Non succede nulla,
morgue chiama la guerra,
svanisce la vita.
Guardie tragiche,
svengono nel gorgo,
notti convulse.
Ergastoli, scuro,
la pelle collassa ormai,
creature di guerra.
Medicine ridono,
cretine in una notte
senza speranza.
Guerra nel nome,
la pelle cede al peso,
la morte s’avvicina.
Non succede più,
solo il silenzio dell’anima,
tra le guardie fredde.
La morgue attende,
tragiche verità,
svengono le ombre.
Ergastoli bui,
la notte assorbe il pianto,
pelle in agonia.
Le guardie sprofondano,
guerra con i suoi occhi,
creature senza volto.
Le medicine ridono,
mentre il cuore grida,
le mani tremano.
Niente succede,
il gorgo inghiotte il mondo,
la guerra esplode.
Guardie senza volto,
tristezza sotto il cielo,
le notti sfiorano.
Il nome è paura,
svanisce ogni speranza,
ergastoli cupi.
Convulsioni lente,
la pelle sotto il peso,
medicina ride.
Nella morgue silenzio,
tragiche guardie guardano,
la fine arriva.
Le notti inghiottite,
ergastoli e urla al buio,
guerra senza pace.
Svaniscono i sogni,
le medicine ridono,
niente è più vero.
Gorgo di dolore,
ogni guardia un sacrificio,
guerra e morte uniti.
Ergastoli neri,
notti lunghe come ossa,
pelle che cede.
Crepano le voci,
la pelle si stacca lenta,
la morgue attende.
Non succede niente,
la guerra ruggisce forte,
guardie si perdono.
Il gorgo nomina,
le notti senza fine,
ergastoli neri.
Convulsioni oscure,
la pelle cede al peso,
medicina ride.
Silenzio nell’aria,
la morgue non dimentica,
tragiche guardie.
Le medicine ridono,
la pelle si piega,
guerra senza luce.
Ergastoli stretti,
notti nere di paura,
gorgo che trascina.
Le guardie svengono,
nel nome di morte,
le notti si svuotano.
La pelle si spezza,
guerra di sguardi tristi,
creature senza pace.
Svengono nel buio,
la morgue accoglie il mondo,
la vita scivola.
La medicina ride,
non c’è più speranza,
guerra e morte si fondono.
Guardie tragiche,
le notti sfiorano il vuoto,
morgue è la fine.
Ergastoli stretti,
la pelle si strappa lenta,
guerra cammina.
Non succede nulla,
la guerra è un sussurro,
svanisce la luce.
Le guardie tremano,
nelle tenebre del cuore,
creature cadono.
La morgue attende,
tragiche risate cretine,
pelle che collassa.
Il gorgo inghiotte,
svengono le storie,
guerra e dolore.
Non resta più niente,
la pelle si solleva,
le guardie tacciono.
Ergastoli neri,
la guerra inizia a ridere,
notti senza pace.
Medicine stanche,
guerra fa eco nel buio,
guardie si piegano.
La morgue è vuota,
solo le risate suonano,
la fine si avvicina.
Le guardie scompaiono,
tra la nebbia del nome,
la guerra urla forte.
Pelle che collassa,
le notti strappano il respiro,
gorgo che divora.
Svengono nel buio,
ergastoli senza luce,
la morgue li accoglie.
Non succede più,
le medicine ridono,
guerra è la legge.
La pelle è soffocata,
la guerra gioca con le ombre,
guardie in silenzio.
Ergastoli stretti,
la pelle si strappa,
creature in guerra.
Le notti senza pace,
gorgo di nomi,
le guardie non parlano.
La morgue piange,
guerra e morte sono uno,
svengono le vite.
La medicina ride,
la pelle si sbriciola,
guardie al confine.
Convulsioni lacerano,
il gorgo si fa largo,
guerra senza fine.
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Guerra senza fine è una raccolta di cinquanta haiku che trasforma la brevità e la rigidità formale di questa struttura poetica in un’esplorazione spietata della guerra, non solo come evento storico, ma come condizione esistenziale, come condanna ciclica dell’umanità. Mi sono servito dell’haiku in un modo che sovverte la sua tradizionale funzione contemplativa: invece di offrire immagini di equilibrio naturale o rivelazioni improvvise, questi componimenti presentano squarci di un mondo devastato, in cui ogni parola diventa un frammento di dolore e desolazione.
La guerra, in questa raccolta, non è mai circoscritta a un luogo o a un tempo preciso. Non si tratta di un conflitto specifico, ma di un’esperienza universale e reiterata, che si ripete nel corso della storia e si perpetua nella memoria. Gli haiku si susseguono come fotogrammi di un film che non ha fine, immagini rapide e taglienti che evocano il senso di un presente immobile, dominato dalla perdita e dalla violenza.
