Ho smarrito, lungo i meandri contorti del giorno, ogni parola che sapesse di gentilezza. Il dizionario che abitava la mia bocca si è fatto cenere e spine, lasciandomi in dote solo il sigillo avvelenato di segreti che nemmeno la notte osa confessare alla luna. Le mie membra, incartapecorite come pergamene abbandonate alla polvere, non sanno più cosa significhi la gioia: essa si dissolve, eterea e irraggiungibile, come il profumo di un fiore che mai sbocciò.
Sono il relitto dimenticato di una trincea senza gloria, sepolto sotto il peso di un destino che non si degna di raccontarmi il finale. La mia mente, fragile come un ramo spezzato in inverno, conosce la resa ma non la rinascita. Cresce in essa solo il germoglio nero delle vendette, quei frutti che maturano nel buio di una coscienza tarlata e stanca.
Attorno a me, la vanità siede su troni senza libro né leggio, e le parole che un tempo costruivano cattedrali di senso ora si disfano in polvere di calunnie. Le ire di questo secolo si accalcano, una dopo l’altra, in processione infinita, come eserciti di fantasmi che marciano verso una guerra senza vittoria.
Il mio ergastolo è uno zero maligno che si moltiplica su se stesso. Non c'è muro che possa arginare questa assenza che mi abita: un vuoto che respira e cresce, affamato di ogni eco di speranza.
E così, il tempo mi pesa addosso come una veste bagnata che aderisce alla pelle, lasciandomi intirizzito in questo inverno senza fine. Ogni ora che scorre non è che un’ulteriore catena, un anello freddo che si aggiunge al lungo rosario della mia pena. Gli spettri del passato si radunano ai piedi del mio letto, avidi di sussurri, ma io non ho più nulla da dire loro. Ho esaurito ogni racconto, ho svuotato la mia gola fino all’ultima sillaba amara, e ora resto qui, con il cuore che si contrae come un pugno chiuso nel silenzio.
Le notti si succedono, nere e opache, prive di sogni. E se pure mi fosse concesso di dormire, sono certo che i miei sogni non sarebbero che cimiteri, distese infinite di lapidi che portano inciso il mio stesso nome, ripetuto in una litania ossessiva. Ogni mattino, la luce che filtra dalle imposte sembra portare con sé solo il disprezzo del giorno nuovo, come se anche l’alba provasse disgusto per la mia esistenza.
Cammino tra le ombre della mia stanza come un re decaduto, signore di un regno di polvere e ragnatele. Ogni angolo sembra sussurrare contro di me, ogni specchio riflette un volto che non riconosco più, scavato da un tempo che non ha pietà né misericordia. Eppure, in questo nulla, trovo un perverso conforto. C’è un piacere sottile nel contemplare la propria rovina, come se, scrutandola abbastanza a lungo, potesse rivelarsi un'opera d’arte nascosta, una bellezza maledetta che solo gli occhi più disillusi possono scorgere.
Non temo più l’abisso: lo accolgo, lo abbraccio come un vecchio amico. Il mio ergastolo non è una punizione, ma un rifugio, un grembo oscuro che mi custodisce lontano dalla luce crudele del mondo. Qui, tra le ombre che danzano lente, ho trovato la mia pace: quella pace amara che somiglia a un bacio dato al veleno.
E nel bacio amaro, c’è una strana dolcezza che mi consuma come fuoco lento. Ogni respiro che prendo è un brindisi al veleno che mi scorre dentro, e in questa febbre dell’anima trovo una sorta di estasi. La mia solitudine diventa un’opera di cesello, ogni silenzio una scultura di pura assenza. Sono l’artigiano della mia stessa rovina, il raffinatore di un’angoscia che si avvolge su sé stessa con l’eleganza di un serpente addormentato.
