Un vecchio cliché che torna e si ripete,
sempre uguale eppure sempre mutato,
immobile nel tempo e inarrestabile,
come una musica che si dissolve
nel vento, e poi risale dalle pietre,
ricomponendosi con nuove forme,
nuove vibrazioni, nuovi accordi.
Una scena vissuta mille volte,
un teatro di ombre sovrapposte,
di sagome spezzate e ricomposte,
di voci che rimbalzano nel vuoto
e si disperdono tra i giorni spenti,
nel chiaroscuro di memorie fuse
tra luce incerta e pallidi riflessi,
come figure evanescenti e mute
trattenute nel limite del quadro,
nel perimetro esatto di un istante
che sembra rivelarsi e poi svanire.
Ogni dettaglio sembra già vissuto,
ogni movimento è già fissato,
eppure sfugge sempre alla memoria,
si perde nelle pieghe del reale,
si scompone in frammenti irriconoscibili,
come un disegno antico sulla sabbia
che un’onda lenta scioglie e ridisegna,
lasciando una traccia evanescente,
un’orma fragile e senza nome,
un’eco che si perde e si disperde.
Ma in questo movimento che ritorna,
in questo schema immobile e vibrante,
si avverte un suono che non si cancella,
un battito sommerso ma costante,
un ritmo che si insinua sotto pelle,
che attraversa la carne e si fa verbo,
che incide sulla pelle delle cose
un segno impercettibile ma eterno.
Il suono si dissolve e si ricrea,
si mescolano toni e armonie,
si fondono nel buio le distanze,
si accendono bagliori nella polvere.
Il bruno si fa oro nel tramonto,
la terra è un abbraccio che consuma,
un respiro che esplode e si trattiene,
un battito sospeso nell’attesa,
un tremore di labbra silenzioso.
Eppure, proprio lì, in quella soglia,
tra l’ombra e il riflesso della luce,
tra il tempo che si chiude e che si apre,
qualcosa resta, qualcosa si trattiene,
come una linea incisa nella pietra,
come una fenditura nella tela,
un varco oltre il silenzio e la distanza,
un respiro rimasto a mezz’aria,
un soffio che non vuole disperdersi.
Ora la sua opera:
Ma tutta questa folla che lo insegue,
che si accalca e si stringe nel tumulto,
che per giorni e per notti si trascina
lungo sentieri chiusi nella nebbia,
alla fine si smarrisce e si confonde,
si perde dentro il proprio stesso andare,
si incrocia con i passi di altre ombre
e abbassa gli occhi incerti verso il suolo.
È un mormorio che vibra nella polvere,
un brusio che si annoda e si disperde,
una presenza evanescente e muta,
un’eco che non trova la sua fonte,
uno sguardo che insegue senza meta
un volto intravisto e poi svanito,
un’impronta lasciata sulla soglia
di un luogo mai davvero attraversato.
"È forse lui? E io? Povera bestia,
di poco conto, in bilico nel vento,
incerta tra il riflesso e il suo tramonto,
tra il peso di un passato che si allunga
e il vuoto di un domani senza volto.
Sono materia fragile e sfuggente,
sospesa tra il ricordo e l’apparenza,
ombra di un’ombra, fragile miraggio,
eco dispersa sopra il filo d’aria.
Sono il riflesso di un pensiero altrui,
sono l’assenza che si fa presenza,
l’interrogarsi cieco di una folla
che cerca un nome e trova solo il vuoto."
Così ripete:
E avviene come accade in Vermeer,
quando la luce sfiora e non rivela,
quando il silenzio è un brivido sospeso
e l’aria intorno trema senza moto.
Sopra la scrivania resta il riflesso,
si spande sulla carta un’ombra fioca,
si piega la lanterna verso il basso,
e i fiori sulla tela si inclinano,
colti da un desiderio inarrestabile,
da un fremito che scuote e che avvince,
da un fuoco che consuma e che trattiene.
Il lume basso arde e si contorce,
la polvere si alza e si dissolve,
la pagina respira il suo silenzio,
una traccia sottile e impercettibile
rimane tra le pieghe della tela,
come un respiro stretto nella fibra,
come il sospiro dell’istante immobile,
un battito d’ali sopra la materia.
Le mani sopra il tavolo indugiano,
un movimento lieve e inavvertito
sfiora i contorni incerti del reale,
suggerisce una forma e poi la nega,
come un’illusione che si nutre
della sua stessa incertezza e si ritrae.
C’è un senso di attesa in questo istante,
come se il mondo fosse lì, sospeso,
in attimo perfetto e inconcepibile,
sul punto di svelarsi e di sparire.
— Come metallo che si fa natura,
un filo d’oro che si sfilaccia e cresce,
un velluto che accarezza il proprio doppio,
che si avvolge su sé stesso e si disperde,
una sostanza che si muta e arde,
una memoria che si scioglie e torna,
un desiderio eterno e inconfessabile,
una gabbia d’incanto e di veleno,
un battito imprigionato nel tempo.
E in questo vortice che non si spegne,
in questa forma che si scioglie e torna,
tra il suono e la materia che si piega,
rimane solo un’eco che sussurra,
che si confonde dentro la distanza,
che si consuma e non si può afferrare.
Eppure, nel silenzio che si allarga,
nel buio della stanza che si chiude,
qualcosa resta, qualcosa si incide,
un solco invisibile ma eterno,
un frammento di luce che non cede,
una memoria chiusa nella polvere.
E quel riflesso che tremava incerto
sopra il margine vago della tela,
quel lume che si piega e che si spegne,
quella figura appena accennata
che sorge e poi svanisce nella luce,
forse è ancora lì, in un altro tempo,
forse attende che un occhio la sorprenda,
che un gesto la richiami al suo destino.
Forse ogni cosa esiste per tornare,
forse ogni cosa è un battito sospeso
che si rifrange in mille direzioni
e che, come un respiro trattenuto,
riappare, impercettibile, nel buio.