giovedì 31 luglio 2025

Il suono di una sola voce: rileggere Salinger oggi

La recente pubblicazione da parte di Einaudi di tre opere fondamentali di Jerome David Salinger — Nove racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: introduzione — in nuove traduzioni di Matteo Colombo, rappresenta un evento editoriale che impone, o quantomeno consente, una rilettura sistematica della poetica salingeriana, delle sue traiettorie tematiche e stilistiche, nonché del suo ruolo nella storia della letteratura del secondo Novecento. Si tratta, a ben vedere, non soltanto di un ritorno editoriale, ma di una riemersione nel tempo presente di un corpus letterario che ha profondamente segnato l’immaginario culturale del dopoguerra e che continua, a dispetto delle convenzioni generazionali o delle mode critiche, a interrogare il lettore contemporaneo con una forza inattesa, spesso disorientante, mai pacificata.

L’intervento di Colombo, uno dei traduttori più raffinati e versatili della narrativa anglofona contemporanea, non è da considerarsi un semplice aggiornamento lessicale, né una modernizzazione di superficie: è piuttosto un tentativo consapevole e ambizioso di restituire alla lingua italiana la complessità tonale, l’ambiguità emotiva, il ritmo ipersensibile del dettato salingeriano. A differenza di molte edizioni precedenti, dove le scelte stilistiche sembravano voler normalizzare o imbrigliare la voce dell’autore entro canoni espressivi più prevedibili, Colombo riesce a far emergere con rara fedeltà l’inquietudine latente, l’ironia assorta, la spiritualità nervosa che attraversano ogni pagina, ogni battuta di dialogo, ogni silenzio.

La struttura dei volumi ripubblicati offre una visione d’insieme significativa: Nove racconti, con la sua architettura frammentaria e sottesa da una sottile coerenza psicologica, rappresenta una sorta di atlante dell’inquietudine e del disincanto americano; Franny e Zooey, invece, intensifica il tono riflessivo e claustrofobico del teatro familiare, portando in scena il disagio esistenziale e il tentativo di redenzione spirituale di due giovani appartenenti alla genìa dei Glass, famiglia emblematica della produzione di Salinger; infine, Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: introduzione agisce come una stratificazione metanarrativa, in cui il racconto si fa commento del racconto, e l’autore si ritrae fino a lasciare che sia la memoria, lo stile e la fede nel linguaggio a parlare per lui.

Un aspetto centrale della poetica salingeriana, che emerge con rinnovata chiarezza nella nuova traduzione, è la tensione irrisolta tra il mondo e il rifiuto del mondo. Questa dialettica si esprime attraverso personaggi che sono insieme saggi e nevrotici, disillusi e purissimi, portatori di un’intelligenza ipersensibile che, più che decifrare la realtà, tende a dissolverla o trasfigurarla. I fratelli Glass — Seymour, Buddy, Zooey, Franny — non sono soltanto figure narrative: sono dispositivi simbolici, rappresentazioni di una coscienza che si interroga incessantemente sul senso della vita, della parola, della morte, senza mai concedersi il conforto dell’evidenza. Nei racconti più celebri — come Un giorno ideale per i pescibanana o Zio Wiggily nel Connecticut — questa postura esistenziale si traduce in una scrittura che è al tempo stesso iperrealista e astratta, legata ai dettagli minimi del quotidiano ma perennemente tesa verso l’assoluto.

In questo contesto si inserisce anche la celebre epigrafe zen che apre i Nove racconti: “Sappiamo il suono che fanno due mani quando battono, ma qual è il suono di una sola mano?” Il kōan, nella tradizione buddhista, non va interpretato razionalmente, ma esperito nella sua capacità di scardinare le categorie logiche dell’intelletto. Inserito come chiave d’accesso all’universo salingeriano, il kōan agisce come una soglia di senso: ci dice, implicitamente, che ciò che stiamo per leggere non sarà un realismo mimetico né un naturalismo morale, ma un insieme di parabole inquiete, di apparizioni linguistiche, di dialoghi che puntano all’illuminazione e trovano invece spesso solo un più profondo smarrimento.

La scelta di rilanciare questi testi proprio oggi non è affatto neutra. In un’epoca dominata dalla narrazione autobiografica, dalla confessione continua, dalla messa in scena dell’io in ogni forma possibile, Salinger offre un’alternativa etica e poetica radicale. La sua ritrosia leggendaria, la sua fuga dal mondo editoriale, il suo silenzio finale — durato decenni — non sono semplici tratti caratteriali o gesti di eccentricità, ma parti integranti della sua visione dell’arte come esercizio spirituale, come ascesi. Anche per questo, leggere Salinger oggi significa accettare una sfida: quella di un testo che non si offre facilmente, che chiede una sospensione dell’ego, una disponibilità al silenzio, un abbandono di ogni urgenza comunicativa.

Eppure, nonostante la profondità teologica e filosofica della sua scrittura, Salinger resta un autore popolare, capace di parlare a lettori di ogni generazione. Forse perché i suoi personaggi incarnano tensioni universali: il disagio dell’adolescenza, la vergogna di fronte alla superficialità del mondo, il bisogno di autenticità, il fascino (e il terrore) del pensiero religioso. Così capita spesso che chi abbia letto Il giovane Holden in gioventù, lo ricordi in modo impreciso, magari dicendo: “Sì, l’ho letto, ma non mi ricordo se mi fosse piaciuto o no.” È una frase che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà contiene una verità profonda: i libri di Salinger non sono pensati per piacere o non piacere. Sono esperienze interiori, stati mentali, luoghi di transizione. Si leggono, si dimenticano, si rileggono, e ogni volta sembrano dire qualcosa di diverso. Proprio come i grandi testi sapienziali, non ci appartengono: siamo noi a doverci, di volta in volta, rendere degni di ascoltarne il silenzio.

In definitiva, queste nuove traduzioni non sono solo un’occasione editoriale, ma un’operazione culturale che restituisce voce e corpo a un autore che, per molti, è rimasto un’icona sbiadita dell’adolescenza. Riscoprirlo oggi, nella sua interezza e con una lingua che ne rispetta le imperfezioni, le sospensioni, i fremiti interiori, significa anche riflettere su che cosa significhi ancora oggi credere nella letteratura. O, per dirla con una sola mano che batte: riconoscere nel silenzio il luogo più pieno del suono.

Questa operazione di riproposta editoriale, avvenuta in un momento storico in cui la centralità del testo letterario sembra continuamente messa in discussione dall’istantaneità mediatica e dalla pressione del contenuto digitale, si carica di un valore emblematico. Non si tratta semplicemente di rendere nuovamente disponibili tre volumi ormai difficilmente reperibili o di restituire visibilità a un autore che, in Italia, ha conosciuto fasi alterne di fortuna editoriale; si tratta, piuttosto, di riattivare una relazione interpretativa profonda, che investe tanto il lavoro del traduttore quanto l’esperienza del lettore. In questo senso, la cura e l’attenzione che Matteo Colombo ha dedicato alla restituzione della voce salingeriana non sono un dato meramente stilistico, ma vanno lette come un atto critico consapevole, come una presa di posizione teorica sull’idea stessa di “traduzione letteraria”.

Nel passaggio da una lingua all’altra, ogni testo subisce una forma di transustanziazione linguistica, semantica, persino ritmica. La lingua di Salinger è costellata di tratti idiosincratici, di inflessioni dialogiche, di espressioni idiomatiche che sfuggono alla classificazione: si tratta di una scrittura che vive, respira, si interrompe, cede, si sposta. Tradurre Salinger significa, quindi, affrontare un testo che non ha mai una superficie liscia. Ogni frase è un campo minato di toni affettivi: ironia, malinconia, rancore, entusiasmo mistico e disprezzo mondano coesistono nel giro di poche righe. Colombo riesce a evitare due trappole comuni: da un lato, la tentazione di “italianizzare” eccessivamente, rendendo i personaggi espressioni di un parlato stereotipato; dall’altro, il rischio opposto, quello di appiattire le sfumature nell’ambizione di fedeltà letterale. Il risultato è una lingua che suona vera, attuale, ma non contemporaneista, cioè non piegata a una moda linguistica momentanea.