Le mura della mia prigione, che credevo strette e soffocanti, si rivelano vaste come cattedrali gotiche. Ogni eco che rimbalza sulle pietre scrostate è una preghiera inversa, un’invocazione al cielo che cade nel vuoto prima ancora di lasciare le labbra. Ma che importa? Non ho più necessità di risposte, né di salvezza. La redenzione mi appare come un’ospite volgare, un intruso sgradito nel banchetto del mio dolore.
C’è bellezza, dopotutto, nell’accarezzare le proprie ferite con dita leggere, nell’indugiare sul loro bordo come su quello di un calice colmo di vino scuro. Ogni cicatrice che mi attraversa il cuore è una ruga preziosa su un volto che, sebbene sfigurato, si compiace della sua deformità. Se il mondo si ostina a respingermi, che sia: io danzerò nel mio esilio con la grazia di chi ha imparato a camminare sull’orlo del precipizio.
E se il tempo avanza con i suoi passi pesanti, che venga pure. Lo aspetto, seduto su un trono di malinconia, con la corona sghemba e il sorriso sardonico di chi sa che il vero potere sta nel non aspettarsi più nulla. Da questo trono silenzioso osservo il corteo di giorni sfilare, ognuno uguale al precedente, e li saluto con un cenno appena accennato, come un re che concede al proprio carnefice il permesso di procedere.
Alla fine, tutto si consuma in un’ultima risata, sussurrata appena, che si perde nel vuoto come un battito d’ali notturno. E forse, proprio in quel ridere sommesso, c’è l’eco della libertà.
E così, la mia risata, quella fragile scintilla nell’ombra, si spegne come un lume al termine di una veglia funebre. Ma nel dissolversi, lascia dietro di sé una scia dorata, un riflesso tenue che danza come fumo nell’aria pesante della mia cella interiore. Non è gioia, no — la gioia è un frutto marcio che non cresce più nei miei giardini. È piuttosto l’indolenza sublime di chi ha visto le proprie illusioni sfogliarsi una ad una, come petali troppo delicati per resistere al vento impietoso della verità.
Cammino tra i resti delle mie speranze con passo calmo, e le osservo come si osserverebbero reliquie profane in una chiesa sconsacrata. Eppure, in questi frammenti sparsi, trovo una sorta di ornamento. Il dolore si avvolge attorno a me come un manto regale, e io lo indosso con l’arroganza malinconica di chi sa che, tra tutte le ricchezze del mondo, la sofferenza è l’unica che nessuno può rubare.
Nel silenzio della mia stanza, sento i battiti del cuore rimbombare come passi solitari in una cripta. Ogni pulsazione è una nota grave che accompagna il canto funebre del mio spirito. E in quell’incessante ritmo mortuario, io stesso mi scopro strumento: una lira spezzata che ancora vibra sotto le dita invisibili del destino.
Le ore scivolano via, gocce nere che si fondono nell’oceano dell’eternità. E mentre sprofondo in questa notte senza stelle, il mio sguardo si alza verso il soffitto crepato, cercando una fessura, un punto dove la luce potrebbe ancora infiltrarsi, per poi accorgermi che preferisco il buio. Nel buio ogni cosa si confonde, ogni contorno si dissolve, e non c’è più bisogno di fingere.
Sono il prigioniero e il carceriere, il boia e il condannato, il poeta e la sua stessa poesia. E in questo gioco perverso, trovo la mia unica verità: che nulla mi appartiene, se non questo vuoto immenso che risuona dentro di me con la stessa maestà di un organo dimenticato.
Nel teatro muto della mia solitudine, le ombre a volte si animano, e mi parlano con la voce sommessa di antichi complici. Sono spettri gentili, ricordi travestiti da interlocutori, che si siedono accanto a me come vecchi amici che hanno attraversato le stesse tempeste.
«Ti sei lasciato consumare, vedo» sussurra uno di loro, appoggiandosi al bordo della mia poltrona con la noncuranza di chi sa di essere atteso. Ha il volto di un amore lontano, ma gli occhi sono quelli della notte.
