AMORE SENZA INDUGIO
I
si può guardare, largamente
I visitatori stanno alle parole e non all’occhio. Quale pensiero è quadro della tela? E quale servigio punisce a meraviglia?
Attenuata la sorgente, in minor forma: Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto “ogni rimorso, una bestia affamata”. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, “a quel succo di terreno” inanime e prono.
Ora niente può più: “colpire la buona ventura”.
Tranquillità del “sonno ci raggiunge”, e sesso estremo: è un’argentea lucidità, “una tregua”. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto sei ora. Qui si respira, alfine.
Ma di te? Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’angolo le strette di mano, nessun ricordo e riguardo: questo è già causa di soccorrimento, Dario.
Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, la dimenticanza, poco alla volta. Non è davvero finita la nostra diabolica presenza: “è la parola finale”. Corte fiamme alzano, a questo Mondo immondo, lo stato di miseria e il nostro cattivo sorriso.
“Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine, ma “qualcuno non ha più occhi”. Profondamente incassati.
“Gesta e pensamenti in accordo” con lo sguardo” come se volessero affascinarci, ben disposti a “questi attuali eventi”, questo disconoscerti.
II
Si può guardare largamente
Non condizioni a intrattenere il Tempo: ignote le nuove generazioni, non ti conoscono o riconoscono, è vero! Anche levando su i begli occhi che hanno a guardarti.. non esisti: tu una testimonianza divina ma del tutto svuotata.
Ma le teste più capaci, poche, di osservare “non hanno crisi della bocca”.
A ben guardare nulla è immorale della tua vita e della tua morte di poeta e tutto equivale al quotidiano angelico, all’aurorale viaggio, al buon camminamento: AL TUO SONNO ETERNO PER QUESTA NOTTE ETERNA ALMENO.
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Scrissi i versi in prosa, che leggete più sopra, anni dopo la scomparsa di Dario Bellezza, nel ricordo di alcun lettere che, ai tempi, gli spedii e in memoria delle sue risposte. Ora mi accingo a parlarne. Davvero. A memoria futura. Per quel poco che posso.
Con il passare degli anni, la retorica simbolica e decadente che aveva caratterizzato il primo Bellezza sembrò venire soppiantata da un'altra dimensione, più intima e carnale, in cui l'autore sembrava voler mettere in scena non solo le sue parole, ma anche e soprattutto la totalità del proprio essere. La sua spettacolare fisicità, un tempo esibita come uno strumento di seduzione e potere, divenne invece una testimonianza visibile del passaggio del tempo e dello sfaldamento inevitabile legato alla maturità del corpo. Era un corpo vissuto, che portava su di sé i segni di una vita contraddittoria, in bilico tra il senso di colpa per i propri desideri e la ricerca disperata di un riscatto, di un'assoluzione impossibile.
A questo si aggiungeva la malattia, compagna scomoda e inevitabile, che diventava parte integrante della sua arte e della sua esistenza. Bellezza la affrontava non con silenziosa rassegnazione, ma con un atteggiamento stravolgente, volutamente sopra le righe, che alternava la tragedia al grottesco. Il suo approccio sembrava quello di un buffone che, consapevole della propria fragilità, sceglie di stravolgere la realtà attraverso una messa in scena rumorosa e caotica, quasi una burletta malriuscita. Questo modo di affrontare il tragico attraverso l’eccesso teatrale finiva per trasformarsi in una forma estrema di arte drammatica, in cui le vicende personali venivano esposte come su un canovaccio sgangherato.
In questo racconto frammentato e doloroso, ogni elemento autobiografico veniva svelato con una brutalità disarmante, mescolando la confessione intima a una rappresentazione quasi farsesca degli amanti e delle relazioni, rese stolte e disperate da una recita costantemente sopra le righe. Ma la recita non si fermava alla finzione: Bellezza, nel raccontare e vivere i propri drammi, finiva per subirli fino alle estreme conseguenze, raggiungendo una forma di immedesimazione assoluta, in cui arte e vita si fondevano in un atto di totale e irrimediabile esposizione.
E così, quasi a volerlo prendere in giro con un ultimo gesto di ironia, la morte ha scelto di giocare il suo stesso gioco, usando un sotterfugio che egli avrebbe certamente apprezzato. Non si è presentata in modo diretto, non ha colpito il poeta né ha invaso la sua arte. Ha preferito riflettersi, con calma e astuzia, nello specchio che lui stesso aveva creato, ma dietro il ritratto dell’uomo, non del poeta. In questo modo, ha reso omaggio alla dualità della sua esistenza: un uomo che, pur rispettandola e riconoscendone il potere, ha saputo deriderla con la grazia e l’arguzia che solo la poesia concede. E così, come lui spesso si specchiava dietro il velo della morte per osservarla, sfidarla e forse comprenderla, lei ha fatto lo stesso, ribaltando il gioco con un riflesso che è al tempo stesso tributo e beffa.
Pure se fosse possibile salvarsi in qualche modo, sembra suggerire, quasi gridare, nella sua scrittura Bellezza, imponendo il proprio ruolo di vivente sul piano individuale, la situazione non potrebbe che essere irrimediabilmente compromessa dalla crudeltà dei sentimenti più cupi e oscuri, da quella incapacità irriducibile di adeguarsi al loro immorale e sfrenato fluire, che pure è gioioso, scandalosamente gioioso, ma anche privo di redenzione. Ancora una volta. Finzione. Ma non una qualunque: una finzione che si ripiega su se stessa, che si amplifica, si moltiplica in un gioco di specchi distorti. Di più ancora, verrebbe da aggiungere, come se il mondo stesso non fosse altro che il perfetto traslato di una finzione reiterata all’infinito, una finzione che non si accontenta, che si erge al quadrato, che si esibisce esponenzialmente, crudelmente, senza pietà né pudore. Una finzione cattiva, spietata, che non lascia scampo e che, nell’atto stesso di dichiararsi, condanna ogni possibile salvezza.
Così accade che, appena lo specchio si rifiuta di restituire l'immagine familiare della vecchia morte, quell’immagine che pure sembrava fissata in modo indelebile, ecco emergere con prepotenza, quasi inaspettatamente, la figura del poeta stesso. Egli si manifesta come un’ombra che si fa carne, nascosta e al tempo stesso messa a nudo nel proprio complesso e intricato labirinto di pensieri, un groviglio denso di umanità tormentata. È in quel preciso istante, nell’attimo in cui si rivela così scoperto, che si compie il dramma definitivo: una condanna irrevocabile e inappellabile viene sancita. La morte non solo lo sfiora, ma lo possiede, lo reclama come sua proprietà. E il poeta, nella sua vulnerabilità, si ritrova come irretito, catturato senza scampo dalle sue stesse proiezioni, da quelle immagini che lui stesso ha creato e che ora sembrano prendergli vita contro.
La sua immaginazione, quel fertile terreno da cui germinano sogni e incubi indistintamente, lo intrappola. Sogni affastellati, incubi goduriosi e intrisi di un piacere oscuro, che si accumulano fino a soffocarlo. Ed ecco che, come una tragica ironia, il poeta si sente come se non potesse più scrivere, come se le parole, un tempo sue fedeli alleate, lo tradissero; come se non gli fosse più consentito toccare quei corpi adorati, così vivi e odoranti, corpi che hanno animato la sua poesia. Qualsiasi gesto, qualsiasi tentativo di evocare quel contatto perduto sembrerebbe troppo scontato, troppo diretto. Sarebbe una dichiarazione nostalgica troppo semplice, inadatta a un animo ribelle e inquieto come il suo, che si rifiuta di cedere alla banalità del rimpianto.
Eppure, avverte il bisogno urgente di non rimandare, di non dilazionare più quell’icona, quel segno tangibile, quasi tattile, dell’abbandono che lo perseguita. Vuole dare un corpo reale, un correlativo solidissimo e concreto, alla perdita e alla distanza. Cerca di trasformare in immagine quel vuoto che lo attanaglia, quel senso di assenza che lo corrode. È come se il poeta volesse definire un dialogo impossibile, un colloquio con ciò che non c’è più, con l’assenza stessa. Una mancanza che si materializza nella perdita dell’atto d’amore, nell’assenza dell’amato, un’amato che diventa indistinguibile, confuso tra le ripetizioni di uno stesso gesto amoroso consumato con chiunque. E questo dialogo muto, questo parlato ormai senza interlocutore, si infittisce e si consolida nei suoi libri. È lì che il poeta concentra ogni suo sforzo, ponendo al centro del verso il primo, unico e irripetibile segno di una malattia affettiva che attraversa, come una corrente sotterranea, l’intera sua poesia.
Come se fosse preda di una paura sotterranea, quella stessa verità che ha sempre cercato con tanta tenacia e desiderio ora lo spaventa. E allora, invece di affrontarla, egli si dispone a una fuga incessante, un movimento perpetuo che lo tiene in vita solo nell’illusione della recita. Perché è proprio in quel tempo, nel tempo teatrale e finzionale, che trova lo spazio necessario a un’illusoria speranza di salvezza. Lo spazio della rappresentazione è l’unico dove riesce a sopravvivere, a ingannare il dolore con un miraggio.
