sabato 29 marzo 2025

Dall'ebraismo alla questione palestinese

L’ebraismo, come tradizione, ha sempre avuto la capacità straordinaria di sfidare le leggi della stasi e di reinventarsi, adattandosi alle sfide della storia e alle mutevoli condizioni sociali, culturali e politiche in cui si è trovato. Da sempre, essa si è distinta per una dinamica tensione tra l’immobilità di certe verità rivelate e la mobilità necessaria alla sopravvivenza in un mondo che muta costantemente. È proprio questa fluidità che ha permesso all’ebraismo di affrontare secoli di persecuzioni, esili e distruzioni, senza mai perdere la propria essenza, senza mai farsi inghiottire dall’oblio. Eppure, in questo processo di continua trasformazione, la tradizione ebraica non ha mai smesso di essere in contatto con le sue radici. La sua grandezza sta proprio nel fatto che, pur nel continuo cambiamento, non ha mai rinnegato ciò che l’ha fondata: la legge, la Torah, la ricerca di un significato profondo nel dialogo con il divino.

Ma oggi, nel contesto della modernità, l’ebraismo affronta una nuova sfida: quella della secolarizzazione e della crescente distanza dalla religiosità tradizionale. La domanda che si pone è questa: come può una tradizione che si è fondata sulla centralità della legge e della fede, in un mondo sempre più individualista e pluralista, continuare a rispondere alle esigenze di chi si sente ebreo? In un mondo dove la religione sta perdendo sempre più terreno a favore della ragione, della scienza e della libertà individuale, come può l’ebraismo rispondere a chi si interroga sul suo posto nel mondo? Se la legge religiosa, l’halakhah, non ha più la stessa centralità che aveva in passato, se le pratiche quotidiane non sono più il centro della vita religiosa, come può l’ebraismo rimanere vivo, rilevante e significativo per le nuove generazioni?

L’ebraismo odierno sembra, a volte, essere sospeso in un paradosso. Non è più solo la religione che definisce l’identità ebraica, ma anche la cultura, la filosofia, la letteratura. In questo contesto, ci sono stati pensatori e scrittori ebrei che hanno portato la riflessione sull’identità ebraica ben oltre i confini delle pratiche religiose. Kafka, Freud e Scholem, tre figure che sembrano appartenere a mondi tanto diversi, hanno rappresentato, ognuno a suo modo, un approccio radicale all’ebraismo, un approccio che ha cercato di andare oltre le definizioni tradizionali, senza tuttavia rinunciare all’eredità ebraica. Ognuno di loro ha esplorato l’ebraismo in modo non convenzionale, ma non per questo meno profondo e significativo. Piuttosto, hanno messo in luce il paradosso fondamentale dell’ebraismo stesso: la tensione tra una tradizione che si sente necessaria e una modernità che mette in discussione quella stessa necessità.

Kafka, nel suo approccio esistenziale, ha saputo trasmettere un’idea di ebraismo che non è mai definita una volta per tutte, ma è sempre in ricerca, sempre sospesa tra l’appartenenza e l’esclusione. Nei suoi romanzi, l’ebraismo appare come una condizione tragica, fatta di solitudine, di alienazione, di una costante ricerca di una legge che non arriva mai, di un incontro con il divino che non è mai esaustivo. La sua visione non è pietistica, non è confortante, ma è l’immagine di un’identità che vive nella mancanza, nell’incertezza. L’ebraismo kafkiano è un’idea che non si esprime mai in modo chiaro, ma che si rivela attraverso il desiderio di rispondere a una domanda che resta senza risposta. Questa è forse la forma più pura di ebraismo che Kafka ci ha lasciato: un ebraismo non più legato alla ritualità e alla legge, ma a una costante ricerca di significato in un mondo che sembra privato di certezze.

Freud, d’altra parte, ha portato l’ebraismo nel terreno della psicologia e dell’inconscio. Il suo lavoro su Mosè e sulla religione monoteista ha suggerito un’interpretazione radicalmente nuova dell’identità ebraica. L’ebraismo per Freud non è solo un dato di fede, ma anche il risultato di un trauma collettivo, una memoria storica che affonda le radici nell’inconscio. L’idea che Mosè fosse un egiziano e che la religione ebraica fosse il frutto di una reazione a un evento traumatico ha avuto una forte risonanza, poiché sfida le narrazioni tradizionali e offre una visione dell’ebraismo come una costruzione psicologica. In quest’ottica, l’ebraismo diventa una forma di resistenza, un meccanismo di sopravvivenza che si costruisce attraverso la rielaborazione del dolore e del ricordo, un modo di reagire agli eventi traumatici che ha modellato non solo l’identità ebraica, ma anche la psiche umana nel suo complesso.