«Non è il tempo che mi ha consumato» rispondo, con un sorriso che sa di ruggine. «È la noia, quel veleno sottile che goccia dopo goccia scava la carne più profondamente di qualsiasi coltello.»
Lo spettro ride piano, inclinando la testa come farebbe un amante che conosce i miei difetti meglio di me stesso. «La noia è una regina capricciosa, ma tu l’hai invitata. Le hai offerto la tua anima come si offre un calice colmo di vino.»
«Non si può respingere ciò che ci somiglia.»
Il silenzio ci avvolge di nuovo, ma il fantasma non se ne va. Resta lì, con le gambe accavallate, fissandomi come uno specchio sbeccato. E mentre lo guardo, comprendo che non è lui a essersi trattenuto — sono io ad averlo richiamato, con la forza oscura di chi non vuole restare solo nemmeno nel proprio dolore.
Le ore si srotolano lente, e altri fantasmi si uniscono a noi. Non dicono nulla, ma i loro occhi pesano su di me come pietre tombali. Uno si avvicina, mi sussurra parole che sembrano venire da un abisso:
«Non c’è via d’uscita, sai? Ogni passo ti riporta nello stesso punto.»
«Lo so.»
«E allora perché continui a cercarla?»
«Perché il cercare è l’unica cosa che rimane.»
La voce svanisce, lasciandomi con il suono del mio respiro. E in quella breve pausa, sento che potrei persino affezionarmi a questa compagnia silenziosa. In fondo, loro non chiedono nulla. Non pretendono spiegazioni né sperano in salvezze. Stanno lì, con la stessa fedeltà delle stelle dietro le nuvole.
«Se tutto deve finire così, perché non ridere?» sussurra di nuovo la voce del primo fantasma.
Sorrido, e il mio sorriso ha il sapore del ferro. «Perché la risata, a volte, è più crudele di qualsiasi pianto.»
La stanza si riempie di un’eco sottile, come di vetro che si incrina sotto il peso di qualcosa di invisibile. E in quel suono fragilissimo, scopro che persino la mia prigione può suonare come musica, se ascoltata abbastanza a lungo.
La stanza si restringe attorno a me come il velluto di una bara appena foderata. Ogni respiro si fa più denso, quasi dovessi filtrarlo attraverso la polvere degli anni accumulati tra queste pareti. I fantasmi non se ne vanno, anzi, sembrano moltiplicarsi, come se la mia malinconia li richiamasse a sciami, api nere attratte dal miele amaro della mia anima.
Uno di loro si avvicina di nuovo, la sua ombra si allunga sul pavimento, frantumandosi in linee oblique che tremano alla luce incerta della candela.
«E se spegnessimo tutto?» mormora, accennando con un dito sottile alla fiamma che danza.
«Sarebbe inutile,» rispondo, senza nemmeno voltarmi. «Non è questa luce a tenermi sveglio.»
Lo spettro ride, ma la sua risata è un soffio che fa rabbrividire le tende. «Oh, lo so bene. È il fuoco dentro di te che non si spegne mai. Ti divora lento, goccia a goccia, e tu lo alimenti con la stessa cura con cui un giardiniere annaffia le sue piante.»
«Che altro potrei fare? Lasciare che si spenga significherebbe accettare il nulla.»
Lo spettro si inginocchia accanto a me, il volto così vicino che potrei sentire il gelo della sua pelle, se solo avesse carne da offrirmi. I suoi occhi, due pozzi profondi, mi scrutano con la pazienza di chi sa attendere.
«Il nulla, a volte, è un rifugio più dolce del tormento. Ma tu non hai mai avuto il coraggio di abbracciarlo davvero.»
La sua voce mi ferisce più di quanto voglia ammettere. Distolgo lo sguardo, fissando la crepa sul muro davanti a me, quella sottile vena che serpeggia come un fiume secco, testimone di tutti i miei inverni interiori.