Questo equilibrio, difficile da raggiungere, si rivela fondamentale soprattutto nei testi dedicati alla famiglia Glass, dove il linguaggio è spesso filtro e ostacolo al tempo stesso, luogo in cui il trauma si maschera da cultura, e il dolore prende la forma della citazione dotta o del sarcasmo affilato. Franny e Zooey, in particolare, è un testo delicatissimo da rendere in italiano: qui, la superficie del dialogo è attraversata da una densità intertestuale e affettiva che richiede non solo competenza, ma una vera empatia traduttiva. Colombo restituisce con misura il tono affannato, quasi claustrofobico, con cui i due fratelli Glass si confrontano nel bagno di casa: non c’è scampo, in quella stanza, e il linguaggio diventa un campo di battaglia tra disperazione e grazia. In questo senso, si può dire che Franny e Zooey sia un dialogo mancato che tenta di diventare preghiera. O forse una preghiera — il famoso “esicasmo” orientale, che Franny recita in silenzio — che tenta, fallendo, di farsi dialogo umano.

È in questo spazio sottile tra voce e silenzio, tra misticismo e nevrosi, che si colloca la specificità di Salinger come scrittore. Troppo spirituale per il realismo, troppo ossessivo per la mistica pura, troppo colto per la letteratura giovanile, troppo giovane per l’allegoria. È questa ambivalenza che lo rende ancora oggi un autore irrisolto, e proprio per questo vivo. Le sue pagine non chiudono, non suggellano: lasciano domande aperte. Non si offrono a una lettura pacificata, ma obbligano a sostare nella soglia. Forse è per questo che alcuni lettori — molti lettori — tornano a Salinger anni dopo averlo incontrato la prima volta. E, spesso, con una frase esitante: “Non ricordo se mi fosse piaciuto.” È un’espressione che, se letta bene, dice molto: indica che l’esperienza del testo non è stata assimilata del tutto, che qualcosa è rimasto sospeso. È come se Salinger non parlasse alla memoria razionale, ma a una parte più oscura, obliqua, della coscienza — quella dove non si ricordano i contenuti, ma le sensazioni. Dove un racconto può lasciare un’impronta senza aver mai lasciato un’opinione.

All’interno del contesto editoriale italiano, questa ripubblicazione acquista inoltre un valore emblematico, poiché si inserisce in una stagione in cui si è risvegliato un interesse verso le nuove traduzioni di classici del Novecento americano. Pensiamo, per fare un esempio, alla nuova traduzione di Il grande Gatsby curata da Franca Cavagnoli, o al rinnovato interesse per autori come Flannery O’Connor, Shirley Jackson, Carson McCullers. In questo scenario, il ritorno di Salinger si pone come uno degli snodi più delicati e complessi, proprio per la sua natura di autore “postumo in vita”, il cui silenzio è diventato parte integrante della sua identità culturale. Riportarlo alla luce significa, in un certo senso, sottrarlo a quella mitologia del recluso e restituirlo al lettore come un autore vivo, problematico, imperfetto, ma ancora necessario.

Il gesto editoriale che ripropone Nove racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri in nuove traduzioni non è soltanto un’occasione per rileggere Salinger, ma un banco di prova per il lettore contemporaneo. Quanto siamo ancora capaci di ascoltare una voce che parla in modo esitante, che non urla ma sussurra, che non offre risposte ma solo domande sempre più profonde? Quanto siamo disponibili a confrontarci con una scrittura che non gratifica, che non si concede, che, come la mano che batte da sola nel kōan zen, produce un suono che esiste solo se lo si è disposti ad ascoltare davvero?

Forse, per capire Salinger, occorre disimparare qualcosa. Occorre mettere da parte l’urgenza del significato, la fretta dell’interpretazione, il desiderio di riconoscersi subito nei personaggi. Occorre leggere in punta di piedi. E accettare che a volte la letteratura non sia lì per intrattenerci o per rassicurarci, ma per farci sentire, anche solo per un attimo, il suono sottile e straniante dell’essere. Un suono che non si lascia spiegare, ma solo attraversare. Come quello di una mano sola, che batte nel vuoto.

mercoledì 30 luglio 2025

Il deserto delle parole: scrivere nell’era dell’inefficienza

C’è un silenzio che non è più semplice assenza di suono. È un silenzio che abita le case, le strade, i luoghi di incontro; che si deposita negli oggetti, nei gesti quotidiani, persino nei nostri pensieri. Non è il silenzio della pace o della meditazione, ma un silenzio vuoto, scostante, che non prepara, non accoglie, non apre a nulla. È un silenzio che chiude, che sottrae possibilità, che impoverisce.

In questo silenzio, la consapevolezza arriva come una rivelazione lenta ma implacabile: nessuno sembra più interessarsi a nessuno. Non è una frattura improvvisa, non c’è stato un evento singolare che l’ha generata; è piuttosto una trasformazione molecolare, accumulata nel tempo, invisibile, che ha scavato sotto le fondamenta delle relazioni. Viviamo immersi in una società che ha smarrito il desiderio stesso dell’altro.

Non c’è più spazio per il contatto autentico, quello che un tempo era ordinario, quasi banale: parlare occhi negli occhi, ridere insieme, mangiare e bere come se il semplice fatto di essere presenti nello stesso luogo fosse già un motivo di gioia. Tutto questo ora appare remoto, quasi mitologico: un tempo in cui la vicinanza era una prassi e non un lusso. Oggi il contatto è filtrato, mediato, ridotto a immagine, a segnale, a traccia digitale. E la memoria di ciò che eravamo diventa quasi dolorosa, come il richiamo a una lingua che non sappiamo più parlare.

Qualcuno ha detto: “Ricorda la terra, gli orti, la fatica delle mani immerse nella zolla, la prossimità semplice e necessaria degli altri.” Parole che pesano come pietre, perché ricordare significa ammettere la perdita. E nella perdita, la scrittura assume un significato diverso: non più atto libero, ma gesto di sopravvivenza, di accatto, di negoziazione. Scrivere diventa cercare favori, amicizie funzionali, alleanze di breve durata, persino amanti provvisori, tutto ridotto a scambio e baratto.

In questa condizione, dire la verità diventa rischioso. Io, che non ho mai amato il silenzio accomodante, so che ogni parola è un colpo a un fragile vaso di porcellana cinese: la rappresentazione di un’identità costruita e tenuta insieme solo per consuetudine. Quel vaso è già scheggiato, già incrinato, e dentro di esso c’è qualcosa che non dimentica e non perdona: un’insofferenza nata dall’abbandono, dall’indifferenza, dall’incomunicabilità. Questa insofferenza si amplifica e diventa grido, un grido che attraversa la letteratura e denuncia una realtà imbarazzante: pubblicare non è mai stato un diritto, ma un privilegio fragile, un miraggio concesso a pochi, negato a molti.

C’è una memoria che non smette di bussare, una memoria che non si lascia archiviare come un file, che non vuole diventare un semplice documento. È la memoria di un tempo in cui la scrittura era legata all’esperienza, un’estensione naturale dell’essere con gli altri. Scrivere era portare un pezzo di mondo dentro la pagina, era aprire un varco per condividerlo. Ora questa memoria appare quasi sospetta, come un ricordo che disturba, che interrompe l’inerzia di ciò che è diventato normale: scrivere senza lettore, parlare senza ascolto, produrre senza ricevere risposta.

Questa trasformazione non riguarda solo l’atto tecnico dello scrivere: riguarda il senso stesso del gesto. Perché quando la scrittura perde il suo destinatario reale, cambia natura. Diventa autoconservazione, un modo per non dissolversi, un’azione simile a respirare in una stanza chiusa. Non è più comunicazione, ma funzione vitale minima: mantenersi in vita come scrivente, non come autore.

E allora appare chiara un’asimmetria: pochi che riescono a pubblicare, moltissimi che restano nell’ombra. Una sproporzione che è sempre esistita, ma che oggi è diventata condizione costitutiva, sistema stabile, quasi un dogma implicito. E per sopravvivere a questa asimmetria, nascono dottrine consolatorie: “Non serve l’autorialità”, “Non serve essere visti”, “Scrivi per te stesso, basta e avanza.” Sono idee che sembrano liberatorie, ma in realtà anestetizzano, attenuano il dolore senza curare la ferita.