Gershom Scholem, dal canto suo, ha restituito all’ebraismo un significato più mistico, legato alla dimensione della rivelazione. Il suo interesse per la Cabala e per la mistica ebraica lo ha portato a vedere l’ebraismo non solo come una religione legata alla legge, ma come una tradizione che affonda le sue radici in una visione profonda della realtà, capace di vedere il divino nelle pieghe più nascoste della vita quotidiana. La Cabala, secondo Scholem, è un tentativo di comprendere la struttura nascosta del mondo, di penetrare nei misteri della creazione, ed è questo approccio che permette all’ebraismo di rimanere vivo e rilevante anche al di fuori delle tradizioni rituali e legali. La mistica ebraica, nella sua accezione cabalistica, propone una visione del mondo come un tessuto intricato, dove il divino si cela dietro ogni dettaglio e ogni evento, dando spazio alla ricerca incessante di significato. Per Scholem, l’ebraismo è un viaggio senza fine verso la rivelazione, un percorso che si sviluppa non solo nella comunità e nelle sue leggi, ma anche nel cuore del singolo individuo, nel suo rapporto con il mistero della vita e dell’universo.

Questa visione dell’ebraismo come percorso di continua esplorazione è emblematica di un modo diverso di concepire la tradizione. Se la tradizione normativa ebraica, quella che si articola attorno alla Torah e alla legge, rappresenta un quadro più rigido e definito, la mistica e la filosofia ebraica, rappresentata da Scholem e da altri pensatori, ci offrono un’altra lettura dell’identità ebraica: una lettura che non si limita alla conformità esteriore, ma che guarda alla profondità dell’anima, alla tensione interiore tra il divino e l’umano, tra il visibile e l’invisibile. La rivelazione divina, in questa prospettiva, non è un evento che avviene una sola volta, ma è un processo continuo, che attraversa la storia, la cultura, e anche la singola vita, restituendo ogni volta nuove sfumature di significato.

La stessa ricchezza dell’ebraismo moderno risiede nel fatto che, nonostante la dissoluzione delle certezze tradizionali e l’emergere di nuovi paradigmi culturali e sociali, esso continua a sfidare le definizioni rigide. L’ebraismo contemporaneo, in un certo senso, ha smesso di essere un “sistema” e si è trasformato in una “domanda”, un interrogativo aperto sul senso della vita, sull’identità, sul rapporto con il sacro. Non è più solo un corpo di leggi e di rituali, ma una cultura che, pur mantenendo un legame profondo con il suo passato, si nutre delle sfide del presente. È un’ebraismo che cerca nuove forme di espressione, sia attraverso la letteratura che attraverso l’arte, la filosofia, la politica, e che non ha paura di interrogarsi sulle proprie radici, sulla sua storia, e su come queste possano dialogare con il mondo contemporaneo.

Il contributo che autori e filosofi contemporanei come Philip Roth, Saul Bellow, Cynthia Ozick, Amos Oz, e molti altri, hanno dato alla cultura ebraica è fondamentale per comprendere come l’ebraismo possa sopravvivere senza dover ricorrere esclusivamente alla ripetizione di pratiche religiose tradizionali. Questi autori, pur essendo ebrei, non scrivono semplicemente di ebraismo come una religione o una tradizione, ma esplorano l’identità ebraica come una condizione complessa, in cui si intrecciano memorie storiche, conflitti interiori, riflessioni esistenziali. L’ebraismo per questi scrittori diventa un tema centrale, ma non nel senso di una cultura immobile che si ripete, quanto piuttosto come un campo di indagine che evolve con il tempo, una sorta di “luogo” in cui l’individuo e la collettività possono continuamente reinventarsi.

In questo panorama, l’ebraismo non è più solo una questione di norme e di riti da rispettare, ma una questione di ricerca intellettuale, di riflessione critica sulla propria storia e sul proprio posto nel mondo. La riflessione ebraica diventa un atto di liberazione intellettuale e spirituale, dove la tradizione è rivisitata e reinterpretata in chiave contemporanea, senza perdere il legame con ciò che l’ha preceduta. L’ebraismo, insomma, diventa uno spazio di libertà, non più prigioniero di dogmi immutabili, ma aperto a nuove possibilità di espressione e di significato.

