Amarezza, ruggine e desolazione si stendevano su di noi come un sortilegio antico, un velo sottile ma inesorabile che soffocava ogni luce e appannava ogni ricordo, riducendo il passato a un’eco deformata, a un’ombra senza corpo che ancora si aggirava tra le carcasse del nostro regno in rovina. Le giostre, un tempo luoghi di risa e vertigine, non erano altro che spettri metallici, ossa spezzate di un’epoca dissolta, reliquie corrose dal vento e dalla dimenticanza. Il ferro ossidato si piegava in posture innaturali, sculture involontarie di una bellezza tragica, mentre il legno dei cavalli fantasma si sfaldava in scaglie sbiadite, privato di colore, privato di voce. Le luci che un tempo avevano promesso meraviglia ora giacevano in frantumi sotto i nostri passi, stelle morte precipitate nella polvere, schegge di un sogno che nessuno sapeva più immaginare.
Eppure, in quella rovina, in quel cimitero di sogni divorati dal tempo, noi eravamo dèi senza tempio, sovrani di un dominio abbandonato, angeli con le ali bruciate che ancora tentavano di volare. Salivamo sulle impalcature sgangherate, ci lanciavamo nel vuoto con la furia di chi sfida l’inevitabile, con il riso spezzato di chi sa che la vittoria è impossibile ma combatte lo stesso, perché arrendersi sarebbe un crimine ancora più grande. Ogni salto era un rito, ogni caduta un’offerta al cielo muto. La giovinezza non era che un incendio cieco, una fiammata improvvisa destinata a consumarsi prima ancora di illuminare davvero il buio. Ma noi non ci curavamo del futuro, non temevamo il domani, perché per noi esisteva solo l’adesso, l’istante che si spalancava sotto i nostri piedi come un precipizio e che noi abbracciavamo senza esitazione.
Il vento soffiava tra le macerie, sollevando brandelli di carta, polvere, memorie. Il passato si era incagliato nelle ferraglie, si era annidato tra le travi spezzate e i seggiolini sfondati, sussurrava nelle crepe del cemento e tra i rottami delle luminarie spente. Ma il passato era un nemico, una voce da soffocare, un peso da lanciare oltre il bordo del mondo. Noi eravamo il presente che si ostinava a non morire, il furore che non si piegava alla resa. Ridevamo forte, ridevamo fino a farci male, con la gola graffiata dalla polvere e gli occhi accesi di febbre. Ogni notte era un’orgia di vertigine e abbandono, un sacrificio al dio crudele dell’esistenza, un’ultima sfida prima che l’alba venisse a ricordarci che eravamo mortali.
Non sapevamo nulla della morte, eppure la portavamo dentro, la cullavamo nel ventre senza darle nome. Danziavamo nel suo grembo come semi già avvelenati, come stelle condannate a spegnersi prima ancora di brillare davvero. Ogni notte era un battesimo nel vuoto, un volo cieco verso un orizzonte che non ci apparteneva. Gettarsi era l’unica preghiera che conoscevamo, schiantarsi l’unico rito di passaggio degno di essere celebrato. Non era una caduta, era un’ascesa al contrario, un’esplosione al rallentatore, un’ultima carezza prima di scomparire nel nulla. E mentre l’aria ci fendeva la pelle come una lama, mentre il mondo si ritirava in un lampo di luci e ombre indistinte, noi ridevamo, perché non c’era altro modo di esistere, non c’era altra verità se non quella.
L’aria era densa di elettricità, di desiderio, di parole mai pronunciate che si annodavano tra le dita come fili invisibili. Ogni sguardo era una guerra, ogni contatto una ferita aperta. Il nostro amore non era dolcezza, non era rifugio: era battaglia, era furia, era l’eterna collisione di due corpi che non sapevano stare fermi, che non conoscevano pace. Ci cercavamo come animali braccati, ci sbranavamo con le mani e con i denti, ci gettavamo l’uno sull’altro come se il solo contatto potesse salvarci, come se nella pelle dell’altro fosse incisa la via di fuga. Ma non c’era salvezza, non c’era uscita. Solo il sangue caldo sotto le unghie, solo il respiro spezzato, solo l’urgenza disperata di perdersi ancora e ancora e ancora.
E poi c’eri tu. Tu che eri il mio sisma, la scossa che spezzava ogni certezza. Guardarti era un terremoto che risucchiava il cielo; nei tuoi occhi, il baratro delle origini, un’eco infinita che sgretolava i muri della mia anima. Noi, creature barocche, eravamo fontane in tumulto, getti di passione che schizzavano verso il nulla, ornamenti inutili su un tempio crollato. L’acqua che scorreva tra noi era veleno e miele, un fiume nero che trascinava via ogni promessa di redenzione.
Il futuro era una lama sospesa sopra le nostre teste, un cielo impenetrabile che non lasciava trapelare luce. Il nostro orizzonte era un’ombra densa, un silenzio greve che ci circondava da ogni parte. Non c’era salvezza, non c’era speranza: solo il fosco presagio di una vita che ci avrebbe traditi ancora e ancora, spingendoci sempre più in profondità nel ventre oscuro dell’esistenza. Ma non importava. Noi eravamo terremoti, rovina e passione, e in quella distruzione trovavamo il nostro unico senso.
E così correvamo, ridevamo, ci lanciavamo oltre ogni limite. Nulla sarebbe rimasto di noi, nulla sarebbe sopravvissuto se non l’eco lontana di una risata nel vento, il riflesso di una scintilla nel buio prima che la notte la inghiottisse per sempre. Ma quella scintilla era stata nostra, e nessuno avrebbe potuto portarcela via.