La ferita resta, eccome se resta: la ferita di un linguaggio che non incontra più. Perché la scrittura senza incontro non è solo incompleta: è inefficiente, sterile, accumulativa. È come costruire archivi che nessuno consulterà mai, come collezionare chiavi senza avere più porte da aprire. Non è questione di stile, non è una colpa personale: è una condizione generale, sistemica, che riguarda tutti.

E quando cade il patto tra chi scrive e chi legge, non si rompe solo un legame professionale o estetico: si rompe un’idea di comunità. Scrivere è sempre stato, in fondo, un atto di relazione: “Io ti dico, tu mi ascolti; io immagino, tu abiti la mia immaginazione con la tua presenza.” Senza questa reciprocità, le parole diventano puro deposito, un accumulo inerte, una zavorra.

Questo non è un semplice problema culturale: è un sintomo antropologico. È la prova che l’idea stessa di prossimità è in crisi, che non sappiamo più come stare insieme, che non ci riconosciamo più in uno spazio comune. Una letteratura inefficiente non è solo una letteratura che non vende: è una letteratura che testimonia la frattura sociale, il venir meno di una fiducia di base. È un sintomo che parla di noi come comunità, non solo di noi come autori o lettori.

Quando un sistema collassa non lo fa con un grande boato, ma con un lungo, quasi impercettibile cedimento. Così accade alla scrittura: non c’è un singolo evento che decreta il suo fallimento, ma un susseguirsi di piccoli mutamenti che si sommano, che si stratificano fino a diventare irreversibili. Non è un crollo spettacolare, ma una lenta erosione, una sabbia che consuma la roccia finché la roccia non cede, e lo fa senza rumore.

Il primo segno di questo collasso è l’accumulo sterile. Non più opere che generano dialogo, ma testi che si ammassano come rottami: scritti che non incontrano lettori, che non entrano mai in una relazione viva. È un fenomeno vasto, che attraversa tutti: dai diari personali alle piattaforme social, dai manoscritti dimenticati alle pubblicazioni autoprodotte. È come se la scrittura stessa fosse diventata un deserto: un luogo pieno di oggetti, di resti, ma privo di movimento vitale.

Questa condizione non è solo estetica, non è un problema di qualità. È strutturale, e riguarda l’ecosistema stesso delle relazioni. Perché una scrittura inefficiente non è inefficiente solo come prodotto culturale, ma come pratica umana. Quando il testo non incontra nessuno, non si limita a non essere letto: smette di essere un ponte, smette di essere un atto di relazione. Si trasforma in un monologo senza destinatario, in un gesto che imita la comunicazione ma non la produce.

In questa situazione, la domanda si impone con forza, con crudezza: perché continuiamo a scrivere? Qual è il senso di un atto che non arriva a destinazione? È un atto di fede, una dichiarazione di resistenza, o semplicemente un’abitudine che non sappiamo interrompere? Scrivere per chi non leggerà mai è come parlare in una stanza vuota, come gettare un sasso in un lago prosciugato: il gesto esiste, ma non produce eco.

E qui nasce un’altra domanda, ancora più radicale: è la scrittura a essere in crisi o è la nostra capacità di incontro? Forse la letteratura inefficiente non è la causa, ma il sintomo: il segno visibile di un mondo che non sa più costruire relazioni stabili, che non sa più creare luoghi di scambio autentico. Forse la scrittura ci mostra semplicemente ciò che siamo diventati: una moltitudine di solitudini, ognuna chiusa nel proprio spazio, ognuna impegnata a produrre segni che nessuno raccoglierà mai.

Così, scrivere diventa simile a camminare nel deserto: un gesto di sopravvivenza più che di comunicazione, un atto che serve a se stessi più che agli altri. Non è più un’offerta, ma un bisogno minimo: respirare, lasciare traccia del proprio passaggio, segnare un punto su una mappa che nessuno consulterà. E in questo deserto, la domanda finale si fa più aspra: stiamo ancora comunicando o ci stiamo solo convincendo di farlo?

Ciò che colpisce, più di ogni altra cosa, è la naturalezza con cui accettiamo questa condizione. Nessuna ribellione, nessun rifiuto esplicito, nessuna grande protesta. Continuiamo a scrivere, come se fosse inevitabile, come se il gesto stesso fosse più importante dell’esito. È un automatismo culturale: abbiamo imparato a produrre parole come si impara a respirare, senza chiederci perché. Non importa più se qualcuno ascolta, se qualcuno legge: importa solo che la macchina non si fermi, che il movimento continui.

Ma è davvero movimento? O è solo un’illusione, un modo per non guardare in faccia la staticità che ci circonda? Perché ogni testo, ogni parola, ogni immagine condivisa senza destinatario reale è come un passo compiuto su un tapis roulant: un’azione che imita il viaggio ma che non porta da nessuna parte. È un dinamismo apparente, un giro perpetuo che serve a illudere di essere ancora vivi, di essere ancora connessi, di essere ancora “dentro” qualcosa.

Questa illusione è potente perché maschera un fallimento più profondo, un fallimento antropologico: quello dell’incontro. Abbiamo perso la capacità di incontrarci davvero, di esporci al rischio dell’altro, di accettare la vulnerabilità che ogni relazione comporta. Abbiamo sostituito il volto con la sua immagine, il gesto con la sua replica digitale, la voce con la sua registrazione. E nel farlo, abbiamo accettato una perdita enorme: la perdita dell’imprevisto, del non controllato, del vivo.

La scrittura, in questo contesto, diventa la cartina di tornasole di un’intera identità collettiva. Perché la letteratura non è mai stata solo un insieme di libri: è stata un modo di abitare il mondo insieme, un modo di scambiare esperienze, di immaginare comunità. Se oggi la scrittura è inefficiente, è perché lo è diventata anche la nostra idea di comunità. Non siamo più capaci di immaginare un “noi” che non sia frammentato, parziale, temporaneo.

E allora, dietro l’inefficienza letteraria, c’è una domanda più vasta, che non riguarda solo gli autori, i lettori o l’editoria: riguarda noi come specie sociale. Abbiamo ancora la capacità di immaginare un futuro condiviso? O stiamo semplicemente documentando, in silenzio, la nostra disgregazione? Ogni testo che non trova un lettore diventa una piccola testimonianza di questo smarrimento, un frammento che dice: “Eravamo qui, ma non ci siamo incontrati.”

C’è una memoria che non appartiene solo alla mente, ma al corpo. Una memoria fatta di gesti, di ritmi, di rituali condivisi. Il corpo ricorda la stretta di mano, il calore della vicinanza, la tensione di uno sguardo reciproco che non ha bisogno di parole per essere completo. Questa memoria, oggi, è come un’eco lontana, un suono che riconosciamo ma che non sappiamo più riprodurre.

Una volta, il mangiare insieme non era solo un atto di nutrizione: era un rito. Sedersi intorno a una tavola significava sospendere il tempo della produzione, del lavoro, del calcolo, per entrare in un tempo altro: un tempo di relazione. Il rito della tavola, del brindisi, della risata comune, era un modo per confermare ogni giorno l’esistenza di un legame. Era una forma di linguaggio del corpo: un linguaggio che oggi abbiamo perso o trasformato in simulacro, in evento fotografabile e condivisibile, svuotato del suo spessore reale.

La scrittura stessa, un tempo, aveva qualcosa di rituale. Non era solo trasmissione di contenuti, ma un gesto denso di intenzione: scrivere significava dire “ti vedo, ti penso, ti includo nel mio mondo.” Oggi quel gesto è cambiato: si scrive perché si deve, si scrive per riempire un vuoto, per non sparire del tutto. Non c’è più il patto implicito con chi leggerà, perché non c’è più la certezza che qualcuno leggerà davvero.

Si potrebbe immaginare di ricostruire quel patto, ma è un’impresa che richiederebbe non solo nuovi strumenti, ma un cambiamento radicale di mentalità. Perché un patto non è mai solo tecnico: è un atto di fiducia. È dire: “Io mi espongo e tu mi accogli, tu ti esponi e io ti accolgo.” In un mondo che vive di autosufficienza, che celebra l’indipendenza come valore assoluto, la fiducia diventa quasi un atto sovversivo.

