessa intensità. La terra diventa un organismo, un essere vivente che vive di sangue e sudore, che non ha paura della distruzione, che è pronta a divorare ogni cosa. Ogni dettaglio è esacerbato, amplificato all'inverosimile: il cielo è un male che scende, il mare è un respiro di morte, la roccia è carne che si frantuma, ogni fiore è un’esplosione di vita e morte che non può essere separata.
La violenza che permea ogni pagina del libro è un atto di sacralità e di profanazione al tempo stesso. Non c'è paura, non c'è esitazione. È una violenza che non è solo fisica, ma che è un atto di annullamento del pensiero, di rifiuto di ogni ordine prestabilito, di ogni logica. La stessa scrittura diventa violenta: è una lacerazione, una frattura che si fa sempre più grande, più sanguinante, fino a non lasciare spazio per alcuna interpretazione razionale. Ogni parola di Bene è una lama che taglia la realtà, che ne spezza i fili, che dissolve ogni stabilità. La poesia diventa un urlo, una bestemmia, un invito al delirio totale, un’esplosione che fa a pezzi ogni struttura, ogni definizione, ogni verità. La struttura del romanzo si dissolve in mille frammenti di visioni, di pensieri, di suoni che non hanno più alcun punto di riferimento. Ogni pagina è una caduta senza fine, un vortice che trascina il lettore nell’abisso senza speranza, senza ritorno.
La sessualità in Nostra Signora dei Turchi non è solo un atto fisico, ma un’energia pura, una forza che spinge il protagonista verso l’estasi e la disperazione, che lo trasforma in un essere bestiale, animale, primitivo. Il desiderio non è mai gentile: è una sete che consuma, che brucia, che non si placca mai. Non c'è spazio per il riposo, per la pace, per l’amore convenzionale. Qui il corpo è la prigione e la liberazione allo stesso tempo, il luogo dove l’individuo si consuma, si annienta e si rigenera. La carnalità è un atto di trascendenza, ma anche di orrore, di dolore, di corruzione. Ogni tocco, ogni contatto è un viaggio che non conosce ritorno, un’ulteriore spirale che affonda più a fondo, che non lascia speranza né salvezza.
Ogni pagina di Nostra Signora dei Turchi è un atto di sovversione, un grido di battaglia contro la convenzione, contro la realtà, contro ogni struttura che possa limitare il pensiero, il desiderio, il corpo. È un inno all’estremo, all’infinitamente altro, all’indicibile. Ogni momento nel romanzo è una deflagrazione, un attacco frontale alla normalità, un atto che ribalta il senso stesso dell'esistenza. La scrittura non è più solo un'espressione, ma un’esperienza radicale, una reazione fisica che trascende il libro stesso, che diventa un incontro tra il lettore e l’infinito, tra la vita e la morte, tra l’essere e il non essere. In questo modo, Nostra Signora dei Turchi non è solo una lettura, è un esperimento fisico, una tortura estetica, un atto di creazione che non smette mai di esplodere.
Carmelo Bene non è mai morto, non essendo egli nato e non ha mai scritto non essendo egli mai stato letto.