Nei suoi versi, allora, si percepisce una dolcezza che si potrebbe definire insolita, quasi straniera alla sua voce, ma già intrisa di malinconia. Si legge una sincerità disarmante, una confessione che taglia come un coltello affilato, straziante nella sua autenticità. Con essa si fa strada un desiderio struggente di una realtà che sa irraggiungibile, un’utopia lontana, una chimera che si sposta continuamente dal passato al presente, come un sogno che non si può mai afferrare. E questa tensione temporale, questo sfasamento continuo, diventa un segnale essenziale della sua poetica: un indicatore di come il poeta, nel tentativo di rendere assoluta ogni esperienza, finisce per corroderla, per allontanarla, per relegarla a una distanza incolmabile. E così, ciò che più desidera, ciò che più ama, si dissolve, si perde. Per sempre.
E così essa viene chiamata sulla scena del proprio dramma esattamente come attrice, una figura che incarna rappresentazione e finzione, un’illusione che si confonde con la realtà per farsi vita. Ma la morte, a differenza dell’artificio teatrale, giunge con passo inesorabile e spietato, portando con sé tutta la ferocia della sua autenticità brutale, senza compromessi, senza concessioni. Così il poeta si ritrova a inseguire un’ombra, un’eco di ciò che vorrebbe rappresentare tanto nel vissuto quanto nella poesia, stretto nella morsa di una coazione al presente, spinto da un bisogno quasi ossessivo di agire, di afferrare l’attualità dell’istante, eppure sempre un passo indietro rispetto al corso degli eventi. Perché ciò che egli anela a immortalare è già accaduto, si è già consumato prima ancora che egli abbia potuto prenderne piena coscienza, lasciandolo smarrito. Il poeta, così, non solo perde l’oggetto stesso del suo sguardo e della sua riflessione, ma si vede sottrarre anche il sentimento del dolore, quel nodo emotivo che dovrebbe alimentare la sua ispirazione, privandolo infine della capacità di vivere e raccontare pienamente l’essenza dell’accaduto.
Come osservazione di eventi che non si limitano a essere semplicemente registrati da un testimone attendibile, ma che vengono plasmati e restituiti attraverso una lente poetica intrisa di consapevolezza e artificio, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo, ma lo fanno non tanto come una mera documentazione quanto come un processo creativo che ne attesta, o addirittura ne provoca, l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto. Di fatto, questi versi costringono il tempo stesso a piegarsi, a farsi strumento e palcoscenico per la recita di un destino che si compie inesorabilmente. Il poeta, con la consapevolezza di dover soccombere, non solo osserva ma si immerge, si perde, e anzi è destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi, che diventano specchi deformanti, labirinti di parole dove il suo essere si frantuma e si moltiplica. È un’autocelebrazione caparbia, quasi ossessiva, del proprio vivere all’estremo, come se ogni verso fosse un atto di sfida contro l’inevitabile. Eppure, questo stesso atto di celebrazione sembra essere anche un tentativo di fuga: fuga da un tempo tirannico, fuga dal limite della parola, fuga dall’identità stessa. A ben vedere, però, questa fuga appare appesantita dalla struttura del verso, che non concede movimenti troppo verticali né permette sollevamenti repentini del senso o scarti ritmici significativi. È una poesia che si trattiene, che si carica di una certa gravità fino agli ultimi due libri, dove accade qualcosa di sconvolgente: un’esplosione improvvisa, una rottura della pesantezza, un’accelerazione verso l’imprevedibile. E in quel momento, tutto sembra mutare.
Bellezza, con il suo atteggiamento ambiguo e sfuggente, riesce a eludere qualsiasi tentativo di cristallizzazione del processo amoroso, rifiutando di definire rigidamente la propria omosessualità o di incastonarla in schemi prestabiliti. Si muove, invece, con inquieta determinazione all’interno di un limbo instabile, fragile, ma anche vibrante di un senso di amore profondamente personale. Un amore che, per essere tale, sembra dover restare eternamente sospeso, intriso di potenzialità inespressa, sempre in bilico tra il possibile e l’irrealizzato. Questo stato di perpetua incompiutezza non è casuale, ma funzionale: permette al "personaggio" Bellezza di imporsi sulla "persona" Bellezza, assicurandosi che l’aura poetica e la carica eversiva, tanto lamentosa quanto intensa, possano perpetuamente rinnovarsi, trovando nuovi bersagli, nuovi lettori, nuovi spazi su cui riversarsi.
E così, mentre si abbandona alla contemplazione di se stesso, convinto di aver domato il "mostro" che da sempre lo perseguita, non si accorge che in realtà gli ha ceduto ogni cosa: non solo la propria vita interiore, ma anche quella esteriore, quella recitata con apparente maestria nei versi e nelle pose del suo quotidiano. La sua dedizione si manifesta quasi come un culto, un atto di devozione oscura verso quella "gran malattia" che lo ha colto di sorpresa, l’AIDS, un male che mai avrebbe immaginato di incontrare ma che, alla fine, ha intrecciato il suo destino con quello della sua poesia e della sua esistenza.
In un gioco infinito di specchi riflettenti, il corpo continua a cantare, a sua volta specchio e riflesso, e lo fa con una voce che si sfuma e si sfilaccia, sempre più tenue, quasi fosse un eco distante di sé stesso, un’ombra che si dissolve in un ricordo. Questo corpo, un tempo esuberante e prepotentemente presente, si è trasformato in un oggetto assente, un’evanescenza carica di memoria, un simbolo che esige di essere interpretato. Convinto, esattamente convinto, di poter rivolgersi sempre allo stesso uditorio, Bellezza non si è mai interrogato sul mutamento che aveva attraversato coloro che si trovavano dall’altra parte della scena. Non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai altro, completamente altro, rispetto a quello che aveva salutato i suoi esordi, e che l’eros, un tempo potente e scandaloso, era stato minacciato, contagiato da nuove paure, da incertezze e ossessioni contemporanee. L’eros, piegato e irreggimentato, si era ridotto a un vuoto immaginario collettivo, e non poteva più costituire, com’era stato, la ragione sufficiente di uno scandalo, la miccia che accendeva la domanda di attenzione, l’urlo che bucava il silenzio della consuetudine. L’eros, oggi, non è più scandalo. Lo è stato, forse, un tempo. Ma non adesso. Ora è lo scandalo stesso che si è fatto altro: non basta più evocarlo, richiamarlo, praticarlo. Bisogna viverlo, e viverlo scandalosamente, ma in modo che superi ogni retorica, che bruci fino al limite della sua stessa putrefazione. Eppure, di tutto questo, il Nostro non s’accorse mai davvero. Continuò a vivere l’eros in modo rischioso, certo, in modo estremo, senza freni, ma non arrivò mai a cogliere fino in fondo quanto, proprio in quella sua estrema rischiosità, il mondo che lo circondava avesse smesso di ascoltarlo.
Veloce rifugge da quei corpi, sfuggendo con un’andatura che pare quasi il guizzo di un’ombra, più rapido perfino del tempo stesso della vita che scorre e consuma. Non ama più niente nei corpi, nulla che gli parli di bellezza, di calore o di presenza tangibile, e proprio questa fuga senza sosta sembra condurlo inesorabilmente verso un abisso di disorientamento, dove si perde ancor di più nei labirinti intricati e oscuri dei suoi astrusi angiporti, quei luoghi che esistono a metà tra il reale e l’immaginato. È così che la sostanza stessa del suo pensamento si mostra nella sua vera natura, rivelandosi come una forza inquieta, capace di tramutarsi in un’ossessione senza fine, un moto perpetuo che non conosce riposo. È una declinazione ricchissima, pervasa da una stupefacente varietà di sfumature, ma anche intrisa di un sentimento di stupefazione, quasi un’incapacità di credere alla propria stessa profondità. Questo tema si espande e si insinua con una tale pervasività che induce il sospetto, inquietante e affascinante al tempo stesso, che la corrosione fra l’esperienza concreta del reale e la scrittura che tenta di raccontarlo si sia ormai ridotta al minimo, assottigliata fino all’estremo, fino a rivelare un paradossale dannunzianesimo rovesciato di segno, un’estetica che nega e ribalta la celebrazione sensuale per affondare nel regno del vuoto e del riflesso.
Esattamente così. Tanto nello spaziotempo della gioventù quanto in quello della maturità, luoghi apparentemente distinti ma intimamente collegati da fili invisibili, ciò che può giungere a noi, frettolosi lettori ormai ridotti a una finale e malinconica declinazione dell’ipocrisia – quella stessa che Baudelaire aveva già intuito e ci aveva cucito addosso come una seconda pelle – è soltanto, e disperatamente, ma con quanta consapevolezza del limite?, un messaggio invivibile. Un messaggio che pare emergere da qualche oscura e inaccessibile regione, una regione che può appartenere tanto al mondo fenomenico, col suo groviglio di apparenze, quanto agli abissi insondabili della psiche umana, laddove le certezze si disgregano come nebbia al sole e lasciano spazio a un dubbio che non ha nulla di umano, un dubbio che possiamo chiamare ultraterreno. Questo messaggio, estremo e incomprensibile, si presenta con la stessa radicalità che contraddistingue una sessualità vissuta al massimo grado, portata ai limiti estremi dell’esperienza. Come uno sport esasperato, fatto non solo di dettagli che sembrano insignificanti, ma di posture studiate, di accrocchi improbabili, di gesti feroci come sputi lanciati sui visi, e di tremebondi amplessi che sembrano evocare una danza tra eros e thanatos, tra desiderio e dissoluzione.