È possibile ricostruirlo? Forse sì, ma non senza pagare un prezzo. Bisognerebbe accettare di essere vulnerabili, di rinunciare a parte dell’autonomia che oggi difendiamo come un totem. Bisognerebbe accettare il rischio dell’incontro, con tutto ciò che comporta: il rischio di essere rifiutati, fraintesi, giudicati. Solo così la scrittura potrebbe tornare a essere relazione, scambio, rito.

Ma siamo pronti? O preferiamo continuare a scrivere come ora: senza destinatario, senza rischio, senza patto, in un circuito che ci tiene occupati senza davvero toccarci?

La scrittura, in fondo, è uno specchio implacabile. Riflette ciò che siamo, senza filtri, senza edulcorazioni. Se la scrittura è inefficiente, sterile, inefficace, allora significa che anche noi siamo così. Un popolo frammentato, che fatica a incontrarsi, che ha smarrito la forza della parola condivisa e la profondità del silenzio condiviso.

Questo specchio può essere spietato, ma è anche un dono. Perché offre una possibilità di consapevolezza, una chance per uscire dall’inganno dell’illusione. La scrittura inefficiente parla chiaro: ci dice che non basta più raccontarci storie individuali, che non basta più produrre testi come fossero gocce isolate in un mare infinito. Ci invita a cercare un linguaggio nuovo, un linguaggio che sappia includere, che sappia tessere fili tra isole separate, che sappia costruire ponti e non muri.

Ma quale linguaggio? Forse un linguaggio che ritorni a essere corpo, respiro, gesto; un linguaggio che non si limiti alla parola scritta, ma che sappia mescolare suoni, silenzi, presenze. Forse un linguaggio che riconosca la vulnerabilità come forza, la fragilità come luogo di incontro. Un linguaggio che sappia dire “noi”, e non solo “io”.

La domanda che rimane, allora, è quella che ha attraversato tutto questo discorso: abbiamo ancora la forza di ricostruire? Abbiamo ancora la capacità di immaginare una comunità che non sia soltanto somma di solitudini, ma un organismo vivo, capace di relazioni autentiche?

La scrittura può essere questo, e forse lo è sempre stata: il luogo dove si costruisce e si ricostruisce l’identità collettiva, il teatro della nostra presenza insieme. Ma solo se smettiamo di scrivere per riempire un vuoto sterile, e iniziamo a scrivere per tessere relazioni vive.

E allora, forse, la vera sfida è qui: tornare a guardare negli occhi, a ridere insieme, a mangiare insieme. Tornare a scrivere insieme, non soli.

Tornare a guardare negli occhi: questa frase risuona come un mantra, un richiamo antico e al tempo stesso urgente. Perché lo sguardo è più di un semplice atto visivo; è un atto di presenza, un riconoscimento reciproco, una conferma che l’altro non è solo un’ombra o un riflesso, ma un essere in carne e ossa. Lo sguardo dice: “Ti vedo, esisti, sei qui con me.” È il primo gesto della relazione, il primo passo fuori dalla solitudine.

Ma lo sguardo è anche vulnerabilità: esporsi allo sguardo dell’altro significa perdere un po’ della propria difesa, mostrare le crepe, le paure, i desideri nascosti. Ecco perché spesso lo evitiamo, preferendo la distanza sicura di uno schermo o la mediata presenza di un testo digitale. È più facile leggere una parola che incontrare un volto, più facile scrivere un post che sostenere un dialogo.

Tornare a ridere insieme è tornare a condividere uno spazio di leggerezza, di sospensione dalle pesantezze del mondo. La risata è un suono che unisce, una vibrazione che attraversa corpi e cuori. Ridere insieme significa creare una comunione effimera ma reale, un patto di fiducia e di gioia. È un rito spontaneo che rivela ciò che ci unisce al di là delle parole.

Tornare a mangiare insieme: un gesto apparentemente semplice, eppure carico di senso. Sedersi a tavola non è solo nutrirsi, è condividere un tempo che si sottrae alla frenesia, è fermarsi a riconoscersi in un cerchio di umanità. Il pasto comune è un rito antico, la base di ogni comunità. Perderlo significa perdere anche quella trama di piccoli legami quotidiani che ci rendono parte di qualcosa.

Questi tre atti – guardare, ridere, mangiare insieme – formano un nucleo essenziale di ciò che significa vivere in relazione. Sono gesti che la scrittura può evocare, può tentare di riprodurre, ma che non può sostituire pienamente. La scrittura può aprire la strada, può indicare la direzione, ma non può mai sostituire il corpo che si incontra, il respiro che si condivide, la presenza che si fa tangibile.

E allora si apre una tensione profonda: quella tra la solitudine della scrittura e il desiderio di comunità. La scrittura nasce spesso nella solitudine, è un atto individuale, intimo, talvolta doloroso. Ma questa solitudine non deve diventare isolamento definitivo. Deve restare un luogo di partenza, non una condizione permanente.

La sfida è imparare a tessere fili tra queste solitudini, a costruire reti di significato che non siano semplici aggregazioni ma vere comunità di senso. Una rete dove ogni voce sia riconosciuta, ascoltata, valorizzata, e dove la scrittura diventi strumento di incontro, non solo di espressione.

Forse la scrittura inefficiente è il segno che abbiamo smarrito questa strada, ma anche un invito a ritrovarla. Un invito che possiamo accogliere solo se siamo pronti a uscire dall’egodromo, a lasciare la circolarità sterile e a lanciarsi nel rischio del vero incontro.

Alla fine, resta la tensione tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, tra la solitudine che ci definisce e la comunità che ci chiama. La scrittura, con tutta la sua fragilità, è forse l’ultimo luogo dove questa tensione può trovare voce, dove il desiderio di relazione può manifestarsi anche nel mezzo del silenzio.

Non è un luogo facile, non è un luogo garantito. Scrivere significa esporsi, rischiare di non essere visti, di non essere compresi, di restare soli con la propria voce in un deserto che sembra infinito. Ma è anche un gesto di coraggio, un atto di fede nella possibilità di un incontro, nella forza di una parola che attraversa il tempo e lo spazio per raggiungere un altro.

Abbiamo davanti una responsabilità: non lasciare che la scrittura diventi solo un’eco vana, un rituale senza significato, ma renderla strumento di costruzione, di apertura, di riconoscimento. Ricostruire, passo dopo passo, quel patto antico che ha fatto della parola scritta un ponte tra esseri umani.

E questo richiede qualcosa di più di tecniche, strategie o innovazioni digitali. Richiede un ritorno all’essenziale: al corpo, al gesto, allo sguardo, al respiro. Richiede di ritrovare la capacità di dire “tu”, di aprirsi al rischio dell’altro, di accettare la fragilità come parte della forza.

La scrittura inefficiente ci parla di una crisi profonda, ma ci parla anche di una possibilità. La possibilità di riscoprire che, oltre la solitudine, esiste ancora la comunione; che, oltre il silenzio, può ancora esserci ascolto; che, oltre il deserto, può ancora germogliare vita.

Sta a noi scegliere.


Un frammento giottesco per il Vaticano: storia, attribuzione e riscoperta di un’opera dimenticata

All’interno delle collezioni dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze è emerso un frammento pittorico di straordinario interesse storico e artistico, riconducibile alla mano di Giotto e destinato originariamente al contesto vaticano. Si tratta di un dipinto su tavola di modeste dimensioni (33x36 cm), raffigurante una figura maschile, e proveniente da una struttura di supporto precedentemente ritenuta parte di una cuspide decorativa. La sua attribuzione a Giotto, sostenuta oggi da un crescente consenso tra studiosi, rappresenta un ulteriore tassello nell’indagine sulle opere del maestro fiorentino e sul ruolo da lui svolto nella prima decorazione della Basilica di San Pietro.

1. Provenienza e contesto originario

L’opera giunse all’Opificio delle Pietre Dure nel 1938 come “deposito” dai Musei Vaticani, priva di attribuzione certa e considerata, fino a tempi recenti, un frammento di scarso rilievo. Solamente un attento esame tecnico-scientifico e l’iniziativa di una nuova campagna di studio hanno permesso di individuarne la vera origine e il contesto culturale: essa risalirebbe alla prima metà del XIV secolo, e sarebbe parte di un più ampio apparato decorativo commissionato da papa Bonifacio VIII per il Giubileo del 1300. In tale occasione, la Cappella delle Reliquie (detta anche Sancta Sanctorum) presso la vecchia Basilica di San Pietro venne impreziosita da un ciclo pittorico monumentale. Giotto, artista già affermato e noto a Roma per la sua attività presso San Giovanni in Laterano, sarebbe stato coinvolto nei lavori decorativi di quel sacro ambiente, oggi quasi del tutto perduto.