La sfida che l’ebraismo contemporaneo affronta, quindi, è quella di mantenere viva la sua essenza, pur riconoscendo la necessità di cambiare, di evolversi, di adattarsi alle nuove realtà del mondo in cui viviamo. Non si tratta di rinnegare la tradizione, ma di riconoscere che la tradizione stessa è fatta di cambiamento. L’ebraismo del futuro potrebbe non essere definito da leggi fisse, ma piuttosto da un impegno costante a rispondere alle domande universali sull’identità, sul divino, sulla moralità e sulla giustizia. Esso potrebbe esprimersi più attraverso la cultura, l’arte, la filosofia, la politica, che non attraverso la pratica religiosa tradizionale. Potrebbe essere un ebraismo che parla a ciascun individuo, che invita a riflettere sulla propria condizione di essere umano, senza mai dimenticare il legame profondo con il passato, ma senza rimanere intrappolato in esso.

In fondo, l’ebraismo è sempre stato una tradizione che ha cercato di conciliare il desiderio di rispondere alle domande esistenziali fondamentali con la necessità di essere radicata in un passato ricco di significati. Oggi, più che mai, l’ebraismo ha bisogno di continuare questa ricerca, di interrogarsi sulle proprie tradizioni, ma anche di essere capace di evolversi e di dialogare con il mondo contemporaneo. La sua forza sta nella capacità di reinventarsi continuamente, mantenendo intatta la sua identità e il suo valore di fronte ai cambiamenti della storia. La sfida per l’ebraismo del futuro è proprio quella di continuare ad affrontare le domande universali sull’essere umano, sul divino, sulla giustizia e sulla libertà, con una mente aperta, capace di dialogare con le culture del presente senza rinunciare a ciò che lo ha definito nel corso dei secoli. In questo modo, l’ebraismo potrà continuare a essere una fonte di ispirazione per le generazioni future, non solo come una tradizione religiosa, ma come una cultura viva e in continua evoluzione.

L’ebraismo contemporaneo, in quanto tradizione religiosa, culturale e storica, è un fenomeno complesso che si sviluppa all’incrocio di mille influenze globali, ma allo stesso tempo continua a trarre forza dalla sua ricca eredità millenaria. La sua attuale configurazione è il risultato di un lungo processo evolutivo che ha subito innumerevoli trasformazioni, sia a livello religioso che sociale. Il fatto che l’ebraismo oggi venga vissuto e compreso in modi molto diversi a seconda delle contesti storici e geografi è testimone di un dinamismo che è stato sempre parte integrante della sua storia. La sfida principale oggi non è tanto quella di mantenere intatta una tradizione definita, ma quella di riuscire a conciliare la preservazione di questa tradizione con la continua necessità di adattarsi ai cambiamenti storici, sociali e culturali.

Una delle domande fondamentali che occupano i pensieri di molti ebrei moderni è quella dell’identità: cosa significa essere ebreo nel contesto contemporaneo? La risposta, purtroppo, non è univoca. L'ebraismo non è mai stato un fenomeno omogeneo, ma è sempre stato segnato da una straordinaria varietà, che si riflette nelle numerose correnti interne alla religione. Oggi, se da un lato ci sono ancora praticanti devoti che osservano scrupolosamente la legge religiosa e i riti tradizionali, dall’altro molti ebrei, soprattutto nelle società occidentali, si considerano parte di una tradizione che è al contempo culturale, storica e, talvolta, più che religiosa. La spiritualità ebraica, infatti, può essere vissuta anche come una ricca eredità intellettuale e culturale, che si esprime attraverso la letteratura, l'arte, la filosofia, e, soprattutto, la memoria storica.

A differenza di altre tradizioni religiose che mantengono un legame più stretto con la religiosità e la pratica rituale, l'ebraismo, soprattutto nel mondo occidentale, ha conosciuto una progressiva secolarizzazione. In molte comunità, la religione e le pratiche rituali, come il sabato o le festività, non sono più il fulcro della vita quotidiana. Tuttavia, ciò non significa che la tradizione ebraica sia in declino o in via di estinzione, ma piuttosto che l’ebraismo contemporaneo ha trovato nuovi modi di manifestarsi, più compatibili con le esigenze del mondo moderno. La cultura ebraica, infatti, si esprime oggi in una varietà di forme che spaziano dalla letteratura alla musica, dalla filosofia alla politica. Non sorprende, dunque, che molti ebrei moderni si sentano uniti non tanto dalla fede religiosa in senso stretto, quanto dal legame con una cultura che ha resistito secoli di persecuzioni, dispersione e sfide.