Uno degli elementi più potenti di questa raccolta è l’uso del linguaggio. Ogni parola è scelta con estrema precisione, eppure non c’è mai un compiacimento estetico nella costruzione dei versi. Il lessico è asciutto, essenziale, e proprio per questo ancora più devastante. Parole come morgue, guardie, notte, pelle, ergastoli, gorgo, convulsioni si ripetono con una cadenza che ricorda un mantra funebre, una litania che non concede tregua.
La morgue, ad esempio, non è soltanto un luogo fisico, ma un simbolo persistente della morte come presenza costante. Non è un punto d’arrivo, ma una tappa obbligata, quasi un passaggio rituale. La notte non è il momento del riposo, ma uno spazio di angoscia, di attesa, di incertezza. Il gorgo suggerisce un movimento vorticoso, un’inesorabile discesa verso il nulla. Gli ergastoli evocano una prigionia che non è solo fisica, ma anche mentale e psicologica, una condanna eterna da cui non si può fuggire.
L’elemento più disturbante è forse l’immagine della medicina che ride, che sembra incarnare l’illusione della guarigione, il sarcasmo dell’inutile. Qui la guerra non si limita a uccidere, ma priva anche della speranza di un rimedio, trasformando ogni tentativo di cura in una beffa crudele. Questo tocco di ironia macabra amplifica il senso di impotenza e di rassegnazione che attraversa l’intera raccolta.
L’haiku è una forma poetica che tradizionalmente si basa sulla contemplazione della natura, sulla sintesi di un attimo di percezione illuminante. Qui, invece, la struttura dell’haiku diventa un’arma, uno strumento di precisione che costringe il lettore a un confronto diretto con l’orrore della guerra.
La brevità dei versi amplifica il senso di immediatezza, eliminando qualsiasi filtro emotivo o narrativo che potrebbe attenuare l’impatto delle immagini. Ogni haiku è un colpo secco, un lampo che lascia intravedere un frammento di un incubo più grande. La scelta di non fornire contesto, di non offrire spiegazioni o digressioni, rende questi versi ancora più implacabili. Non c’è via di fuga per chi legge, così come non c’è via di fuga per chi vive la guerra.
Questa economia del linguaggio non solo rispecchia la crudeltà dell’esperienza bellica, ma riproduce anche il modo in cui il trauma si imprime nella memoria. La guerra non si racconta con lunghi discorsi, ma con immagini spezzate, con parole isolate che tornano ossessivamente, come schegge conficcate nella mente.
Uno degli aspetti più angoscianti di Guerra senza fine è l’assenza di una progressione temporale. Questi haiku non descrivono un prima, un durante e un dopo la guerra: ogni componimento è immerso in un presente stagnante, un eterno adesso in cui la violenza non ha inizio né fine.
Non ci sono battaglie epiche, non ci sono vittorie o sconfitte: la guerra è ridotta alla sua essenza più pura e crudele, fatta di attese, di corpi martoriati, di silenzi pesanti. È una guerra che continua anche dopo che le bombe hanno smesso di cadere, che rimane impressa nelle cicatrici, nelle macerie, negli occhi di chi è sopravvissuto ma non è mai davvero libero.
Questo senso di perenne ripetizione è sottolineato anche dalla disposizione degli haiku, che si susseguono come se fossero intercambiabili, come se la sofferenza che descrivono fosse sempre la stessa, replicata all’infinito. L’assenza di una narrazione lineare riflette l’idea che la guerra non appartiene solo al passato, ma è una costante che si ripresenta sotto forme diverse in ogni epoca.
Guerra senza fine non è una raccolta di poesie che si legge passivamente: è un’esperienza, un percorso dentro un territorio ostile in cui ogni verso è una trappola, ogni immagine un’esplosione di dolore. La sua forza sta nella capacità di colpire senza bisogno di enfasi, di comunicare l’orrore con il solo accostamento di poche parole essenziali.
Ciò che rimane alla fine non è un senso di chiusura o di comprensione, ma una ferita aperta, una consapevolezza più acuta della brutalità della guerra e della sua persistenza nella memoria individuale e collettiva. In un’epoca in cui il linguaggio è spesso diluito, in cui il dolore è mediato da narrazioni retoriche o spettacolarizzate, questa raccolta si impone come un atto di resistenza poetica: un richiamo alla realtà più nuda e più cruda, senza concessioni, senza compromessi.
E forse è proprio questa la sua verità più profonda: la guerra non ha fine, perché continua a vivere nei corpi, nelle parole, nei silenzi. E questi haiku, nella loro essenzialità spietata, ne sono la prova più incisiva.