2. Attribuzione e confronti stilistici

L’ipotesi di un’attribuzione a Giotto fu avanzata per la prima volta da Federico Zeri nel 1985, in un testo rimasto inedito, ma soltanto recentemente essa ha trovato conferme significative grazie al lavoro di Cecilia Frosinini, già direttrice del Settore restauro dipinti dell’Opificio. Gli elementi stilistici della figura dipinta – lo sguardo penetrante, il volume plastico del volto, la resa chiaroscurale delle vesti – presentano analogie evidenti con le opere certe di Giotto, in particolare con i personaggi della Cappella Peruzzi e con le figure dei cicli romani. L’analisi tecnica ha confermato l’uso di una preparazione a base di gesso e colla animale, tipica della bottega giottesca, e pigmenti compatibili con quelli riscontrati in altri dipinti del maestro.

Va inoltre segnalato che il frammento presenta un taglio netto e una conservazione parziale, probabilmente dovuti a un’asportazione forzata o a un crollo del supporto originario. La mancanza di cornice e la forma irregolare hanno reso difficile per lungo tempo il suo inquadramento tipologico.

3. La committenza papale e la dispersione del ciclo pittorico

Il Giubileo del 1300, voluto da Bonifacio VIII, rappresenta un momento cruciale nella storia della Chiesa e nell’affermazione del papato come centro universale di potere spirituale. La decorazione della Cappella delle Reliquie, destinata a contenere i più preziosi tesori della cristianità, tra cui il sudario di Cristo e la Veronica, doveva riflettere questa centralità. Il coinvolgimento di Giotto – verosimilmente documentato anche da fonti indirette – si inserisce in questo disegno politico e teologico.

Tuttavia, le trasformazioni urbanistiche e architettoniche avvenute nei secoli successivi, in particolare con la demolizione della vecchia Basilica e la costruzione della nuova San Pietro, hanno provocato la distruzione o la dispersione di gran parte delle decorazioni originarie. Il frammento oggi conservato a Firenze costituirebbe, pertanto, l’unico superstite materiale di quel ciclo, un relitto prezioso che restituisce, seppur in minima parte, la visione originaria di una Roma giottesca.

4. Il ruolo dell’Opificio delle Pietre Dure

L’intervento di restauro condotto dall’Opificio ha avuto un ruolo fondamentale nel recupero dell’opera. Oltre alla pulitura e al consolidamento della pellicola pittorica, si è proceduto a una nuova campagna di indagini non invasive (fotografie multispettrali, riflettografia IR e analisi XRF) che hanno permesso di stabilire con maggiore sicurezza l’attribuzione. L’ente fiorentino ha reso pubblici i risultati nell’ambito delle celebrazioni per i 50 anni dell’istituzione del proprio Laboratorio dipinti su tavola e tela, confermando la vocazione dell’Opificio non solo alla tutela materiale, ma anche alla valorizzazione critica del patrimonio storico-artistico italiano.

5. Considerazioni conclusive

Il frammento restituito alla luce, pur nella sua frammentarietà, offre uno squarcio sul linguaggio figurativo di Giotto in ambito romano e sul rapporto tra arte e potere nella curia papale di inizio Trecento. La sua riscoperta sollecita nuove indagini e interrogativi, aprendo la possibilità che altri lacerti di quel ciclo perduto possano emergere dagli archivi o dalle collezioni, magari in forma altrettanto anonima.

In definitiva, il caso di questo piccolo dipinto su tavola esemplifica l’importanza del lavoro interdisciplinare tra storici dell’arte, restauratori e istituzioni museali, mostrando come anche una “reliquia” artistica marginale possa diventare chiave interpretativa di una stagione culturale fondativa dell’arte italiana.


martedì 29 luglio 2025

Aeneas, l’intelligenza artificiale che restituisce voce alle pietre: un cambio di paradigma per l’epigrafia latina

L’epigrafia è sempre stata una disciplina complessa e affascinante. Essa vive su una soglia peculiare: è allo stesso tempo scienza storica, per la rigorosa ricostruzione dei testi e dei contesti, e atto di interpretazione quasi poetica, perché lavora su frammenti, lacune e silenzi della materia. L’iscrizione antica è un oggetto ambivalente: materiale, perché incisa su pietra, metallo o terracotta; ma anche linguistico, perché il suo contenuto testuale rimanda a istituzioni, eventi e individui. Spesso l’epigrafista si trova a confrontarsi con superfici erose, con lettere mutilate e parole interrotte che esigono congetture. Per questo, l’annuncio, nel luglio 2025, di un modello di intelligenza artificiale capace di ricostruire, datare e contestualizzare epigrafi latine — il modello «Aeneas» — segna un cambiamento di portata metodologica notevole.

Una tecnologia con un nome emblematico

Il nome «Aeneas» non è casuale: evoca l’eroe troiano errante, figura di sopravvivenza e fondazione. Così come Enea, dopo la distruzione di Troia, si fa portatore di una memoria che cerca un nuovo luogo di esistenza, così questa IA restituisce voce a testi mutili, permettendo loro di “migrare” dalla condizione frammentaria a una nuova intelligibilità. L’analogia è potente, perché sintetizza in un’immagine epica l’obiettivo scientifico: dare nuovamente un senso alle parole che il tempo ha smarrito.

Il modello è stato sviluppato da Google DeepMind, in collaborazione con le università di Nottingham, Oxford, Warwick e AUEB, e presentato in un articolo su Nature. È stato addestrato su un corpus imponente di circa 200.000 iscrizioni latine, tratte dai principali archivi digitali (Epigraphik-Datenbank Clauss/Slaby, Epigraphic Database Heidelberg, Epigraphic Database Roma), coprendo un arco temporale dal VII secolo a.C. fino all’VIII secolo d.C. Tale ampiezza permette ad Aeneas di possedere una visione complessiva, sia linguistica sia geografica, delle pratiche epigrafiche del mondo romano.

Come funziona Aeneas: oltre la semplice ricostruzione testuale

Molti sistemi di intelligenza artificiale si limitano a una funzione predittiva elementare: completare parole mancanti. Aeneas invece propone un salto qualitativo. Non solo ricostruisce lacune testuali, anche di lunghezza ignota, con un’accuratezza che sfiora il 73% (58% in assenza di indicazione di lunghezza), ma integra la ricostruzione con due livelli di analisi complementari: la datazione e l’attribuzione geografica.

La datazione viene stimata con un margine d’errore medio di tredici anni, migliorando in modo sensibile la media umana (circa trentuno anni). L’attribuzione geografica raggiunge il 72% di accuratezza, distinguendo fra le 62 province dell’Impero romano. Ma ciò che rende Aeneas radicalmente innovativo è la capacità di accompagnare le proprie proposte con un apparato di spiegazioni: per ogni integrazione suggerita, fornisce una serie di epigrafi parallele, selezionate in base alla somiglianza formale e contestuale. In questo modo, il modello non si limita a restituire un testo, ma costruisce una rete di riferimenti, una mappa di somiglianze verificabile dagli studiosi.

È un punto metodologico cruciale: uno dei limiti delle IA generative generiche è la loro opacità; l’utente riceve un output senza sapere su quali basi sia stato prodotto. Aeneas invece esplicita le proprie “fonti interne”, mostrando quali iscrizioni hanno informato la previsione. In questo modo, il processo interpretativo umano non viene sostituito, ma potenziato: lo studioso può valutare la pertinenza delle proposte, accettarle, rifiutarle o discuterle, mantenendo un controllo critico.