Da qualsiasi angolo da cui si osservi, la poesia appare come se fosse in un'incessante e continua fuga, un movimento che non trova mai sosta né tregua, come se il suo stesso essere si strutturasse in un eterno tentativo di allontanamento, di evasione da un destino già segnato, come un fuggiasco che corre verso una meta indefinita, senza mai arrivare. La sua forma, la sua essenza, si modellano e si adagiano su una fuga, un'armonica tensione che ne definisce i contorni, un gioco di intensità e di ritratti evanescenti che trascendono l'ordinario, un movimento continuo che riflette una sorta di dissidio interiore tra ciò che potrebbe essere e ciò che è, tra il desiderio di definire e l’impossibilità di farlo. La poesia, dunque, non è solo un atto di scrittura, ma un gesto continuo di ricerca, di esistenza in bilico tra il tangibile e l'irreale, tra il possibile e l'impossibile, come se ogni parola, ogni verso, fosse un tentativo di sfuggire a una prigionia che non è mai completamente spezzata, ma sempre presente, sempre sul punto di ritornare. È come se, in fondo, la sua stessa esistenza fosse una corsa senza fine, una sorta di fuga da un destino ineluttabile che, tuttavia, si costruisce e si rinforza attraverso ogni passo, attraverso ogni tentativo di evasione.
L’autore sembra essere intrappolato in un cortocircuito emotivo e intellettuale da cui non riesce a liberarsi, un loop di consapevolezza e di azione che non fa altro che perpetuarsi all'infinito. Non c'è spazio per il riposo, per la pausa, né per il respiro: la sua poesia è una prigione di suoni, di significati, di domande senza risposte che si rincorrono in una spirale senza fine. È come se la sua coscienza fosse messa alla prova in ogni momento, costantemente interrogata da una realtà che sfugge, ma che allo stesso tempo lo costringe a confrontarsi con sé stesso, con le proprie debolezze, con le proprie ambizioni. Ogni parola scritta diventa un nuovo nodo da sciogliere, una nuova via da percorrere, eppure, alla fine, ogni via sembra condurre sempre allo stesso punto, a un altro cortocircuito che lo imprigiona. È come se fosse rimasto prigioniero della stessa condizione che lui stesso ha scatenato, una situazione che risuona con una dolorosa e perenne necessità di scrivere e di distruggere allo stesso tempo, come un amante che, pur consapevole della propria solitudine, non riesce a staccarsi dalla passione che lo consuma, un amore che è allo stesso tempo la causa e la fine di ogni sua speranza. La poesia diventa così il luogo dove questa tensione si manifesta più chiaramente, dove il desiderio di essere, di esistere, di lasciare un segno, si scontra con la consapevolezza che ogni segno lasciato è in qualche modo destinato a scomparire, a svanire nel nulla. Ogni verso scritto, dunque, diventa un passo verso il vuoto, un viaggio verso un destino che, per quanto l'autore tenti di sfuggire, non potrà mai essere eluso.
L’Uomo, con la sua solitaria e rumorosa presenza di Poeta, si fa carico di una missione che sembra sfuggire ad ogni controllo, cercando di corrodere l'Infinito, di penetrare l'Ineterno con le sole armi della parola e del pensiero. Questa missione è, tuttavia, destinata a fallire, perché l’infinito che cerca di penetrare non è un'entità che si possa domare o controllare: è, piuttosto, un concetto sfuggente, una realtà che si reinventa in continuazione, un'entità che non accetta di essere definita, che sfida ogni tentativo di controllo. Eppure, nonostante la consapevolezza di questa impossibilità, l'autore continua a lanciarsi in questa impresa, come un cavaliere che combatte contro un drago invisibile, una battaglia che sa già di essere destinata a non avere mai una fine, ma che tuttavia non può smettere di combattere. La sua ricerca diventa quindi un atto di resistenza, una lotta contro la propria impotenza di fronte all’immensità dell’esistenza, un tentativo di sfuggire a una realtà che sfugge ma che, allo stesso tempo, lo costringe a confrontarsi con essa. Questo processo sembra rivolgersi contro di lui stesso, in una sorta di paradosso in cui la stessa azione diventa una prigione, dove la sua voce si perde nel vuoto di una borghesia romana che dorme, indifferente e svogliata, incapace di cogliere la profondità di ciò che egli sta cercando di comunicare. La sua opera, invece, si fa riflesso di quella borghesia ormai sbiadita, testimone e al tempo stesso vittima della sua dissoluzione, di un crollo che si consuma lentamente, ma inesorabilmente, sotto i suoi occhi, un mondo che si disintegra nel silenzio e nell’indifferenza di chi non è più capace di ascoltare. La poesia, dunque, diventa l'ultima e più.
Nelle poesie degli ultimi anni, non emerge solo l’immagine di un vecchio solitario e malatissimo, ma anche quella di un uomo che vive in una condizione di totale e profonda indigence, un’esistenza segnata dalla miseria non solo economica, ma anche spirituale e emotiva. Potremmo dire, più semplicemente, che è un uomo povero, ma questa povertà è qualcosa di molto più complesso e sfaccettato. Non si tratta solo di mancanza di denaro o di beni materiali, ma di una povertà che affonda le radici in una condizione esistenziale, in cui ogni cosa sembra essersi svuotata di significato, ogni sogno e speranza si sono infranti contro una realtà troppo dura e priva di compassione. Questo uomo, già tanto prostrato dalle difficoltà fisiche e morali della vita, è stato messo alla prova da due dolori che lo hanno segnato profondamente, lasciando cicatrici indelebili nel suo cuore e nella sua mente. Il primo di questi dolori è stato la morte del padre, un uomo che aveva ormai raggiunto la veneranda età di ottant'anni e che, con la sua lunga vita, aveva cercato di mantenere un legame con il mondo, con le sue tradizioni e le sue certezze. La sua morte, pur essendo il naturale corso degli eventi, ha segnato una perdita irreparabile, come se il passaggio dalla vita alla morte avesse strappato via una parte di sé, lasciando vuoto e desolazione. Ma c'è un altro dolore, ancora più lacerante e recente, che ha colpito questo uomo in modo diretto, personale e devastante: il suicidio di Amelia Rosselli. La sua morte improvvisa e tragica ha avuto un impatto così forte su di lui, come se quella fine drammatica avesse reso tutto il resto della sua esistenza ancora più insopportabile. Non si trattava solo della perdita di una persona cara, ma di un vero e proprio scossone emotivo, una ferita che ha annientato qualsiasi residuo di speranza o di fiducia nel futuro, facendo crollare ogni certezza e lasciandolo in un buio assoluto. La morte di Rosselli, in qualche modo, ha amplificato e aggravato il suo già fragile stato d’animo, contribuendo a rafforzare la sensazione di impotenza di fronte alla sofferenza, alla morte e alla solitudine.
Nell’ultima fase della sua vita, avrebbe desiderato, con tutto il cuore, il silenzio più profondo, una discrezione che cancellasse ogni traccia del suo passato e, forse, la dolce illusione della dimenticanza, come se tutto ciò che era stato prima non fosse mai accaduto. Avrebbe voluto ritirarsi dal mondo, vivere nell'ombra, lontano dagli occhi curiosi e dalle incessanti domande che non lasciavano tregua. Purtroppo, il destino aveva in serbo per lui un’altra sorte. Non fu così. I giornali, che avrebbero dovuto, in un mondo ideale, rispettare la sua volontà, si scatenarono con una violenza sorprendente, quasi una furia incontenibile, un assalto senza pietà. Come ha avuto modo di dire lui stesso, furono di una crudeltà allucinante, privi di rispetto e senza misura, invadendo la sua vita con una potenza tale da annientare ogni speranza di pace.
L’unico Poeta della sua generazione a essere stato incluso nel celebre Novecento di Gianfranco Contini, così anti–eroe nel suo costante divenire e vittima, al contempo, del suo stesso estetismo esasperato ed esasperante, appare come una figura quasi mitologica, un antenato plausibile e concreto di se stesso, ma al contempo la sua esistenza rimane percorsa da una frattura, uno iato incolmabile, tra il personaggio pubblico, simbolo di una certa condizione esistenziale, e l’autore, che non si arrende mai alla propria condizione, ma si ostina a proseguire, come se volesse forzare la realtà che lo circonda in una sovrapposizione tra due mondi paralleli, quelli dell’arte e della vita. Un’avventura perpetua, insomma, quella di un’esistenza che non si piega mai, ma che nello stesso tempo sembra sempre allontanarsi dal proprio scopo, come se si trovasse a galleggiare sospesa tra la fluidità del vissuto, del quotidiano che non si ferma mai, e la fissità dell’idea del bello eterno, quella forma perfetta, irraggiungibile, che il Poeta continua a inseguire senza mai trovarla. E così, il cammino di questo Poeta è una continua evoluzione, un perpetuo avanzare. Avanti, quindi, sempre, di maschera in maschera, di prova in prova, di ordalia in ordalia, con quella sottile eppure evidente impronta morantiana che lo guida attraverso il tormentato paesaggio della sua esistenza. Poiché, a ben vedere, penniano non fu mai, e ciò emerge chiaramente dal suo stesso percorso. La sola enclave, l’unico rifugio che rimane in questa continua e inesorabile ricerca, sembra essere quella di un’innocenza che si fa animale, che abbandona la ragione per rifugiarsi in una naturalezza primordiale, un rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti, compagni silenziosi di un’esistenza che non ha altre risposte se non quella di abbandonarsi a questa intimità. E forse, nella sua essenza più profonda, questa stessa “gattità” diventa un’allegoria del suo essere, un ritorno alla natura, alla spontaneità di un mondo che non chiede spiegazioni.