A questa complessa rete di sfide culturali, sociali e religiose, l'ebraismo moderno aggiunge anche la questione della diaspora, che continua a essere una delle sue caratteristiche distintive. Oggi come in passato, la dispersione del popolo ebraico in diverse parti del mondo ha dato vita a una pluralità di esperienze e interpretazioni della tradizione. Le comunità ebraiche europee, americane, sudamericane, africane e israeliane si trovano ad affrontare sfide diverse, ma sono anche legate da un destino comune che si radica nella memoria storica e nella percezione di essere un popolo legato dalla storia e dalla cultura, piuttosto che dalla religione stessa. Le comunità ebraiche della diaspora hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo delle culture nazionali, e oggi molti ebrei si identificano con la loro eredità in modo più culturale che religioso, rinforzando la dimensione storica e collettiva dell’identità ebraica.

Un altro tema di grande attualità nell’ebraismo contemporaneo è quello del rapporto con Israele. Se per un tempo il sionismo, come movimento politico e ideologico, è stato visto come la risposta al secolare sogno di una patria ebraica, oggi la relazione con Israele è più complessa. Israele è diventato non solo la patria nazionale degli ebrei, ma anche un punto di riferimento culturale, storico e politico fondamentale per molte comunità ebraiche in tutto il mondo. Tuttavia, il conflitto israelo-palestinese e le difficoltà politiche interne ad Israele hanno sollevato interrogativi profondi anche all’interno delle comunità ebraiche globali. Sebbene molti ebrei si sentano ancora legati a Israele e ne sostengano la sicurezza, non mancano voci critiche che si oppongono a certe politiche israeliane, in particolare per quanto riguarda la questione dei diritti dei palestinesi e la politica di occupazione.

L’Olocausto, con il suo carico tragico e indelebile, è un altro tema che continua a essere al centro della riflessione ebraica contemporanea. La Shoah ha lasciato una cicatrice profonda nella coscienza collettiva e ha segnato la fine di un’epoca per il popolo ebraico. La memoria dell’Olocausto è oggi una componente imprescindibile della cultura ebraica, ma il modo in cui viene interpretata e tramandata non è privo di tensioni. Alcuni vedono la memoria della Shoah come una chiave per comprendere le sofferenze passate e per giustificare la necessità di garantire la sicurezza di Israele. Altri, invece, avvertono il pericolo di un uso politico strumentale della memoria dell’Olocausto, utilizzato per giustificare azioni che potrebbero essere ritenute ingiuste o immorali.

In questo contesto, l’ebraismo contemporaneo si interroga sulla propria missione in un mondo che, purtroppo, non ha smesso di essere teatro di conflitti, ingiustizie e discriminazioni. Come può un popolo che ha sofferto tanto nel corso della sua storia trovare una via per la pace e la giustizia? E come può l’ebraismo, che ha sempre avuto una forte componente etica, rimanere fedele ai suoi principi di giustizia e compassione mentre affronta le sfide moderne? La riflessione su questi temi è centrale nelle discussioni interne all'ebraismo, dove si confrontano le posizioni più liberali e quelle più conservatrici. La questione di come mantenere una moralità coerente con la tradizione ebraica in un mondo che sembra allontanarsi sempre più dalla religiosità è un dilemma che non trova facili risposte.

Inoltre, l’ebraismo moderno si trova oggi a confrontarsi con le sfide poste dal dialogo interreligioso e interculturale. In un mondo globalizzato, le interazioni tra le diverse religioni e culture sono inevitabili. In questo contesto, l’ebraismo ha avuto un ruolo importante nel dialogo con il cristianesimo e con l’islam, ma anche con le altre religioni del mondo. Il dialogo interreligioso, sebbene talvolta difficile, rappresenta una strada importante per la costruzione di una pace duratura e per la creazione di legami di comprensione e rispetto reciproco. Ma in un’epoca di crescenti tensioni religiose e politiche, questo dialogo non è privo di difficoltà.