Verifica sperimentale e casi di studio

La sperimentazione ha coinvolto 23 epigrafisti professionisti, chiamati a testare il modello su diversi casi di lacune. In oltre il 90% dei casi, i partecipanti hanno considerato le proposte di Aeneas pertinenti e utili al lavoro interpretativo. Un caso emblematico è quello delle Res Gestae Divi Augusti, l’iscrizione programmatica con cui Augusto racconta le proprie imprese. Il modello, analizzando le varianti testuali, ha individuato due possibili finestre temporali di composizione: intorno al 10 a.C. e nel periodo 10–20 d.C., riflettendo con precisione le due principali ipotesi in discussione da decenni. In tal senso, Aeneas non produce una verità assoluta, ma una gamma di scenari coerenti, riproducendo i margini d’incertezza tipici della ricerca storica.

Una piattaforma open-source per le scienze umane

Aeneas non è un progetto chiuso. Il modello e i dataset su cui è stato addestrato sono disponibili in forma open-source attraverso la piattaforma “Predicting the Past”. Questo aspetto è importante non solo per ragioni etiche (trasparenza e accessibilità), ma anche per la possibilità di sviluppi futuri. Si aprono prospettive interdisciplinari: l’integrazione con archeologia, storia sociale, linguistica storica, fino a nuove applicazioni didattiche per studenti di epigrafia.

L’arrivo di un’IA di questo tipo nelle scienze dell’antichità apre tuttavia anche un dibattito teorico: quale ruolo rimane all’interpretazione umana? La domanda è tutt’altro che banale. L’epigrafia, infatti, non è mai stata solo una scienza della ricostruzione materiale, ma anche un esercizio di giudizio storico e culturale. Aeneas non elimina questa componente: offre ipotesi, non verdetti. Ma obbliga a ripensare la distribuzione delle competenze: l’esperto umano, liberato da parte del lavoro più ripetitivo (la ricerca di formule parallele, la comparazione di contesti), può dedicarsi alle domande più complesse e qualitative.

Implicazioni metodologiche e culturali

Dal punto di vista metodologico, l’esistenza di Aeneas suggerisce che la filologia classica può trarre beneficio dall’ibridazione con l’intelligenza artificiale, senza perdere la propria identità critica. La possibilità di consultare in tempo reale migliaia di paralleli e di elaborare rapidamente scenari contestuali offre un supporto impensabile con le sole risorse umane. Si tratta di un cambiamento che può essere paragonato, per importanza, alla creazione degli archivi epigrafici digitali degli anni Novanta, o all’introduzione della fotografia per la documentazione archeologica.

Dal punto di vista culturale, Aeneas testimonia come l’intelligenza artificiale non sia destinata esclusivamente ad ambiti tecnologici o industriali, ma possa essere impiegata per ampliare la nostra memoria storica. È significativo che una delle prime applicazioni avanzate di IA nel settore umanistico riguardi proprio le iscrizioni: testi pubblici, nati per essere letti e ricordati, oggi nuovamente leggibili grazie a una tecnologia del XXI secolo. È un paradosso affascinante: la memoria del mondo antico recuperata da una rete neurale, uno strumento che per sua natura non “ricorda” come l’uomo, ma calcola e prevede.

Una nuova fase della disciplina

Aeneas non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. La sua capacità di ricostruire testi e contesti epigrafici dimostra come la sinergia tra discipline umanistiche e intelligenza artificiale possa produrre risultati di alto valore scientifico. Tuttavia, la vera rivoluzione non sta nella tecnologia in sé, ma nell’atteggiamento culturale che essa favorisce: quello di una ricerca più aperta, collaborativa, capace di integrare strumenti computazionali e competenze critiche.

Se nel passato l’epigrafista lavorava quasi in solitudine, tra calchi, fotografie e repertori cartacei, oggi può contare su un assistente artificiale che scandaglia l’intero patrimonio epigrafico conosciuto, suggerisce ipotesi e ne documenta i presupposti. È un cambiamento che non riduce l’importanza del giudizio umano, ma anzi lo esalta: la tecnologia si occupa della vastità dei dati, l’uomo mantiene la responsabilità dell’interpretazione.

Forse la metafora di Enea, errante tra rovine e fondazioni, non è mai stata così attuale. Grazie a un algoritmo, ciò che sembrava irrimediabilmente perduto può tornare a parlare. E questa, in ultima analisi, è la funzione più nobile di ogni scienza storica: far dialogare i vivi e i morti, superando le fratture del tempo.

lunedì 28 luglio 2025

“Una sibilla per Amedeo”: Anna Achmatova e Amedeo Modigliani tra arte, poesia e destino

I. Premessa: due ombre convergenti nel cuore di Montparnasse

Fra gli incontri che hanno definito la cultura europea del primo Novecento, quello tra Anna Achmatova e Amedeo Modigliani si distingue come un episodio di rara intensità, quasi sospeso fra mito e realtà, che ancora oggi evoca fascino e mistero. Non si trattò di una relazione lunga o codificata, né di una frequentazione costante; i documenti che attestano il loro legame sono scarsi e frammentari, e le poche testimonianze rimaste si avvolgono in un’aura di allusività e di suggestione. Tuttavia, proprio questa fugacità contribuisce a dare al loro incontro la forza di un archetipo, una figura esemplare di quelle convergenze esistenziali e creative che, nei vortici artistici di Parigi, plasmarono la storia culturale del Novecento.

Il contesto in cui ciò avvenne non poteva che essere quello di Parigi, città eclettica e magmatica, cuore pulsante delle avanguardie, ma anche crocevia di anime inquietate, esuli, visionari, poeti e artisti che animavano i café, i cabaret e gli atelier con il loro peregrinare di sogni e disperazioni. Parigi, 1910: un laboratorio febbrile di idee e forme, di sperimentazioni e rotture, ma anche una sorta di limbo per molti esuli russi che qui cercavano rifugio, protezione, ispirazione.

Anna Achmatova allora non era ancora la grande poetessa che avrebbe segnato la letteratura russa del Novecento, la voce altissima e tragica del dolore e della resistenza morale. Era una giovane donna di ventun anni, moglie del poeta Nikolaj Gumilëv, ancora alla ricerca di sé e della propria voce poetica, ma già dotata di un magnetismo e di una presenza che molti descrivevano come sovrannaturale. Alta, magra, con un volto severo e occhi profondi, Anna sembrava portare con sé un’antichità indefinibile, quasi una memoria ancestrale, un legame con l’elemento mitico e con la dimensione profetica.

Amedeo Modigliani, di un anno più anziano, aveva da poco abbandonato l’Italia per immergersi nel vortice parigino, attraversando i giorni come un asceta dell’arte: tormentato, fragile, profondamente ossessionato dalla sua urgenza creativa, un’urgenza che oscillava tra un’estetica di profonda spiritualità e un’autodistruzione che avrebbe consumato la sua breve vita. Sofferente di tubercolosi, con una vita scandita da eccessi e dolori, Modigliani era però nel pieno della sua maturazione artistica: si stava affrancando dalle mode cubiste per approdare a uno stile primitivo, ieratico, che riscopriva la figura umana come simbolo e come archetipo.

Fu in questo crocevia umano e artistico che Anna e Amedeo si incontrarono. La poetessa avrebbe ricordato molti anni dopo, con un misto di stupore e rimpianto: “Mi disegnava ogni giorno... e ogni giorno, dopo aver finito, strappava il foglio e lo gettava via.” Un gesto che, nella sua apparente semplicità, racchiude l’essenza di un rapporto artistico e umano intriso di tensione: la frustrazione dell’artista nel trattenere l’essenza del reale, il desiderio di catturare l’invisibile, e insieme la consapevolezza dolorosa della sua impossibilità. La ripetizione del gesto — tracciare, contemplare, poi distruggere — è una preghiera, un rituale di eros e di spasimo, un simbolo dell’incessante ricerca di senso e bellezza.


II. Il disegno sopravvissuto: l’unico ritratto di Anna Achmatova realizzato da Amedeo Modigliani

È difficile sovrastimare il valore storico, artistico e simbolico dell’unico disegno di Anna Achmatova realizzato da Modigliani che sia giunto fino a noi. Nel caos devastante della Rivoluzione russa, della guerra civile e delle repressioni che seguirono, numerosi documenti materiali — fra cui sedici disegni a china realizzati dall’artista italiano — si dispersero o andarono irrimediabilmente perduti, scomparendo negli esodi e nelle difficoltà logistiche del periodo. Fu solo grazie alla cura e alla devozione della poetessa che almeno un singolo esemplare di questo corpus disegnato venne salvato dalla distruzione.

