Negli anni ’80 e ’90, The Native è stato uno dei giornali più influenti della comunità gay di New York. Nato come una voce indipendente e combattiva, si distingueva per il suo tono provocatorio, il suo spirito militante e la volontà di sfidare il sistema. Ma uno degli aspetti più controversi della sua storia è stato il negazionismo nei confronti dell’AIDS. Mentre l’epidemia devastava la comunità e falciava vite—incluse quelle di alcuni membri del suo stesso staff—il giornale ha abbracciato posizioni scettiche, respingendo le evidenze scientifiche e alimentando teorie del complotto che avrebbero avuto conseguenze gravi.
L’atteggiamento di The Native rifletteva un fenomeno più ampio che attraversava parte della comunità gay dell’epoca, in particolare a New York. Il trauma della discriminazione sistemica, il sospetto verso le istituzioni e la gestione politica dell’epidemia—spesso tardiva e segnata da indifferenza—avevano generato un clima di sfiducia profonda. La rabbia contro il governo Reagan, accusato di ignorare la crisi sanitaria, si mescolava a un sentimento di ribellione contro l’autorità medica e scientifica. Molti si chiedevano se l’AIDS fosse davvero ciò che veniva descritto, se non fosse un’invenzione, o addirittura una strategia per controllare e reprimere la comunità gay. In questo contesto, le teorie negazioniste trovarono terreno fertile.
Le cure disponibili all’epoca, come AZT, DDI e DDC, erano trattamenti sperimentali e spesso aggressivi, con effetti collaterali pesanti che rendevano la vita difficile ai pazienti. Ma erano anche l’unica possibilità di sopravvivenza per molti. Eppure, The Native non solo ne metteva in dubbio l’efficacia, ma arrivava a dipingerli come strumenti di morte, promossi da un’industria farmaceutica senza scrupoli e da una comunità scientifica complice di un grande inganno. L’idea che il virus HIV non fosse la causa dell’AIDS—una tesi sostenuta da alcuni scienziati marginali e amplificata dal giornale—contribuì a diffondere disinformazione e a spingere alcune persone a rifiutare le terapie.
Questo atteggiamento non era privo di contraddizioni. Da un lato, The Native si presentava come una voce coraggiosa e radicale, pronta a denunciare l’ipocrisia del governo e la negligenza del sistema sanitario. Dall’altro, il suo rifiuto della realtà scientifica lo portò su un terreno pericoloso, in cui la lotta per i diritti si intrecciava con il rischio di minare la stessa sopravvivenza della comunità che cercava di difendere.
Dal 1985 fino alla sua chiusura nel 1997, The Native ha rappresentato una delle voci più importanti e divisive della stampa gay. Il suo contributo alla visibilità e al dibattito politico della comunità LGBTQ+ è innegabile, ma la sua deriva cospirazionista sull’AIDS resta una delle pagine più oscure della sua storia. In un’epoca in cui la battaglia per la sopravvivenza passava anche attraverso la corretta informazione e l’accesso alle cure, il giornale ha contribuito a diffondere un clima di sfiducia e sospetto che potrebbe aver allontanato alcuni malati dalle terapie salvavita.
Oggi, guardando indietro, è difficile non vedere in questa vicenda una tragedia dentro la tragedia: una comunità decimata dall’AIDS, spinta dalla disperazione a diffidare di chi cercava di aiutarla. Un giornale nato per essere una voce di resistenza, finito per alimentare una narrativa che, paradossalmente, poteva solo rendere più debole quella resistenza. È una storia fatta di rabbia, dolore e di un profondo senso di ingiustizia, ma anche di scelte che, col senno di poi, hanno avuto un prezzo altissimo.