«Sei tu che non hai mai compreso,» dico piano. «Io non fuggo il nulla per paura, ma perché voglio assaporare ogni grammo del veleno che mi spetta. Non voglio sollievo, voglio che questa sofferenza mi scolpisca fino a rendermi una statua perfetta.»
Un altro spettro emerge dalla penombra, con le mani nascoste sotto un lungo mantello nero. «E quando la statua sarà completa? Cosa farai allora?»
Sorrido, inclinando la testa come chi ha già conosciuto la risposta e ne custodisce il segreto come un gioiello.
«Allora mi frantumerò, e i miei pezzi diventeranno reliquie per i pellegrini del dolore.»
Le ombre si ritirano lentamente, soddisfatte, lasciandomi solo con il battito incessante del cuore, quella vecchia pendola che scandisce il tempo con crudele precisione. Chiudo gli occhi per un istante, ma anche nell'oscurità le loro voci continuano a risuonare, morbide come il passo di un gatto su un pavimento di marmo.
E mentre sprofondo in questo silenzio fragile, sento che, forse, i fantasmi non sono mai stati altro che il riflesso più intimo di me stesso.
Ora che il silenzio è tornato, lo accolgo come un amante tardivo. Si distende accanto a me con la morbidezza di un sudario, avvolgendomi in un abbraccio che sa di resa. Non ho più bisogno di parole – né di quelle sussurrate, né di quelle scolpite a fuoco nella mia carne. Esse si sono disfatte come fiori appassiti, lasciando dietro solo profumo acre e petali sbiaditi.
La stanza è diventata un altare spoglio, consacrato a un culto che nessun dio riconoscerebbe. Eppure, in questa cattedrale senza fedeli, io celebro la mia messa privata con un fervore che non conosce distrazione. Ogni gesto, ogni sguardo gettato alle ombre, è una genuflessione involontaria, un rito che perpetuo senza sperare né temere la redenzione.
I muri si tingono di un’ombra più densa, come se il buio stesso stesse affilando i suoi artigli. E io, sacerdote di questa liturgia senza fine, mi lascio invadere da una dolcezza che ha il sapore di marciume. È una gioia contorta, quella che germoglia nel cuore di chi non cerca più salvezza. Forse, mi dico, la verità è che l’inferno non ha fiamme, né demoni dagli occhi ardenti. L’inferno è quieto, una lunga discesa nella propria intimità più torbida, dove ogni passo echeggia con un’eco sorda e indistinta.
Le candele bruciano lente, come se avessero giurato di non spegnersi mai, prigioniere anch’esse di questa eterna veglia. La cera si scioglie in rivoli bianchi che colano sui bordi del tavolo, ricordandomi lacrime che non verserò. Lascio che scorrano, che creino arabeschi sulla superficie scura. Ogni goccia sembra sussurrare una storia incompiuta, una confessione che il fuoco custodisce gelosamente.
Fuori, la notte preme contro i vetri con dita invisibili. Il mondo là fuori esiste ancora, ma mi appare remoto, come se appartenesse a un’altra epoca, a un’altra vita che non riesco più a riconoscere. Il tempo stesso sembra aver smesso di avanzare, lasciandomi incastonato in un frammento d’eternità che si ripete con la monotonia delle onde che lambiscono una riva deserta.
Mi chiedo se la mia anima non si sia già dissolta in questo buio, un filo sottile che si srotola lentamente fino a perdersi nel nulla. Ma poi sento il battito del cuore – sordo, regolare, ostinato. La carne resiste, anche quando lo spirito si lascia cullare dalla stanchezza.
E così resto, testimone silenzioso di me stesso, con gli occhi rivolti a un soffitto che non ha risposte. La notte è ancora lunga, e io l’accoglierò fino all’ultimo respiro, come si accoglie un dolore antico che, alla fine, ci diventa complice.