Mi scrisse, con una sincerità che mi colpì, che non avrebbe più voluto scrivere versi, proprio a me, che ero ancora all'inizio della mia avventura nella scrittura poetica e stavo appena cominciando a pubblicare i miei primi lavori. Mi raccontò di come sentisse in modo sempre più vivido e angosciato tutta l'assurdità, la inutilità, forse, di dedicarsi alla poesia, un'arte che gli appariva ormai lontana dalle sue necessità. Sembrava che ogni parola fosse diventata per lui inutile e che ogni verso fosse come un peso da cui non riusciva più a liberarsi. Più in là, qualche tempo dopo, mi fece avere un piccolo gesto che mi sorprese: attraverso un nostro amico in comune, mi inviò un suo libretto sui gatti, una raccolta di scritti che era stata tradotta in Spagna. Quello stesso libretto che, sebbene non avesse più nulla a che vedere con la sua poesia, sembrava una testimonianza del suo sforzo di rimanere legato a qualcosa che, in fondo, gli appartenesse ancora. E intanto, io già lavoravo nella redazione della rivista "Poesia" di Crocetti, immerso in un mondo che, seppur in parte così distante da quello di lui, mi dava la speranza di trovare una mia strada nel mare turbolento della letteratura, là dove lui sentiva ormai solo il senso di una resa definitiva.
Narciso immondo, da subito prigioniero del proprio specchio, si trovò inesorabilmente legato a una condizione che lo segnava profondamente, come un marchio che non poteva essere rimosso. Fin dal primo incontro con quella superficie riflettente che rivelava la sua immagine in modo distorto, fu chiaro che non vi sarebbe stato scampo. Lo specchio, luogo in cui tutto si riflette ma mai si risolve, diventa metafora di un'esistenza imprigionata nell'auto-riflessione, incapace di muoversi al di fuori di sé stessa. In un senso profondo, Narciso restò legato a un gioco infinito, un gioco con il destino che si intrecciava inevitabilmente con la morte, come se la sua stessa esistenza fosse condannata a vivere dentro un ciclo senza fine, dove ogni movimento, ogni passo, era predestinato a portarlo più vicino alla sua rovina. Eppure, non si trattava di una rovina passiva, di una condanna subita senza resistenza; era una rovina che lui stesso si cercava, una partita che avrebbe dovuto giocare per comprendere fino in fondo il senso del suo essere, della sua esistenza. Una partita con le regole imposte dal fato e dalla morte, ma anche con le regole che lui stesso si era dato, credendo di poterle piegare a proprio favore.
Questa lotta, però, non si limitava a un confronto diretto con il destino. Essa si traduceva nell’anamorfosi di una realtà che si svelava in maniera distorta, difficile da afferrare, come una visione che non si lascia mai interamente comprendere. L’anamorfosi è l'immagine deformata che appare solo da un punto di vista particolare, e Narciso stesso diventa questo gioco di forme e visioni che sfuggono alla comprensione totale. La sua partita con il destino si svolgeva su un piano simbolico, intellettuale e poetico, dove ogni gesto, ogni pensiero, sembrava cercare un senso che non si trovava mai. La sua invettiva contro la società che lo circondava si faceva dunque ancor più complessa, perché non era un attacco diretto, ma un tentativo di evasione, di ricerca di qualcosa che non fosse definito dal mondo che gli stava attorno. La sua invettiva, pur nella sua durezza, era in realtà una risposta a un mondo che sentiva come ingiusto, corrotto, privo di autenticità. Ma, al contempo, questa invettiva diventava il segno della sua alienazione, del suo distacco da una realtà che, pur detestata, non riusciva mai a superare del tutto. La sua ribellione, quindi, non poteva che essere ambigua, perché non si trattava di un vero riscatto ma di un continuo tentativo di liberazione che, paradossalmente, lo teneva ancora più legato a ciò che cercava di fuggire.
Il tentativo di riscatto sociale che accompagnava la sua ricerca di libertà esprimeva in modo chiaro la sua volontà di emanciparsi da una condizione di subordinazione a un sistema che gli appariva opprimente. In questo senso, Narciso cercava di affermare la propria individualità, il proprio diritto all'autodeterminazione, come se solo attraverso questa ribellione avrebbe potuto raggiungere una forma di autenticità. Ma, in fondo, la sua lotta era anche il tentativo di superare i limiti imposti dalla società che gli stava intorno, in particolare dalla piccola borghesia che considerava la sua esistenza limitata, costretta entro confini ristretti e miseri. La grettezza della provincia, con i suoi valori chiusi e stagnanti, diventava il bersaglio di un’aspirazione a qualcosa di più, qualcosa che fosse realmente nuovo, autentico, libero. Questo impulso a liberarsi dalle costrizioni sociali non era, tuttavia, senza contraddizioni. La ricerca di una libertà piena, di un’affermazione radicale dell’eros e della passione, si scontrava costantemente con le stesse strutture che cercava di abbattere. La piccola borghesia che disprezzava continuava a essere il suo ambiente di appartenenza, l'orizzonte in cui si muoveva e in cui, forse senza rendersene conto, si rifletteva ogni sua aspirazione.
In effetti, il poeta che combatteva contro la società provinciale restava, alla fine, intrappolato in essa, incapace di liberarsi completamente. La sua protesta, pur sembrando un atto di emancipazione, non faceva altro che rinforzare i legami con quella stessa realtà che tanto disprezzava. La sua condanna, quindi, non era quella di un semplice spettatore della propria sorte, ma la consapevolezza di essere sia il carnefice che la vittima della propria esistenza. Il poeta non riusciva a fuggire dal suo contesto, e nemmeno a comprenderlo completamente. La sua ribellione, per quanto forte, non lo rendeva mai davvero indipendente da quella provincia, da quella piccola borghesia che sembrava la sua eterna prigione. Questo paradosso, che lo vedeva sia figlio che nemico di quella realtà, ne evidenziava la tragica ambiguità. Il poeta, che cercava di trascendere i limiti della società che lo circondava, non si rendeva conto che la sua stessa esistenza ne era la più chiara manifestazione. Anzi, l’inadeguatezza del suo tentativo di emancipazione finiva per diventare il segno della sua impossibilità di andare oltre, di andare veramente "oltre" a quella che era la sua realtà.
Molto oltre, infatti, Narciso si trovava, ma non come qualcuno che avesse superato realmente il confine della sua esistenza sociale. Era più una questione di distanza psicologica, di una tensione che lo spingeva verso l’infinito, ma che non riusciva a sfuggire al concreto peso delle sue origini. La sua condizione esistenziale restava quella di una continua lotta, mai del tutto vinta, un ciclo che non si interrompeva mai. La sua ribellione, per quanto intensa e disperata, rimaneva dunque sempre incompleta, senza la capacità di liberarsi veramente, senza un’uscita chiara e definitiva. In questo modo, Narciso continuava a rimanere prigioniero non solo dello specchio, ma anche delle contraddizioni che la sua stessa ricerca di libertà e riscatto generava. Un essere che, pur cercando di affermarsi come unico, rimaneva incastrato in un gioco di riflessi e immagini, incapace di trovarvi una via d'uscita.
Di questo incessante teatro dell’eros, che non conosce tregua e che si ripete come un rito eterno, un palcoscenico che si rinnova senza sosta e senza possibilità di riposo, restano sulla scena piccoli oggetti, frammenti sparsi di un’esperienza ormai lontana, fragili icone che sembrano non avere più alcun peso, ma che continuano a testimoniare la presenza di un evento ormai irrecuperabile, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, come se la sua conclusione fosse intrinseca al suo inizio, come se il passato fosse sempre in anticipo rispetto al presente, pronto a far posto a un altro incontro che, come un gioco infinito, segna la fine di quello precedente, in un ciclo continuo che non conosce mai un vero termine. Ogni incontro si fa memoria di un’altra esperienza che non si conclude mai, ma si trascina, come un’onda che si infrange su una riva senza mai riuscire a spegnersi del tutto, pronta a ritornare per risvegliarsi in una forma nuova. Questo incessante flusso di emozioni non si ferma mai, ma è destinato a perdersi nell’inesausto vagare del desiderio, in un cammino che non porta mai a una fine definitiva, ma solo a nuovi inizi, a nuovi incontri, a nuove scoperte, come se fosse l’essenza stessa dell’esistenza a risiedere in questo continuo cambiamento. Ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo sono come un battito d’ali che accarezza l’anima, facendo vibrare le corde più intime del cuore e della mente, alimentando quel sentimento del battere del cuore, quel suono che accompagna e segna il tempo della ricerca del sesso infinito e sconosciuto, una dimensione che, pur essendo la sola capace di portare un confronto serrato con se stessi, rimane allo stesso tempo incompleta, irrisolta, perché non è mai la realizzazione piena di ciò che si desidera, ma una perpetua ricerca, un inseguire qualcosa che non è mai veramente raggiungibile. Il sesso, in questa ricerca, diventa quindi il teatro di una continua tensione, dove il desiderio si fa carne, ma non può mai essere soddisfatto, poiché ogni incontro è destinato a lasciare spazio a un altro, ogni volto è solo il riflesso di un altro, ogni abbraccio è solo l’anticipo di una nuova distanza. Eppure, in questo gioco di rinascite e morti, di nuovi inizi e di epiloghi che non arrivano mai, si cela un amore che, pur temendo ogni volta il suo compiersi, non può fare a meno di bramarlo, nella sua forma più pura e al contempo più sfuggente, una forma che non si lascia mai afferrare, che non si realizza mai nella sua completezza, ma che continua a spingere, a far vivere chi lo cerca, a illuminare anche i momenti più oscuri, come una stella lontana che appare e scompare in un cielo senza fine. In questa ricerca, ogni attimo diventa un’esplosione di emozioni contraddittorie, di desideri che si intrecciano e si scontrano, di paure e speranze che si mescolano in un unico flusso incandescente. Si cerca il piacere, ma si teme il suo raggiungimento, si desidera la vicinanza, ma si teme l’abbandono, si cerca l’amore, ma lo si teme quando sembra vicino. L’amore diventa quindi la tensione stessa, il desiderio che non si soddisfa mai, ma che è anche la sua stessa ragione di esistere, l’incessante movimento che alimenta il nostro essere, la forza che ci fa cercare, che ci fa bramare, che ci fa vivere in un continuo equilibrio precario tra il possibile e l’impossibile.