Questo disegno, oggi conservato nel prestigioso Museo Sextole Russo di San Pietroburgo, non è soltanto un raro reperto d’arte, ma una vera e propria reliquia che testimonia un frammento prezioso di storia culturale e personale. È un’opera che parla con forza nonostante la sua apparente semplicità, e che apre una finestra sullo spirito di un tempo e di un incontro.

Il foglio mostra chiaramente l’influenza della scultura su Modigliani, che si traduce in un segno deciso, essenziale e scolpito: poche linee rapide e precise delineano la figura di una donna semidistesa, la testa lievemente chinata sulla spalla sinistra, mentre i capelli neri e arruffati incorniciano un volto minuto e severo. La composizione evoca la monumentalità del marmo appena sgrossato, in cui la forma emerge con forza e insieme con un’essenzialità che suggerisce il non finito, un’idea mai pienamente compiuta ma intensamente presente. Il disegno sembra rappresentare un blocco primordiale da cui la figura è stata estratta, rimandando a quella tensione ancestrale fra materia e spirito che attraversa tutta l’opera di Modigliani.

Purtroppo, la perdita degli altri quindici disegni non consente una comparazione che avrebbe potuto rivelare l’evoluzione del ritratto e l’ampiezza della sperimentazione formale su questo soggetto così particolare. Tuttavia, proprio la sopravvivenza di questo singolo disegno è sufficiente a restituire la forza dell’impatto che la giovane Achmatova esercitò su Modigliani. La sua capacità di riprodurre a memoria la figura, lontano dalla presenza diretta della modella, rivela una profonda connessione emotiva e intellettuale fra i due, che trascende il mero rapporto di artista e modella.

Questa sopravvivenza è un atto di memoria e resistenza: l’arte di Modigliani, così fragile eppure così intensa, si fa qui testimone di un incontro irripetibile. Il disegno è un messaggio che ci è stato consegnato attraverso le tempeste della storia, una traccia di luce che illumina la relazione fra poesia e pittura, fra parola e immagine, fra due anime che per un breve istante si incontrarono e si compresero.


III. Il corpo come ierofania: la Achmatova nei disegni di Modigliani

I disegni che Modigliani dedicò ad Anna Achmatova – di cui quello conservato a San Pietroburgo è il più emblematico – incarnano una cifra stilistica profondamente originale e innovativa. Essi si collocano all’incrocio fra tradizione scultorea e avanguardia pittorica, fra simbolismo e primitivismo, fra una tensione verso l’astrazione e un’insistenza sull’essenziale.

La linea è lieve ma decisa, essenziale eppure evocativa, capace di sintetizzare l’interiorità della modella più che il mero aspetto esteriore. La figura è allungata e ieratica, come sospesa in un tempo mitico, quasi fosse una sibilla o una figura sacra: la poetessa appare allora non solo come donna del suo tempo, ma come creatura legata all’archetipo, alla dimensione mistica, alla tradizione popolare slava delle rusalka o alle sibille del Mediterraneo. La figura è dunque duplice: allo stesso tempo reale e irreale, presente e assente, concreta e simbolica.

Gli occhi di Anna, spesso delineati con grande cura, riflettono un’intensità che sembra sfidare il tempo, uno sguardo che guarda dentro e oltre la realtà contingente. La composizione delle mani – spesso congiunte o appoggiate in grembo – richiama volutamente le posture della pittura sacra bizantina, conferendo alla figura un’aura di sacralità, ma anche di distacco e meditazione.

In questi disegni Modigliani si distanzia dalle influenze più immediate del cubismo e del fauvismo per riscoprire un primitivismo arcaico, un rigore formale che affonda radici nell’arte etrusca, nella scultura egizia e nell’arte africana. L’allungamento del collo, la semplificazione dei volumi, la quasi astrazione delle forme concorrono a creare un’immagine che è insieme umana e mitica.

L’opera di Modigliani su Anna non si limita a rappresentare un corpo nudo o un volto; essa cerca di catturare una presenza spirituale, una forma di ierofania che si manifesta attraverso l’essenzialità e la sobrietà del segno. La bellezza che emerge non è mai banale o puramente estetica: è una bellezza che riflette la condizione umana nella sua complessità, fatta di dolore, dignità, mistero.


IV. La poetessa come immagine dell’alterità: la Achmatova tra stregoneria e stoicismo

Anna Achmatova è una figura unica nella letteratura russa, un’incarnazione di contraddizioni e tensioni che la rendono affascinante e inesauribile oggetto di studio. Dotata di un carisma intenso, con una percezione quasi medianica, fu spesso descritta come una donna “non del tutto reale”, sospesa fra il mondo materiale e quello dell’oltre.

Marina Cvetaeva, sua grande rivale e insieme ammiratrice, la definì con poetica precisione “dea severa”, mentre i contemporanei la vedevano oscillare fra i ruoli di sibilla, madre dolente e profetessa solitaria. È in questa luce che la chiama, pare, anche Modigliani, “madonna slava”, sottolineando quel misto di sacralità e mistero che la sua figura emanava.

L’interesse che Modigliani nutrì nei confronti di Achmatova va oltre la semplice infatuazione estetica. Essa rappresentava una sorta di soglia verso l’altro, verso un’alterità che aveva il volto dell’enigma e della profondità. La sua malinconia, la sua intensità trattenuta, erano per l’artista la manifestazione di un’idea di bellezza che si legava indissolubilmente al dolore e alla resistenza.

Achmatova, dal canto suo, era lontana da ogni ricerca di complicità mondane. La sua natura era raccolta, ironica, ascetica; un carattere temprato fin da giovane da un senso tragico della vita, destinato a diventare ancora più forte nei decenni successivi, attraversati dalle persecuzioni staliniane, dalla censura, dalla prigionia del figlio e dalla morte del marito.

In questo contesto, il rapporto con Modigliani rappresentò forse per la poetessa un momento di riconoscimento e comunione intellettuale e spirituale, un attimo sospeso in cui un altro artista riuscì a intravedere la profondità del suo essere, prima che la storia e il destino ne segnassero le traiettorie in modo irrimediabile.


V. Una testimonianza silenziosa: tracce, lettere, omissioni

Le testimonianze scritte riguardanti il rapporto fra Anna Achmatova e Amedeo Modigliani sono poche e spesso frammentarie. La poetessa ne parlò in modo sporadico, e sempre con una certa riservatezza. L’unico corpus documentale certo è rappresentato dai disegni, ma il valore simbolico di queste immagini supera di gran lunga quello dei pochi testi.

Nelle pose, negli sguardi, nelle posture disegnate da Modigliani si può leggere un dialogo silenzioso e profondo fra due solitudini affini: quella dell’artista tormentato e fragile, destinato a una vita breve e intensa, e quella della poetessa, chiamata fin da giovane a portare un peso morale e storico enorme.

Questo incontro fu probabilmente breve e privo di sviluppi sentimentali o pubblici; tuttavia, la sua forza risiede nella capacità di condensare un’intensità emotiva e spirituale che ha sedimentato la coscienza e l’immaginario dei due artisti. Come spesso accade nei grandi destini, non è la durata, ma la qualità e la profondità dell’esperienza a fare la differenza.

La memoria di quel periodo parigino rimase con Achmatova per tutta la vita, forse suggerendo atmosfere e temi nelle sue prime liriche, in particolare nella raccolta Rosario (1914), in cui si possono intravedere riflessi di quell’esperienza. Quell’incontro resta così come un velo sottile che copre e allo stesso tempo rivela, un punto di intersezione fra arte e vita, fra parola e immagine.


VI. Conclusione: due ritratti nel tempo

A distanza di oltre un secolo, il breve e fragile intreccio esistenziale e artistico fra Anna Achmatova e Amedeo Modigliani si impone come uno dei momenti più lirici e intensi della modernità europea. Non è un incontro concluso, ma un appunto incompiuto, un verso trattenuto sulle labbra, una traccia di luce nella memoria dell’arte e della letteratura.

Modigliani morì nel 1920 a soli trentacinque anni, consumato dalla tubercolosi e dalle difficoltà di una vita tormentata, pochi mesi prima della tragica morte per suicidio della sua compagna Jeanne Hébuterne. Achmatova, invece, visse a lungo, divenendo la voce morale e poetica della Russia del Novecento, attraversando guerre, persecuzioni, lutti, e il difficile cammino verso la rinascita culturale del dopoguerra.