L’ebraismo del XXI secolo, in definitiva, è un’istituzione in costante movimento, che cerca di restare fedele alle sue radici mentre esplora nuovi orizzonti culturali, etici e spirituali. La sua capacità di adattarsi ai tempi e al contesto storico, pur mantenendo un legame forte con la sua tradizione, ne garantisce la vitalità. L’ebraismo oggi non è solo una religione o una cultura, ma è diventato un crocevia di idee, esperienze e riflessioni che rispondono alle sfide di un mondo in continua evoluzione. La sua storia è un testamento alla resilienza e alla capacità di reinventarsi, pur mantenendo intatti quei valori di giustizia, misericordia e speranza che hanno sempre caratterizzato il popolo ebraico.

Il legame storico e religioso tra l’ebraismo e la Palestina è un tema che affonda le sue radici in millenni di storia, culturale e spirituale, e si intreccia con le vicende politiche e sociali che hanno plasmato non solo la regione mediorientale, ma anche l’intera storia della civiltà occidentale. Questo rapporto, complesso e articolato, va ben oltre il contesto moderno, e affonda nel profondo dei testi biblici e nelle tradizioni religiose che hanno dato forma all’identità del popolo ebraico. La Palestina, nella tradizione ebraica, è molto più di un semplice luogo geografico; rappresenta il cuore della memoria collettiva, un simbolo di speranza e di sogno, ma anche di sofferenza, esilio e lotta per la sopravvivenza. Con il passare dei secoli, il rapporto con questa terra è diventato tanto spirituale quanto politico, alimentando desideri di ritorno, di rivendicazione e di riscatto. Tuttavia, questo stesso legame ha generato conflitti, divisioni e continue tensioni, che si sono estesi ben oltre il solo ambito religioso per coinvolgere questioni di sovranità, identità nazionale e autodeterminazione.

Il legame tra gli ebrei e la Palestina ha origini che risalgono all’antichità, radicate nei testi sacri e nei miti fondatori della cultura ebraica. Secondo la Bibbia, la Terra Promessa è stata data da Dio agli ebrei come loro eredità eterna, un dono che segna la fine di un lungo cammino di esilio e sofferenza. La figura di Abramo, il patriarca biblico che ricevette da Dio la promessa di una discendenza che avrebbe abitato questa terra, simboleggia il momento in cui la Palestina diventa il cuore della speranza del popolo ebraico. Sebbene il regno di Israele, che fiorì sotto re Davide e Salomone, abbia rappresentato il massimo splendore della presenza ebraica in quella regione, la successiva conquista da parte di potenze straniere, come gli Assiri, i Babilonesi e infine i Romani, portò a un lungo periodo di esilio e dispersione. La distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. segna simbolicamente la fine della sovranità ebraica sulla Palestina e l’inizio della diaspora, ma nonostante l’esilio, la memoria di Gerusalemme e della Terra di Israele continuò a vivere nel cuore di ogni ebreo, sia in terra di esilio che nelle preghiere quotidiane. Ogni anno, durante la celebrazione della Pasqua ebraica, gli ebrei ripetono la frase "L'anno prossimo a Gerusalemme", una dichiarazione simbolica di speranza e di attesa.

Il sionismo, che nacque nel XIX secolo, rispondeva a una situazione che vedeva gli ebrei europei, perseguitati e discriminati, cercare un rifugio sicuro e una patria dove poter vivere senza subire l’umiliazione dell’esclusione e della violenza. Mentre le persecuzioni e il crescente antisemitismo in Europa stimolavano la riflessione sull’emancipazione e sull’integrazione, il sionismo proponeva una soluzione diversa: la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Gli ideali del sionismo non si limitavano a un ritorno fisico alla terra di Israele, ma prevedevano la rinascita di una nazione ebraica che rimanesse fedele ai valori della sua tradizione religiosa, ma che fosse anche in grado di rispondere alle sfide del mondo moderno.

Theodor Herzl, uno dei fondatori del sionismo, vedeva il movimento come una risposta concreta all’oppressione e al rifiuto dell’ebraismo in Europa, soprattutto dopo il caso Dreyfus in Francia, che mostrò al mondo l’antisemitismo dilagante in Occidente. Herzl sosteneva che solo creando una patria sicura in Palestina, gli ebrei avrebbero trovato la loro salvezza, lontano dall’ostilità dei popoli che li circondavano. Il sionismo si fondò su un’ambiziosa idea di auto-sufficienza, che cercava di rinnovare la vita ebraica non solo in termini politici, ma anche culturali, economici e sociali. La creazione di kibbutz, la riscoperta della lingua ebraica e la promozione di una cultura ebraica laica segnarono i primi passi verso la realizzazione del sogno di un Israele che fosse, allo stesso tempo, una patria moderna e radicata nelle tradizioni più antiche.