C’era l’ammissione implicita di una sovrapposizione, quasi indistinguibile e impossibile da decifrare chiaramente, tra io, ruolo e personaggio, una confusione che si manifestava costantemente in ogni frammento del vissuto, un intreccio che si poteva analizzare e registrare innumerevoli volte, ogni volta sotto una luce diversa, senza mai giungere a una soluzione definitiva. Questo fenomeno, questa sovrapposizione apparentemente senza fine, si rivelava soprattutto nel crudele e doloroso antagonismo che emergeva tra i corpi descritti nei testi, corpi che sembravano in qualche modo lacerati, deformati o distorti dalla narrazione imposta dall’autore, e quelli che erano invece i corpi realmente vissuti, quelli di carne e ossa, quotidianamente frequentati nel mondo esterno e nel contatto con la realtà. Era come se non ci fosse mai una vera separazione tra ciò che veniva rappresentato attraverso le parole e ciò che invece era tangibile, vissuto sulla propria pelle. In questa continua dialettica tra l’immagine ideale e la realtà cruda e vissuta, tra l’essere e l’apparire, l’ambiguità cresceva in maniera esponenziale, non lasciando mai spazio per una vera definizione, ma anzi alimentando un conflitto interno senza fine, dove ogni tentativo di separare o chiarire le due dimensioni veniva puntualmente smentito dalla stessa esistenza dei corpi in gioco, che non potevano essere ricondotti a una sola interpretazione. Ogni descrizione, ogni frequente incontro tra le parole e le esperienze concrete, sembrava sfociare in una continua lotta di definizione, senza mai poter arrivare a una sintesi pacifica o a una risoluzione chiara, come se il conflitto stesso fosse l’unico vero punto di contatto tra le diverse dimensioni dell’esistenza umana, sempre in bilico tra ciò che è reale e ciò che è solo rappresentazione, tra il vissuto e l’immaginato.
La traduzione della rappresentazione in scrittura poetica si manifesta, per lo più, come un atto inevitabile, inesorabile e quasi predestinato, che scaturisce dal desiderio di custodire un messaggio che sembra sfuggire ai confini della comprensione e dell’esperienza umana. Un messaggio che, a volte, diventa il filo conduttore, invisibile eppure potentissimo, che condiziona e plasma l’intero tracciato dell’esistenza di chiunque, mettendo in discussione ogni sua certezza, ogni suo desiderio e ogni suo obiettivo. Questo messaggio è la fine, la chiusura definitiva di qualcosa che, per un momento, è sembrato eterno, inafferrabile. Parliamo della fine dell’amore, quel momento che segna la conclusione di un ciclo, il momento in cui l’amore, che sembrava immutabile e indistruttibile, si trasforma in una mera ombra del suo passato, in un ricordo che diventa sempre più lontano, sfocato, quasi irriconoscibile. È la fine dell’amore dopo l’amore, una fine che si fa strada lentamente, come un’impronta che rimane impressa nel cuore, incapace di essere cancellata ma allo stesso tempo impossibile da rivivere nella sua pienezza. È anche la fine dell’innamoramento, quella fase effimera e incantevole che arriva dopo il sesso, un periodo di intimità in cui si è coinvolti in un vortice di emozioni e sensazioni, per poi scoprire che la magia svanisce e lascia il posto a una realtà più cruda, più disillusa. La fine dell’innamoramento dopo il sesso è un passaggio che molti non vogliono affrontare, poiché segna la perdita di quella speranza irrazionale che ci fa credere che l’unione fisica e affettiva possa essere sufficiente a colmare ogni vuoto. Ed è proprio in quel momento che cala il sipario. Non si tratta di un sipario che segna la fine di una performance, per poi lasciare il posto a una nuova, a un’altra replica, ma è un sipario che si abbassa definitivamente, e non ci si aspetta che ciò che segue sia una continuazione di ciò che è stato, ma un qualcosa di diverso. In realtà, ciò che segue è una ripetizione, un eterno ritorno che non offre nulla di nuovo se non la sofferenza di dover rivivere un ciclo che sembra essere imposto dall’esterno, una ripetizione coatta che non lascia via di scampo. Questo spettacolo che si vorrebbe nuovo, che si spera possa offrire una nuova opportunità di redenzione, si compie, invece, nel dolore, nella fatica di accettare che il nuovo non arriva mai, che il cambiamento è solo un’illusione che si dissolve appena cerchiamo di afferrarlo. È la dolorosa consapevolezza che siamo tutti, in qualche modo, soggetti a questo meccanismo di ripetizione, che ci imprigiona in un circolo vizioso dal quale non possiamo fuggire, un circolo che ci rende uguali a noi stessi, che sia da attori sul palcoscenico della vita o da spettatori impotenti e disillusi. Nessuno è escluso da questa legge, nessuno può sfuggire al fato che sembra predestinato. E così, quella che dovrebbe essere l’espansione della nostra vita, la sua apertura verso nuove esperienze, si trasforma in una costrizione. Il nostro spazio vitale, che un tempo sembrava senza confini, inizia a restringersi, a contrarsi, fino a diventare un piccolo angolo dove non c’è più spazio per il respiro, dove l’aria diventa pesante e difficilmente respirabile. La città, un tempo viva e vibrante, ricca di stimoli e di possibilità, si riduce a una stanza chiusa, claustrofobica, in cui non c’è nulla da fare se non confrontarsi con se stessi, con le proprie paure, con le proprie insoddisfazioni. La stanza, a sua volta, si riduce al letto, un luogo che dovrebbe essere di riposo, di rifugio, ma che invece diventa un campo di battaglia interiore, dove si combattono le proprie contraddizioni, dove si cercano risposte che non arrivano mai. È un luogo sfatto, desolato, in cui l’individuo si ritrova a confrontarsi con il proprio io più profondo, con i suoi desideri e le sue frustrazioni, ma senza riuscire a trovare alcuna soluzione. E in questo luogo, non è più concesso sottrarsi alle proprie contraddizioni, ai propri antagonismi. Non c’è più spazio per l’illusione di poter fuggire, di poter nascondere ciò che non si vuole affrontare. Ogni angolo della propria mente sembra essere invaso da ciò che si è sempre cercato di evitare, da quei conflitti interiori che, ora, non si possono più ignorare. Infine, la meravigliosa pietrificazione di ogni sentimento, quella che sembra essere una liberazione, si rivela, invece, un altro aspetto della stessa prigione. Ogni atto di sesso, che potrebbe apparire come un gesto di liberazione, diventa in realtà un atto fine a se stesso, un gesto che non porta a nulla, se non a un’altra conferma del vuoto che si prova dentro. Il sesso, che dovrebbe essere l’espressione più alta di unione e di passione, si riduce a un atto meccanico, privo di significato, che non è in grado di sanare il dolore o di colmare il vuoto. In questo modo, l’individuo si trova a vivere una sorta di pietrificazione emotiva, un blocco che impedisce la crescita, che impedisce il cambiamento. La liberazione promessa, quella che si spera di ottenere attraverso l’atto fisico, si rivela una delusione, un miraggio che svanisce non appena si cerca di afferrarlo. La ripetizione, l’immobilità, la stasi diventano le uniche costanti in un mondo che sembra sempre più privo di significato.
