Se andare è il barcollo improvviso
dell’uccello colpito, il suo tremore,
se il passo nostro indugia sulla soglia
del vento che ci spinge e poi ci nega,
se nello sguardo un lampo si trattiene
prima che il buio torni a scompigliarlo,
a che vale fermarsi, se il partire
già ci disperde come neve sciolta?
Eppure stiamo, e un attimo raccoglie
il grido, il volo, il frutto sulla bocca,
mai dalla parte che ci fu promessa,
ma dove il caso ci lasciò naufraghi.
E le strade si aprono come costole
di un gigante caduto dal cielo,
e gli orologi si rovesciano, liquidi,
sciogliendo il tempo in rivoli di cera
che colano lungo le mura azzurre
di palazzi che dormono, respirano.
La notte si stacca come una pellicola
e dietro il suo velo si spalanca un vuoto
dove nuotano pesci dagli occhi umani,
dove le nuvole hanno mani d’inchiostro
e scrivono alfabeti sconosciuti
sulle schiene curve dei passanti.
Oh città rovesciata, oh sogno immobile,
dove le statue sussurrano tra loro,
dove i lampioni si piegano a baciare
il volto pallido della strada,
e i ponti si sciolgono in fiumi di vetro
che scivolano lenti sotto la pelle.
Di queste piacenze, della vertigine
che danza tra il respiro e la caduta,
noi leggiamo le selvatiche Leggi
scolpite sulla pelle della luce,
sul viso che risplende e già si spegne,
mentre un uccello con ali di fumo
si posa sulla spalla di un’ombra
e le sussurra il segreto del vento.
Il tempo si curva come un gomitolo
tra le dita di un vecchio senza volto
che cuce il giorno con aghi di pioggia
e lo srotola lento tra le grondaie
dove le stelle, come chiodi arrugginiti,
si conficcano nei tetti sbrecciati.
E noi passiamo, i piedi sospesi
sopra un abisso fatto di specchi
che riflettono volti che non conosciamo,
ma che ci fissano, ci chiamano,
con bocche spalancate senza suono.
E allora che ci resta? Forse un brivido
che sa di nebbia e vento sulle labbra,
forse il gusto amaro di una mela
morsa nel sogno di un altro.
Forse il battito di ciglia di un muro
che ci osserva e ride nel buio,
o il passo di un uomo fatto d’aria
che cammina all’indietro nel tempo.
Forse il desiderio ci spinge ancora,
come un cavallo dalle zampe di nebbia
che corre su un mare di scale mobili,
forse un sussurro ci chiama dal fondo
di un cassetto mai aperto,
dove dorme un orologio senza lancette
e un guanto che stringe la mano di nessuno.
E mentre camminiamo, le porte si aprono
su stanze che non hanno pareti,
su giardini capovolti dove gli alberi
affondano le radici nel cielo
e le stelle pendono come frutti
che nessuno osa cogliere.
E nel morire lento della sera,
quando i lampioni si accendono da soli
come occhi spaventati nell’ombra,
qualcosa si solleva nel vento,
una voce fatta di piume e sabbia,
un nome che si sbriciola tra le dita.
Forse risponde il mare, nel suo eterno
alternarsi di spuma e di risacca,
forse risponde il vento nei cortili
dove i gatti parlano tra di loro
con le voci dimenticate dai poeti.
Forse risponde un battito nel buio,
una porta che si chiude senza mani,
un quadro che cambia mentre lo guardi,
una scala che sale e non finisce,
un volto che si forma nella nebbia
e scompare prima di dire il tuo nome.
E noi restiamo, fragili e costanti,
come un’ombra dipinta sulla sabbia,
come un riflesso intrappolato nell’acqua,
come il sogno di un albero che non esiste
ma che proietta la sua ombra sul muro.
Eppure andiamo ancora, senza requie,
come marionette senza fili,
come lettere scritte su un vetro appannato,
come foglie che danzano sopra il nulla,
come viaggiatori di un treno fantasma
che attraversa la notte senza mai fermarsi.