Tuttavia, il sionismo non fu privo di controversie, soprattutto per il popolo palestinese che abitava quella stessa terra. Mentre gli ebrei sognavano la fondazione di un nuovo Stato, la popolazione araba palestinese vedeva minacciata la propria identità e la propria sovranità. La visione di uno Stato ebraico in una terra già abitata da una popolazione araba si scontrava inevitabilmente con le rivendicazioni dei palestinesi, che non potevano accettare l’idea di essere privati della propria terra. Il conflitto tra i due popoli si sviluppò così, con la creazione di Israele che, da un lato, segnò il culmine di un sogno millenario per gli ebrei, ma dall’altro scatenò il dramma e la sofferenza per i palestinesi.

La proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 segnò il culmine del sogno sionista, ma allo stesso tempo segnò l’inizio di una nuova era di conflitto. La guerra che ne seguì, la Guerra di Indipendenza, vide migliaia di palestinesi costretti a fuggire dalle loro case e a diventare rifugiati in altri Paesi arabi. Quella che per gli ebrei fu una vittoria storica, per i palestinesi divenne la Nakba, una catastrofe che ancora oggi rappresenta una ferita profonda. La creazione di Israele portò alla divisione della terra e alla nascita di un problema che avrebbe segnato il futuro del conflitto israelo-palestinese: la questione dei rifugiati palestinesi. Non solo gli ebrei che fuggirono dai Paesi arabi, ma anche i palestinesi, furono costretti a vivere in esilio, creando una diaspora parallela a quella ebraica, che in qualche modo rifletteva la stessa dinamica di un popolo che cerca di ritrovare la propria identità, ma che viene costantemente ostacolato da fattori esterni e interni. La guerra del 1948 creò un solco difficile da superare, un solco che oggi segna le due popolazioni in modo indelebile, con una divisione che non è solo territoriale, ma che attraversa la storia, la religione e la politica.

Gerusalemme è senza dubbio uno degli elementi più critici del conflitto israelo-palestinese. Questa città è sacra per ebrei, cristiani e musulmani, ed è al centro delle rispettive rivendicazioni religiose e politiche. Per gli ebrei, Gerusalemme è la città santa per eccellenza, simbolo della loro identità religiosa e nazionale, nonché sede del Tempio di Salomone e del Muro del Pianto, l’ultimo residuo del Secondo Tempio. Gerusalemme, che fu capitale del regno ebraico, è vista dai fedeli come il luogo dove la presenza divina è più tangibile. Per i musulmani, la città è il terzo luogo santo dell’Islam, sede della moschea al-Aqsa, che rappresenta un legame indissolubile con la loro tradizione religiosa. Inoltre, per i cristiani, Gerusalemme è il luogo in cui Gesù Cristo ha vissuto la sua passione e morte, e quindi un simbolo fondamentale del cristianesimo.

La questione della sovranità su Gerusalemme è quindi una delle più delicate e difficili del conflitto israelo-palestinese. Israele considera la città come la sua capitale indivisibile, mentre i palestinesi rivendicano la parte est della città, che comprende la Città Vecchia, come capitale del futuro Stato di Palestina. Il controllo su Gerusalemme, e in particolare sul Monte del Tempio, è uno dei punti più caldi del conflitto. Le tensioni religiose e politiche che circondano Gerusalemme sono costantemente alimentate dalla presenza di luoghi sacri, dalla memoria storica e dalla lotta per il controllo delle risorse e delle terre circostanti.

Oggi, il conflitto tra Israele e Palestina è ancora irrisolto, ma la speranza di una soluzione non è mai completamente svanita. La strada per una pace duratura sembra lunga, e le ostilità continuano ad alimentare sofferenza e disillusione. Tuttavia, ci sono segnali di cambiamento. La crescente consapevolezza dei costi umani e morali del conflitto, sia per gli israeliani che per i palestinesi, sta iniziando a spingere alcune voci in entrambe le comunità a cercare soluzioni pacifiche. In particolare, giovani e intellettuali, sia in Israele che tra i palestinesi, stanno iniziando a mettere in discussione i vecchi paradigmi e a cercare vie di riconciliazione e di coesistenza. Tuttavia, le difficoltà politiche, le divisioni interne, l'espansione degli insediamenti israeliani e la continua violenza rendono difficile qualsiasi tipo di progresso.