Ah, non amare! Non essere riamati! La scrittura, davvero, si offre come un movimento, una spinta, un espediente che diventa una sorta di rifugio, un modo per distogliere lo sguardo da quel tormento che scaturisce dall'amore non corrisposto. La scrittura come un alibi, un modo per non affrontare il peso di quel desiderio che resta inesprimibile, di quella passione che non trova risposta, come se fosse una valvola di sfogo per una sofferenza che non può essere condivisa, un’illusione di consapevolezza che però non riesce a placare il bisogno di affetto. È, per certi versi, un tentativo di nascondimento: nascondere non solo il dolore, ma anche quella vulnerabilità che scaturisce dall’essere esposti, dal farsi vedere per quello che si è, con le proprie necessità, le proprie paure, le proprie debolezze. Eppure, questa scrittura che tenta di nascondere non fa altro che rivelare l'assenza, l'incompletezza, la solitudine che si celano dietro ogni parola. È quasi come se la scrittura si proponesse come un modo per dire ciò che non può essere detto in altro modo, ma senza mai riuscire davvero a soddisfare il bisogno di essere compresi, di essere amati. Ed è in questo contrasto tra desiderio di comunicazione e impossibilità di farlo che risiede la sua bellezza, una bellezza che è, al contempo, un atto di resistenza e di resa. E nonostante tutto, nonostante l'amante, nel suo gesto di generosità e di affetto, abbia consegnato all'amato un dono simbolico così profondo e carico di significato, come la chiave della nuova casa, quella che rappresenta una promessa di futuro insieme, una scelta di vita condivisa, una costruzione di un mondo comune in cui l'amore possa crescere, nonostante quel dono, apparentemente così concreto e tangibile, resti limitato nel suo valore simbolico, destinato a rimanere solo nella sfera della rappresentazione, un atto che non si traduce mai nella realtà di un incontro, di una vita vissuta insieme. La chiave, pur essendo il simbolo di una disponibilità concreta, resta ancorata al piano del desiderio, della promessa non mantenuta, e quindi non può mai superare il confine della mera finzione, dell'idea. È un gesto che non ha il potere di fermare il tempo, di fermare il corso delle cose, di rendere duraturi i legami. Eppure, il corpo amato, che inizialmente sembrava avvolto dalla promessa di un amore eterno, se ne va, svanisce nell’aria, lasciando chi ama a fare i conti con il vuoto che resta, con quella distanza incolmabile che si crea ogni volta che un amore non è ricambiato. E la solitudine che segue è la solitudine del cuore spezzato, ma anche la solitudine di chi si trova di fronte a una verità ineluttabile: l’amore, per quanto sia sincero, per quanto possa sembrare eterno, è destinato a infrangersi contro le realtà della vita, contro le differenze, le incomprensioni, le contraddizioni che rendono impossibile la condivisione totale di un destino. Così, chi resta, si ritrova intrappolato in una tensione che non è solo fisica, ma anche e soprattutto spirituale, esistenziale. Una tensione che si fa urgente, come se ogni momento fosse un richiamo, un bisogno di riempire quel vuoto che ora sembra inghiottire ogni cosa. La tensione diventa religiosa, non tanto perché ci sia una vera e propria fede in un'entità superiore, ma perché il cuore è in perenne ricerca di qualcosa che vada oltre, di un senso che possa dare un significato a una sofferenza che sembra non avere fine. Un tremore che non è solo un movimento involontario del corpo, ma che si traduce in un'esperienza profonda, quasi trascendentale, come se il corpo stesso diventasse il mezzo attraverso cui cercare un aldilà, una realtà oltre questa, in cui l’amore non sia solo un desiderio infranto, ma una promessa che si realizza. Eppure, questo aldilà resta inesistente, una promessa vuota, un miraggio che si allontana sempre più mentre chi resta, con il cuore in gola, continua a tremare, sospeso in una dimensione che non è né qui né altrove, ma che è pur sempre un aldilà senza nulla, senza un appiglio, senza una speranza concreta. Un tremore che si fa simbolo di una ricerca infinita, di un desiderio che non trova mai soddisfazione, di un'anima che non riesce a liberarsi da ciò che non è stato.
È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il Poeta non solo esibisce le sue ossessioni, ma le declina in una continua e febbrile ricerca, cercando di penetrarle fino a confonderle con la sua stessa essenza. Le sue ossessioni, che si intrecciano con il suo respiro, le sue movenze, il battito del cuore, non sono mai semplici intuizioni di un’anima tormentata, ma diventano veri e propri orizzonti di senso, spazi in cui il Poeta tenta di costruire una realtà parallela che sembra sfuggire in continuazione. Ogni suo gesto, ogni parola che pronuncia, ogni verso che scrive è una dichiarazione di intenti, una resa al corpo che, come un prigioniero, non può fare a meno di rispondere a quelle forze interiori che lo spingono a manifestarsi, anche se questo significa andare incontro a un inesorabile fallimento. La sua presenza, così tenacemente pervasiva e inquietante, si spinge ben oltre i confini di ogni pagina scritta, attraversa il libro come una ferita aperta, con una violenza che non chiede scusa, ma anzi si fa strada proprio nel momento in cui si credeva di poterla fermare. Questa presenza non costituisce un semplice tratto dominante e immutabile che si ripete da un’opera all’altra, ma diviene la vera e propria sostanza che permea l’intero percorso creativo del Poeta. La sua è una ricerca senza speranza, una ricerca destinata inevitabilmente al fallimento, ma non per questo meno necessaria o meno autentica. Il Poeta non si rassegna alla consapevolezza che la sua ricerca non porterà a una risposta definitiva, ma anzi, sa che la domanda stessa, la continua tensione verso una verità impossibile, è ciò che lo rende vivo. In ogni gesto, in ogni parola, è l’inesorabile incontro con l’abisso di ciò che non può essere detto, ma che continua a farsi spazio nel suo corpo, a costringerlo ad agire e a scrivere.
La condizione “impoetica” pasoliniana, che si allontana dai canoni classici e dalle aspettative di una poesia che ha il compito di elevare e sublimare la realtà, diventa per il Poeta il terreno stesso di una possibile rivoluzione estetica. Il corpo, nella sua fragilità, nel suo essere “impoetico” per antonomasia, diventa il mezzo attraverso cui il Poeta scardina e rimette in discussione ogni convinzione pregressa. La sua non è una poesia che cerca il bello a tutti i costi, ma una poesia che parte dalla bruttezza, dalla miseria e dall’incompiutezza della realtà, per cercare in essa una verità più profonda. E questa verità non è mai facile da afferrare, non è mai un tesoro da conquistare, ma è piuttosto una sorta di illuminazione fugace che si manifesta nei momenti più inattesi. Si fa strada, come una luce che, pur essendo flebile e lontana, è capace di illuminare per un istante il buio che ci circonda. Il Poeta, come il filosofo o il pittore, deve percorrere una strada che sembra priva di speranza, ma che al contempo lo obbliga a sfidare il proprio corpo e la propria mente, cercando di restituire attraverso la parola una dimensione che non ha più niente di metafisico. Egli si confronta con il suo stesso corpo, che diventa un campo di battaglia, un terreno in cui si gioca la lotta tra il desiderio di affermarsi e l’impossibilità di farlo. Non c’è salvezza per il Poeta, se non quella di continuare a cercare, di non arrendersi mai di fronte all’evidente fallimento della sua impresa.
Il nesso barocco tra vita e sogno, che ha caratterizzato gran parte della tradizione letteraria e che, soprattutto, si è incarnato nell’opera di autori come il Belli o l’Ortese, è oggi messo in crisi dal Poeta. La Bellezza, come principio che ha guidato il pensiero e la poesia occidentale, è ormai divenuta un concetto che il Poeta non riesce più a sostenere, proprio perché consapevole che la vita stessa è troppo complessa, troppo disordinata, troppo lontana da qualsiasi idea di perfezione estetica. La Bellezza, intesa come un assoluto irraggiungibile, si è trasformata in un’illusione, e il Poeta, da figlio di questa tradizione, ne rifiuta la pretesa di fondare un’unica e stabile visione della realtà. Come Bellezza stesso, che nel ripresentare l’idea dell’iguanuccia cara ha reso omaggio a una visione storicizzata, ma mai scontata, della bellezza, il Poeta si confronta con il sogno e la vita non più come due realtà separate, ma come due dimensioni che, pur rimanendo distanti, sono in continuo dialogo. Il sogno non è più il regno dell’evasione, ma quello della consapevolezza, della verità che sfugge, ma che si mostra in modo parziale e frammentato. In questo contesto, la dimensione drammaturgica diventa il luogo in cui si mette in scena una verità possibile, che, pur rimanendo dispersa nei mille rivoli della quotidianità, non smette di esistere. La drammaticità della vita, il suo continuo conflitto, diventa la chiave per aprire la porta a una verità che, pur se nascosta, è capace di rivelarsi in ogni attimo, in ogni emozione, in ogni gesto che segna il nostro passaggio nel mondo. La verità non è mai un elemento staccato dal corpo, ma si manifesta proprio nella sua finitezza, nel suo fallimento continuo, nell’incapacità di possederla una volta per tutte. Eppure, nonostante tutto, il Poeta continua a cercarla, consapevole che, anche se non la troverà mai, il suo sforzo stesso è ciò che rende la sua ricerca degna di essere vissuta.
