Viviamo nell’epoca della post-verità, un’era in cui i fatti hanno perso il loro valore oggettivo e sono diventati semplici strumenti di narrazione, intercambiabili, modellabili a seconda delle esigenze del momento. Questo non è accaduto per caso, ma è il risultato di decenni di scelte precise, di un processo sistematico di banalizzazione del sapere, di riduzione del pensiero critico a un orpello fastidioso e persino dannoso per il funzionamento della società. E la cosa più inquietante è che questo processo non è stato imposto con la forza, ma è stato abbracciato volontariamente, diffuso attraverso i mezzi di comunicazione di massa, alimentato da una cultura che ha trasformato la superficialità in un valore.
L’ignoranza come strumento di potere
L’ignoranza non è mai stata solo una mancanza di conoscenza. È sempre stata, invece, una forma di controllo. La storia è piena di esempi di come l’accesso al sapere sia stato limitato, regolamentato, riservato a pochi privilegiati. Nell’antichità, i saperi matematici, filosofici e scientifici erano custoditi da caste sacerdotali o da ristrette cerchie di iniziati. Durante il Medioevo, la cultura era in gran parte nelle mani della Chiesa, che stabiliva cosa poteva essere conosciuto e cosa doveva rimanere nell’ombra. L’Illuminismo ha aperto una breccia in questo sistema, promuovendo l’idea che la conoscenza dovesse essere accessibile a tutti, ma l’entusiasmo per la diffusione del sapere ha sempre dovuto scontrarsi con potenti forze contrarie.
Ogni volta che la conoscenza ha minacciato lo status quo, il potere ha reagito. Se nei regimi dittatoriali questo si traduce in censura, repressione e persecuzione degli intellettuali, nelle democrazie il meccanismo è più sottile e raffinato. La conoscenza non viene vietata, ma viene svilita, resa irrilevante, sepolta sotto una montagna di informazioni contraddittorie che disorientano anziché illuminare.
La cultura popolare ha giocato un ruolo determinante in questo processo. La televisione ha progressivamente ridotto lo spazio dedicato all’approfondimento, sostituendolo con l’intrattenimento puro, con il sensazionalismo, con la semplificazione estrema di questioni complesse. L’informazione, che un tempo aveva il compito di formare un’opinione pubblica consapevole, si è trasformata in un teatro dell’assurdo in cui ogni argomento viene ridotto a un dibattito urlato tra fazioni inconciliabili. E i social media hanno portato questo meccanismo all’estremo, eliminando ogni mediazione e lasciando che il sapere diventasse un’arena in cui la voce più forte, non quella più informata, ha sempre la meglio.
La crisi della verità
Uno degli effetti più devastanti di questa tendenza è la dissoluzione del concetto stesso di verità. Non si tratta più solo di disinformazione, ma di una sfiducia sistematica nei confronti di qualsiasi affermazione che pretenda di basarsi su fatti verificabili. Oggi, ogni verità è contestabile, ogni dato è sospettabile, ogni teoria è ridotta a un’opinione tra le tante. Questo ha portato a un fenomeno paradossale: mentre da un lato abbiamo accesso a più informazioni che mai, dall’altro non riusciamo più a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Il risultato è una società in cui le decisioni collettive vengono prese non sulla base della conoscenza, ma sull’emotività, sulla paura, sull’indignazione istantanea generata da titoli sensazionalistici e da notizie prive di fondamento. La politica ha imparato a sfruttare questo meccanismo, costruendo campagne basate non sulla realtà dei fatti, ma sulle percezioni distorte che riesce a diffondere. E il pubblico, invece di chiedere maggiore chiarezza, sembra accontentarsi della semplificazione, preferendo spiegazioni facili e rassicuranti anche quando sono palesemente false.
L’ignoranza come identità
Un aspetto ancora più inquietante è che l’ignoranza non è più vista come un limite, ma come una scelta legittima, come un tratto identitario da difendere. Rivendicare il diritto di non sapere, di non credere nella scienza, di diffidare di chi ha studiato, è diventato un atto politico. L’intellettuale, lo scienziato, lo storico non sono più visti come fonti di sapere, ma come membri di un’élite sospetta, come nemici del popolo. Questo meccanismo è alla base della crescente diffusione di teorie del complotto, del negazionismo scientifico, della distorsione della storia.
Non si tratta più solo di disinformazione, ma di una vera e propria ribellione contro la conoscenza. La scuola, l’università, i giornali, la ricerca accademica non sono più visti come strumenti di crescita collettiva, ma come apparati corrotti, manipolatori, portatori di un sapere che viene percepito come distante e ostile. Il sapere diventa così un privilegio, qualcosa che riguarda solo una minoranza, mentre la maggioranza rivendica il diritto di credere a ciò che vuole, senza alcuna necessità di verificare la fondatezza delle proprie convinzioni.
Come si può contrastare questa tendenza?
Per invertire questa deriva, non basta limitarsi a difendere l’importanza dell’istruzione e dell’informazione. È necessario un cambiamento culturale profondo, che restituisca alla conoscenza il suo valore di strumento di libertà. Bisogna contrastare l’idea che la cultura sia un lusso, che il pensiero critico sia inutile, che la verità sia un concetto relativo. Serve un impegno diffuso, che parta dalle scuole, dai media, dalla politica, ma che coinvolga anche ogni singolo individuo nel recupero del valore della conoscenza.
Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con la tecnologia, con l’informazione, con il dibattito pubblico. Serve un’educazione che non si limiti a fornire dati, ma che insegni a interpretarli, a metterli in discussione, a usarli per costruire un pensiero autonomo e critico. E serve una politica che non si basi sulla manipolazione delle emozioni, ma che torni a fondarsi sulla realtà, anche quando questa è complessa e difficile da accettare.
Solo così potremo sperare di fermare la deriva verso una società in cui l’ignoranza non è solo diffusa, ma celebrata. Perché una società che rinuncia alla conoscenza è una società destinata a diventare schiava delle sue stesse paure, incapace di affrontare le sfide del futuro, vulnerabile a ogni forma di manipolazione. E se c’è una lezione che la storia ci insegna, è che quando l’ignoranza vince, la libertà perde.