La questione palestinese è, senza dubbio, una delle più complesse e persistenti sfide geopolitiche contemporanee. Ogni giorno, milioni di palestinesi vivono sotto l'occupazione israeliana, affrontando violazioni dei diritti umani, repressione politica e una lotta costante per la propria identità e autodeterminazione. L'approccio alla questione, tuttavia, non si limita a una disputa tra due popoli; la sua natura è profondamente legata agli interessi esterni, alle dinamiche geopolitiche globali e alle politiche dei principali attori internazionali che hanno avuto un ruolo determinante nel plasmare il conflitto. La sofferenza e la speranza della popolazione palestinese non sono solo il risultato di una lunga storia di oppressione, ma anche degli effetti destabilizzanti delle decisioni politiche, sia locali che internazionali.

L'occupazione israeliana dei territori palestinesi rimane la causa principale delle sofferenze quotidiane della popolazione palestinese. Sebbene Israele si presenti come uno stato democratico e tecnologicamente avanzato, con una forza militare tra le più potenti al mondo, la sua politica verso i palestinesi è caratterizzata da un costante uso della forza, da espulsioni forzate e dalla costruzione di colonie nei territori occupati. Queste colonie, che violano il diritto internazionale, sono diventate una delle questioni più divisive del conflitto. Gli insediamenti sono stati una strategia di Israele per rafforzare il proprio controllo su Cisgiordania e Gerusalemme Est, territori considerati dai palestinesi come parte del loro futuro stato. La continua espansione delle colonie israeliane ha minato seriamente qualsiasi possibilità di una soluzione basata su due stati, poiché frammenta il territorio palestinese e rende impossibile una coesistenza pacifica.

Israele giustifica la propria occupazione come una misura di sicurezza necessaria per proteggersi dalle minacce dei gruppi armati palestinesi e da altri attori regionali, come Hezbollah in Libano e l'Iran. La paura di attacchi terroristici, in particolare quelli da parte di Hamas e delle Brigate al-Qassam, ha spinto il paese a sviluppare una strategia di sicurezza aggressiva, che include operazioni militari su larga scala, l'uso di droni, e la costruzione di barriere fisiche lungo i confini. Tuttavia, questi metodi non hanno portato alla pace, ma hanno solo perpetuato il ciclo di violenza, con migliaia di morti palestinesi e israeliani. Gli attacchi a Gaza, che vengono lanciati ogni pochi anni, contribuiscono a distruggere le infrastrutture civili e a compromettere ulteriormente la qualità della vita nella Striscia, che è già uno degli spazi più densamente popolati e poveri del mondo.

La posizione degli Stati Uniti nei confronti di Israele è stata costante per molti decenni. Gli Stati Uniti sono il più grande alleato di Israele e forniscono a Tel Aviv un sostegno politico, economico e militare senza pari. Questo sostegno è stato centrale nella capacità di Israele di continuare la sua politica di occupazione e di espansione, nonostante le critiche internazionali e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Le amministrazioni americane, da quella di Clinton a quella di Trump e ora a quella di Biden, pur avendo formulato vari piani di pace, non sono riuscite a fare pressioni concrete su Israele per fermare la costruzione delle colonie o per fermare le violazioni dei diritti umani.

La posizione di sostegno incondizionato degli Stati Uniti ha avuto un impatto devastante sul processo di pace. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump ha rappresentato un momento di rottura con la politica internazionale tradizionale, che vedeva Gerusalemme come una città condivisa o come una questione da risolvere attraverso il negoziato tra israeliani e palestinesi. L’amministrazione Biden, pur cercando di riprendere il dialogo con i palestinesi, si è trovata di fronte alla realtà di un conflitto sempre più radicato, con una leadership palestinese divisa e un Israele che continua a non cedere sulle questioni fondamentali come lo status di Gerusalemme e il ritorno dei rifugiati palestinesi.

Il potere di veto esercitato dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ulteriormente impedito che venissero adottate risoluzioni che potessero mettere in discussione le politiche israeliane, isolando di fatto la causa palestinese sulla scena internazionale.