È uno scontro impari, un confronto arduo e quasi disperato, con il vuoto silenzioso che lo circonda, una solitudine profonda che sembra impossibile da colmare. Lo so, ne sono consapevole, ma l'energia che proviene dalla dissipazione, una forza che mi attraversa, mi costringe comunque a mantenere un residuo di titanismo, una resistenza che non si piega facilmente, un minimo di energia rimasta, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, per lui, un riscatto che rimane però, per ora, confinato all'ambito del collettivo. È una lotta senza speranza ma, al contempo, una lotta che non si può evitare. Così, se dovessi spiegare meglio, e in maniera più chiara, lo spostamento retorico di un mio sentimento che a prima vista potrebbe sembrare incomprensibile, irragionevole, soprattutto per chi poco mi conosce, in effetti non è altro che una necessità profonda, un impulso che non posso reprimere. «Senza rancore», questa è la formula che continuo a usare per richiamare l'attenzione su di lui, su questo Poeta che sembra essere stato dimenticato dal grande pubblico, come se fosse una figura messa ai margini della memoria collettiva, quasi invisibile. Eppure, nonostante l’oblio, continuo a farlo, a tramutare quella richiesta di attenzione nel richiamo di un'assenza, di un abbandono che non solo è in atto, ma si ripete ciclicamente, senza sosta, ogni volta che mi avvicino a una sua parola, a un suo verso. Ogni rilettura di ogni suo testo diventa così una sorta di rito, un atto che si rinnova continuamente, un evento che è stato già vissuto e, al tempo stesso, qualcosa che esiste ancora come possibilità, come potenziale, un futuro sospeso che non smette di chiedere di essere riconosciuto, di essere ascoltato, nonostante tutto.
Certo! Ecco la versione triplicata della lunghezza del tuo testo:
Ma, nonostante il mio movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale, quello che si sviluppa in orizzontale, quasi come se fossi attratto dal quieto rifugio di una superficie piana, piuttosto che quello dello scandaglio profondo e incessante, che scruta, indaga e tenta di penetrare nei misteri dell'animo e della realtà, in un'incessante altalena di simulazione e dissimulazione, dove il gioco delle apparenze sembra prevalere sulla verità, nessuna prospettiva sembra essere in grado di incorniciarlo, di fissarlo e di comprenderlo in tutta la sua complessità, la sua fluidità, la sua continua evasione da ogni definizione rigida e univoca. Ogni tentativo di delimitazione risulta vano, perché inevitabilmente qualcosa, sempre qualcosa, si sottrarrà, come accade alla visuale quando ci si avvicina a una curva inaspettata, in procinto di essere percorsa, come un angolo che si rivela improvvisamente davanti agli occhi, una svolta inattesa, che trasforma tutto ciò che pensavamo di sapere in un incognita. In ogni caso, sarà qualcosa di sorprendente, qualcosa che non avremmo mai previsto, come se il destino, sempre imprevedibile, ci tendesse un tranello. Come una voluta barocca che si sviluppa in una spirale complessa, ma affascinante, la Bellezza mi sfuggirà sempre, sempre oltre il mio controllo, la mia capacità di possederla o anche solo di comprenderla fino in fondo. Giacché, come si sa, a voi stessi, che pure siete una parte di questo mistero in continuo movimento, sta sfuggendo, ed è proprio questo a costituire la vostra essenza, il vostro essere più profondo e vero.
Ebbene, a rileggere queste parole, ci si rende conto che il campo che viene disegnato dalla narrazione non è delimitato semplicemente dalla realtà da un lato e dalla finzione dall’altro. Questa dicotomia, che apparirebbe all’apparenza sufficiente per delineare un confine chiaro, in realtà semplificherebbe non solo il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, ma anche la stessa dinamica complessa e vivace dell’officina di Bellezza, quel luogo immaginario dove la creazione si fa strumento di visione e di trasformazione. Il confine, infatti, non è così netto, perché esso si intreccia con il modo in cui la realtà quotidiana viene inevitabilmente filtrata attraverso l’esperienza, un processo che precede e rende possibile la scrittura stessa, una realtà che si fa narrazione attraverso il vissuto, quell’insieme di emozioni, ricordi, e riflessioni che costituiscono il nostro mondo interiore, un mondo che, per definizione, non è mai completamente oggettivo o slegato dal punto di vista individuale. E così, il vero confine che definisce questo spazio letterario non è solo quello tra il reale e il fittizio, ma anche quello che separa il mondo esterno dal nostro modo di interpretarlo e di viverlo. La scrittura, in questo caso, non è soltanto un mezzo di rappresentazione della realtà, ma diventa anche una lente attraverso cui il soggetto scrivente prova a interpretare e decifrare quel che lo circonda, un mondo che spesso sfugge alla comprensione immediata e che trova nella narrazione il suo tentativo di definizione. Ogni parola, ogni frase, non è mai neutra, ma si carica di un significato che cambia a seconda della posizione dell’autore, delle sue esperienze, della sua psicologia, della sua storia personale. Così, ciò che sembra essere realtà non è che una costruzione complessa, continuamente filtrata e ricostruita dall’esperienza soggettiva, che a sua volta è influenzata da mille variabili, sociali, storiche, culturali. Ogni lettore che si avvicina a questo testo, quindi, non legge la stessa storia, ma una sua versione, modellata dalla propria esperienza, dai propri desideri, dalle proprie emozioni e convinzioni. Questo significa che la realtà e la finzione non sono mai davvero separabili, ma si mescolano costantemente in un gioco continuo, un dialogo che arricchisce entrambi i mondi e che dà vita a una dimensione nuova, quella della letteratura, in cui il vero e il falso si intrecciano senza mai essere completamente distinti. Non è un caso che la letteratura stessa si faccia specchio del mondo, ma anche spazio di invenzione e trasformazione, dove le leggi della realtà possono essere infrante, piegate, modificate in base ai desideri di chi scrive, e anche di chi legge. La finzione, in questo contesto, non è mai un semplice inganno, ma un processo che ci aiuta a comprendere meglio la realtà, a interrogarla, a scoprire le sue contraddizioni e le sue potenzialità nascoste.
Infine, a chiudere il suo spazio letterario, tanto affascinante quanto ombroso e asfittico, c’è la proiezione dell’io lirico, che si erge come protagonista di un teatro della passione erotica, una passione che non solo attraversa la sua carne e il suo spirito, ma si fa anche simbolo di una trasgressione radicale, capace di spezzare e oltrepassare i rigidi schemi sociali precostituiti, con la forza di una rottura che, pur nella sua intensità e violenza, rimanda alla ricerca di una libertà e di un’autenticità che si pongono in opposizione a ogni forma di conformismo e di assoggettamento. L’io lirico, in questa prospettiva, diventa un protagonista che si distingue per la sua forza interiore, per la sua capacità di resistere alle imposizioni esterne, alle norme che la società tenta di imporre come verità assolute, ma anche per la sua vulnerabilità, per il suo continuo oscillare tra desiderio e paura, tra l’urgenza di affermarsi e la consapevolezza della propria fragilità. È una figura che non si accontenta di vivere secondo le regole prestabilite, ma che cerca costantemente di superarle, di mettere in discussione l’autorità delle convenzioni, delle aspettative sociali, e di cercare una forma di espressione che sia completamente propria, libera da ogni condizionamento esterno. La passione erotica, in questo contesto, non è semplicemente un tema fisico o sessuale, ma diventa il simbolo di una lotta interiore, di una tensione che spinge l’individuo a ricercare la verità del proprio desiderio, a scoprire ciò che si cela dietro le apparenze, a infrangere le barriere che la società erige per definire l’accettabile e l’inaccettabile. La trasgressione, allora, non è solo un atto di ribellione esteriore, ma anche un movimento profondo che coinvolge l’anima, il corpo e la mente, un viaggio verso la conoscenza di sé e della propria autenticità. La rottura degli schemi sociali precostituiti diventa, così, un atto di liberazione, di affermazione della propria individualità e della propria visione del mondo, che si oppone a un conformismo che, seppur apparentemente rassicurante, è in realtà oppressivo e limitante. Questo spazio letterario si fa quindi terreno di sperimentazione, di scoperta, di rivelazione, dove la realtà e la finzione si incontrano in un gioco complesso che invita il lettore a riflettere sulle proprie convinzioni, sui propri limiti, e sulla possibilità di superare le convenzioni sociali per vivere una vita più autentica e piena.
Ma si sa che il linguaggio della poesia, con la sua straordinaria versatilità e profondità, possiede un potere unico nel suo genere, una capacità infinita di adattarsi, di mutare forma e di evolversi per rispondere a tutte le soluzioni che la mente umana può concepire. Esso può, infatti, a volte, essere il veicolo di tutte le esperienze, di tutte le emozioni e di tutte le situazioni, anche quelle più dolorose e angoscianti. È proprio in questo linguaggio che si riflette la complessità dell'animo umano, la sua capacità straordinaria di tradurre in parole anche i drammi più oscuri, quelli che sembrano sfuggire a ogni tipo di comunicazione razionale. La poesia, in questo senso, diventa uno spazio protetto, dove il poeta può manifestare la propria sofferenza senza paura di essere giudicato, un luogo dove il dolore si trasforma in una forma di espressione che, pur nel suo struggimento, riesce a dar vita a una bellezza che è, per così dire, più legata all'autenticità dell'esperienza umana che all’astrazione teorica. Il poeta, infatti, si trova ormai travolto e consumato da questa malattia terribile che è l’Aids, un male che, oltre a devastare il corpo, porta con sé una condanna psicologica, un peso enorme che si traduce nella perdita di sé, nel dissolvimento del proprio essere. L’Aids diventa così una metafora potente, una sorta di abisso che risucchia ogni speranza di salvezza, e il poeta si trova intrappolato in questa trappola spietata. Una malattia che non solo lo destabilizza fisicamente, ma lo condanna anche a un destino di silenzio, a una sofferenza che deve essere vissuta in solitudine, lontano da occhi indiscreti e da giudizi impietosi. Il poeta, infatti, è costretto a vivere questa condizione come una vergogna, un qualcosa da nascondere, da tenere nell’ombra, cercando di proteggere la sua intimità e la sua dignità da un mondo che spesso non è in grado di accogliere il dolore altrui con quella compassione che sarebbe necessaria. La società, infatti, spesso si rifiuta di guardare in faccia la sofferenza, preferendo voltarsi dall'altra parte piuttosto che affrontare il proprio disagio. È in questo contesto che si inserisce l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza, che si impone con una forza tanto delicata quanto potente, quasi una necessità estetica che non può fare a meno di essere vissuta in modo visivo piuttosto che concettuale. La sua scrittura è come un quadro, dove le immagini, le sensazioni, i colori della sofferenza e della speranza si mescolano in un gioco incessante, ma sempre con un'attenzione alla realtà tangibile, alla materialità di ciò che è vissuto, piuttosto che a un'astrazione che potrebbe allontanarlo dalla verità della sua esperienza. In questo modo, la poesia non diventa un mero esercizio intellettuale, ma un atto di testimonianza che ha la forza di resistere alla banalità, di andare oltre la superficialità delle parole, di entrare nel cuore della condizione umana, senza cedere al rischio della retorica. La scrittura di Bellezza, pur non riuscendo a sciogliere i propri nodi più complessi, pur restando sospesa in un equilibrio precario, riesce comunque a rendere tangibile quella tensione irrisolta, quella sofferenza che, pur rimanendo nella sua forma incompleta e fragile, riesce a comunicare qualcosa di profondamente vero. La sua scrittura è come una resistenza, un atto di coraggio che si fa spazio tra le ombre, senza mai abbandonarsi a una visione fatalista, ma cercando, piuttosto, di trovare una via di uscita, una piccola luce che possa dare un significato al caos dell’esistenza. Il poeta rimane così, perennemente al di fuori di quella scena che ha costruito con cura, un palcoscenico che sembra non appartenere mai del tutto a chi lo ha creato, eppure è proprio lì, in quella solitudine, che trova la sua dimensione più autentica. La regia che ha saputo allestire è allo stesso tempo sapiente e penalizzante per lui, poiché lo costringe a vivere in un contesto che non gli dà mai il pieno controllo della sua esistenza, ma lo obbliga, piuttosto, a muoversi dentro una scenografia che è, in fin dei conti, una prigione autoimposta. Con una regia precisa, ma allo stesso tempo spietata, il poeta si trova intrappolato in un gioco di specchi in cui il suo stesso dolore diventa parte di un’architettura ineluttabile, in cui non può fare a meno di confrontarsi con il suo destino senza poterlo mai davvero cambiare. La scena, per quanto meticolosamente costruita, finisce con l’assumere una forma di autodistruzione, e la luce che ogni tanto emerge sembra solo un miraggio, una speranza che non può essere colta, ma che continua a brillare come un faro distante, inarrivabile. Il poeta, quindi, non può fare altro che rimanere sospeso in questo spazio, tra la scena che ha creato e quella che è la sua reale condizione, in un conflitto continuo tra il desiderio di fuggire e l’impotenza di poterlo fare.
L’amante e l’amato, entrambi immersi in un eros effimero che sembra sfuggire di continuo, come sabbia che scivola tra le dita, si trovano avvolti da una passione che, per quanto intensa e travolgente, è destinata a dissolversi nel nulla. Essi, presi nel vortice del desiderio e del piacere, appaiono dimentichi della loro fragilità, delle leggi implacabili del tempo che, senza chiedere permesso, cancella ogni traccia di ciò che era un'intensa esperienza carnale e emotiva. I loro corpi si intrecciano in un amplesso che, pur promettendo un’eternità di piacere, non è altro che un istante fugace che si consuma nell’arco di un respiro. Come in un sogno, il desiderio arde e poi si estingue, lasciando dietro di sé solo il ricordo di un’illusione, una scia di emozioni che si perde nell’aria. Eppure, in questo gioco di luci e ombre, la consapevolezza di questa transitorietà è ciò che rende l’esperienza ancora più intensa, come se ogni bacio, ogni carezza, fosse una sfida contro l’ineluttabile fine.
Ma, se volgiamo lo sguardo al poeta, il cui ruolo è quello di osservare e, in qualche modo, cristallizzare quel momento effimero in una forma che possa sopravvivere al tempo, vediamo che egli agisce come un testimone che trasforma il ricordo in parole. Il poeta, seduto a distanza, lontano dalla foga del desiderio, non può che fissare l’immagine dell’amato, ormai lontano, ormai perduto, in una sorta di limbo che lo sottrae alla carne per elevarlo nell'astrazione. L’amato, divenuto ormai un ricordo, si tramuta in un simbolo, un’icona che trascende la realtà tangibile e si insinua nell’eterno. Lontano dalla fugacità dell’eros, il poeta, attraverso la sua scrittura, tenta di dare una forma all’impermanenza, fissando in un atto artistico ciò che la vita ha consumato in un battito di ciglia. Quella passione che una volta bruciava nei corpi ora si trasforma in segno, in una parola, in un’immagine poetica che persiste ben oltre il tempo dell’amplesso.
E così, la poesia diventa il mezzo attraverso cui l’infinitesimale istante di piacere si conserva, ma allo stesso tempo viene trasformato. Non è più un’esperienza sensoriale, ma una visione, un ricordo che, pur essendo ancorato all’impermanenza dell’amore, diventa eterno nel suo ricongiungersi all’immaginazione e alla memoria. Il poeta, nel suo ricordo, scrive non solo per sé stesso, ma per tutti coloro che, come lui, sono destinati a rivivere la fugacità del desiderio attraverso l’arte. È un gioco di specchi tra il vissuto e l’immaginato, tra ciò che è stato e ciò che resta, tra il corpo e l’anima. L’amato, che un tempo esisteva nella carne e nei sensi, ora esiste solo nel ricordo, un ricordo che il poeta tenta di trasfigurare in un simbolo di quella breve eternità, in cui il corpo e l’anima si fondono per un attimo, per poi svanire nel nulla. Eppure, proprio in quella scomparsa, in quella transitorietà, c’è la bellezza dell’esperienza stessa, un’arte che vive della sua stessa fragilità, come se fosse un atto di resistenza contro il tempo che cancella ogni cosa, ma che, nello stesso tempo, rende immortale ciò che è stato.
L’erotismo diventa così una traccia indelebile che solo la poesia può preservare. Non è l’amore eterno che ci viene raccontato nei sogni o nelle leggende, ma l’amore che sfuma, che si dissolve, che non lascia altra testimonianza se non quella evanescente di un gesto, di una parola, di un frammento di emozione. E in questa fusione tra memoria e desiderio, tra carne e spirito, il poeta riesce a salvare quell’intensità del momento, restituendo all’amato il suo posto nell’immaginario, tra le stelle di un universo che si rinnova, che si trasforma, e che, pur con la sua inesorabile finitezza, ci permette di rivivere, ancora una volta, il calore di quell’amplesso che non è mai stato solo fisico, ma che, attraverso l’arte, diventa parte dell’eternità.
Autenticità del dolore. Una raffigurazione di un modello culturale ancor prima che psicologico e la rielaborazione della perdita è tutta affidata al dire poetico, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. È l’incontro dei corpi, il fisico toccarsi e intrecciarsi, complesso e sempre differito in un eterno ritorno impossibilitato, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso che si confessa, una sostituzione continua di amati e di amanti, come unico farsi primario di quella scissione che sverna nel tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e raggiungibili della morte sul letto.
Bellezza usa strumentalmente la poesia, è palese proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni. Una scrittura che sì oscilla tra perizia e programma e che, clessidra dei sentimenti e dei giochi erotici, gli ha giocato un pessimo tiro, l’ultimo, il letale, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione. Proprio la coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita, corrotta e corrosiva [se questa espressione è ancora lecita, se non fa sorridere i cinici ad oltranza]. Davvero la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte.
La maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Il quotidiano incombe imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Forse la definitiva. Ma prima di qualunque ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente – fino ad oggi, fino a noi – che non vuole e non sa guardare al futuro, nemmeno costruirlo intende, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. La tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.
Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. Ma si sa. Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. E le ossessioni non esistono per questo Poeta ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Oltre il mondo animale. Il sesso come emblema di se stesso e della propria ripetitività. Ecco che il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione e non più soltanto.
Un poeta che vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo del nuovo amate che diventa amato per essere sostituito da un nuovo amante che diviene l’amato all’infinito ed è quest’ultimo, ancora, a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita con ripetitività. E questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado.
Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce ovunque. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, proprio laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata.
La sua poesia si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione. Una narrazione allo stato puro, finzione che sposta quasi incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica.
Tutto è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce della vita stessa e del proprio tripudio d’amore e sesso, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai mille e mille corpi che restano, per sempre, ragazzi.
Un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Flusso sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace concretezza. Registro da opera o da romanza. Storie vissute all’insegna di una balda e passeggera eternità, che si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato. Una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo.
E qui mi forzo a chiudere, pazienti lettori.