Nel corso degli ultimi decenni, la politica dei paesi arabi nei confronti della Palestina è cambiata radicalmente. In passato, la causa palestinese era al centro dell’agenda politica araba, ma l'incremento delle rivalità tra gli stati arabi e l'emergere di nuove alleanze regionali hanno messo in secondo piano la questione palestinese. La crescente minaccia percepita dall'Iran e la necessità di sviluppare relazioni con potenze come Israele per motivi di sicurezza hanno portato alcuni stati arabi a normalizzare i legami con Tel Aviv.

Nel 2020, ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno firmato gli Accordi di Abramo, stabilendo relazioni diplomatiche formali con Israele. Questa normalizzazione, pur portando vantaggi economici e politici agli stati arabi, ha sollevato forti critiche da parte di altri paesi arabi e dalla popolazione palestinese, che vedono queste mosse come una traiettoria di abbandono della causa palestinese. L'Arabia Saudita, pur non avendo formalizzato un accordo con Israele, ha fatto passi importanti verso la cooperazione con il paese, soprattutto in materia di sicurezza e economia.

Molti palestinesi e sostenitori della causa palestinese vedono questi sviluppi come un tradimento. Tuttavia, le relazioni tra Israele e i paesi arabi non sono un monolite. Paesi come l'Egitto e la Giordania, pur avendo firmato accordi di pace con Israele negli anni '70 e '90, continuano a rimanere sospettosi nei confronti di un'ulteriore espansione della normalizzazione. Queste tensioni interne riflettono un divario tra i governi arabi, che cercano alleanze strategiche per rafforzare la loro posizione geopolitica, e la popolazione araba, che rimane in larga parte solidale con la causa palestinese.

L'Iran, nonostante non sia direttamente coinvolto nei negoziati sul conflitto israelo-palestinese, gioca un ruolo cruciale nel sostegno a gruppi palestinesi come Hamas e la Jihad Islamica. La sua alleanza con questi gruppi è stata una componente fondamentale della politica di resistenza che Teheran promuove contro Israele. L'Iran, che vede Israele come una minaccia alla sua visione del Medio Oriente, considera la causa palestinese una questione centrale nella sua strategia per contrastare l'influenza occidentale nella regione e promuovere un'ideologia di "resistenza" che si oppone a quello che definisce il "progetto sionista".

Tuttavia, l’influenza iraniana ha avuto un effetto divisivo anche tra i palestinesi. Hamas, che riceve supporto da Teheran, è in conflitto con l'Autorità Palestinese (AP), che ha sede in Cisgiordania e ha tentato di intraprendere un percorso di negoziato con Israele. La divisione tra Hamas e l'AP ha indebolito la posizione palestinese sulla scena internazionale, e la manipolazione politica di potenze straniere, come l'Iran, ha contribuito a mantenere una frattura interna.

Le Nazioni Unite hanno sempre rappresentato una piattaforma per il dibattito internazionale sulla Palestina, ma non sono riuscite ad avere un impatto significativo. La potenza del veto esercitata dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza ha impedito che qualsiasi azione internazionale significativa venisse intrapresa contro l'occupazione israeliana. Sebbene l'ONU abbia adottato numerose risoluzioni che condannano l'occupazione e chiedono una soluzione basata sulla creazione di due stati, le risoluzioni non sono state attuate, e il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a intervenire efficacemente.

L'Unione Europea ha preso una posizione più critica nei confronti delle politiche israeliane, ma la sua incapacità di formulare una risposta coerente e unitaria ha minato i suoi sforzi di mediazione. La divisione tra i paesi membri, alcuni dei quali sono più inclini a sostenere Israele (come la Germania), ha reso difficile l’assunzione di una posizione forte e unitaria, necessaria per influenzare Israele.

La questione palestinese, con le sue radici storiche, sociali e politiche, non può essere risolta senza una volontà di compromesso da entrambe le parti, ma soprattutto da parte degli attori internazionali che devono impegnarsi in modo serio e disinteressato per una soluzione duratura. Sebbene la comunità internazionale e i principali attori esterni abbiano tentato numerosi approcci, la continua sofferenza dei palestinesi e la persistente espansione delle colonie israeliane sembrano segnare una via senza via d'uscita. L'opzione di una soluzione a due stati rimane, ma la realtà della divisione interna palestinese e la crescente difficoltà di dialogo con Israele pongono seri ostacoli. In definitiva, la strada verso una pace giusta e duratura sembra essere ancora lontana, intrappolata in una rete di interessi politici, ideologici e geopolitici che non fanno che perpetuare la sofferenza di un intero popolo.