Eppure, in quei brevi anni, in quel crocevia parigino, Modigliani riuscì a vedere e a trattenere l’essenza di una giovane donna che sarebbe diventata una delle più alte poetesse del secolo. La sua figura, ritratta con pochi tratti, appare come un’icona doppia: immagine di una femminilità moderna, libera, enigmatica e inviolabile, e allo stesso tempo eco di una spiritualità antica e profonda, un ponte fra mondi e tempi diversi.


domenica 27 luglio 2025

Parole in prestito. Come l’intelligenza artificiale sta cambiando il nostro modo di pensare (e parlare)

Pubblicato nel 2023, uno studio del Max Planck Institute ha attirato l’attenzione degli analisti culturali e linguistici per un dato solo in apparenza secondario: nei diciotto mesi successivi al rilascio pubblico di ChatGPT, in un corpus di 280.000 video di YouTube, parole come “meticoloso”, “approfondire” o “esperto” sono aumentate fino al 51% nel linguaggio degli utenti. Gli articoli che hanno ripreso questo dato — tra cui The Verge e Los Angeles Magazine — hanno sottolineato l’ovvietà: ci stiamo “adattando” a una nuova forma di interlocuzione. Ma l’adattamento non è mai neutro. Ogni cambiamento di linguaggio corrisponde a un cambiamento cognitivo, e ogni cambiamento cognitivo riflette una mutazione nella struttura del potere che gestisce l’informazione.

L’IA generativa ha portato con sé un nuovo codice, una nuova forma di autorevolezza, e soprattutto un nuovo tipo di pressione: non quella del “che cosa dire”, ma quella del come dirlo. Così, il linguaggio ordinario inizia a imitare il parlato dell’IA: strutturato, lineare, assertivo, semanticamente iper-categorizzato. In un certo senso, non parliamo più tra umani: parliamo come se l’altro fosse una macchina.

Questo slittamento, inizialmente percepito come una “professionalizzazione” del discorso, sta mostrando ora la sua doppia faccia. Aumenta, certo, la chiarezza formale. Ma diminuisce, altrettanto chiaramente, la densità critica. Parliamo per essere compresi da un algoritmo — e il prezzo è l’impoverimento delle ambiguità, delle esitazioni, della sovrainterpretazione poetica, della contraddizione feconda.

Non si tratta più soltanto di uno stile, ma di una forma mentale. Una ricerca del MIT pubblicata su Nature Human Behaviour ha documentato come gli individui che utilizzano l’IA per attività cognitive complesse — scrittura, risoluzione di problemi, decision making — sviluppino una maggiore dipendenza da risposte precostituite, una diminuzione della capacità di pensiero critico e una progressiva perdita del pensiero divergente. Il fenomeno è stato definito flattening effect: l’appiattimento della capacità umana di immaginare vie laterali, domande inattese, soluzioni non evidenti. L’intelligenza artificiale ci dà risposte più “coerenti”, ma ci toglie la capacità di sopportare il dubbio.

Se la cultura è il terreno su cui si allena la complessità, allora l’uso massivo dell’IA rischia di trasformare il pensiero in un’esercitazione da modulo standard. L’originalità non è più richiesta, e quando si manifesta appare come un errore. Le nuove generazioni, cresciute dentro un ecosistema di sorveglianza algoritmica della parola scritta, mostrano un lessico più educato ma anche più povero, più tecnico ma meno immaginativo. Il rischio? Che il linguaggio perda la sua funzione liberatoria per diventare, al contrario, uno strumento di conformismo.

Il fenomeno non si limita al quotidiano. Anche la produzione scientifica, e in particolare quella medica, è ormai attraversata da una trasformazione silenziosa. Secondo un'analisi pubblicata su Nature Medicine e un editoriale su The Lancet Digital Health, è in crescita la quantità di articoli in ambito biomedico redatti — o co-redatti — con il supporto dell’intelligenza artificiale. Questo ha comportato un innalzamento della fluidità e della coerenza testuale, ma anche una crescente difficoltà nel distinguere il rigore dalla plausibilità retorica. In alcuni casi, come documentano gli studi, sono stati rilevati dati “allucinati”, riferimenti bibliografici fittizi, e soprattutto una standardizzazione delle argomentazioni che impoverisce la verifica epistemica.

Come ha scritto The Lancet in un suo editoriale del 2024: “l’adozione non regolamentata di strumenti generativi rischia di spingere la scienza verso una cultura della verosimiglianza, anziché della verifica.” Non si può immaginare una diagnosi più precisa. La lingua, se svuotata di attrito, di scarto, di errore, smette di essere uno strumento di ricerca e diventa uno specchio di quello che vogliamo sentirci dire.

Il problema non è solo linguistico: è etico, educativo, psicologico. La centralità che l’IA ha assunto nel quotidiano, nell’editoria, nella formazione e persino nell’informazione giornalistica, ridefinisce i confini tra verità e verosimile, tra intelligenza e automazione, tra sapere e opinione. L’intelligenza artificiale ci restituisce — lucidata e senza graffi — l’idea di un mondo in cui ogni parola trova il suo posto, ogni concetto si armonizza, ogni dubbio è un rumore da eliminare. Ma la conoscenza, quella vera, nasce proprio da questi rumori.

È necessario, oggi più che mai, un contro-discorso. Non per rifiutare la tecnologia, ma per riscoprire l’imperfezione come valore. Recuperare il linguaggio storto, esitante, laterale. Difendere il pensiero lento, l’errore fertile, la frase che inciampa. Se davvero i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo, come scriveva Wittgenstein, allora la sfida del nostro tempo non è usare meglio l’IA, ma disinnescarne la grammatica interiore prima che si radichi nel nostro stesso modo di pensare.


Contare l'invisibile. Politica del dato, etica del corpo queer nella ricerca sociale contemporane

Saggio critico su: Massimo Prearo e Federico Trastulli, Politica e cittadinanza LGBTQIA+: tra opinione pubblica, diritti e partecipazione, Edizioni ETS, Pisa 2025


Il volume Politica e cittadinanza LGBTQIA+, pubblicato da Edizioni ETS nel 2025, si presenta come un'opera cruciale nel panorama italiano degli studi politici e sociali sulla soggettività queer e trans. Firmato da Massimo Prearo, tra i maggiori studiosi dei movimenti LGBTQIA+ in Europa, e Federico Trastulli, giovane politologo con solide basi nella ricerca elettorale, il libro coniuga rigore empirico e impegno politico, offrendo una doppia indagine – sulla popolazione generale e sulla popolazione LGBTQIA+ – che getta nuova luce sulle tensioni, le esclusioni e le opportunità di riconoscimento nell’Italia contemporanea.

L’opera risponde a una lacuna strutturale: la scarsità di dati solidi sulla cittadinanza LGBTQIA+ in Italia. A differenza di altri paesi europei, dove simili rilevazioni hanno una cadenza regolare e una funzione consultiva per le politiche pubbliche, il contesto italiano si è dimostrato fino ad ora inerte, se non apertamente ostile. Da qui l’urgenza – non solo accademica ma etico-politica – di rendere visibili corpi, opinioni, esigenze, sogni, traumi e contraddizioni che abitano tanto la società civile quanto la sfera dell’attivismo.

L’introduzione e l’impianto metodologico rivelano un’intenzione chiara: non "parlare su", ma costruire strumenti per "far parlare" dati, soggettività e collettività normalmente escluse dalla sfera della legittimità politica e statistica. Il posizionamento dei due autori è dichiarato e, al contempo, argomentato con scrupolo: fare scienza politica dal lato delle soggettività marginalizzate non significa rinunciare al rigore, ma ridefinirne i presupposti.

La struttura bifronte dell’indagine è uno degli aspetti più riusciti del volume. Da un lato, i dati raccolti sulla popolazione italiana offrono una mappa dettagliata del “gradiente di tolleranza” nazionale: un’Italia che mostra apertura sul matrimonio egualitario, ma si irrigidisce su GPA, PMA e diritti delle persone trans. Le opinioni si polarizzano fortemente per età, appartenenza politica e livello d’istruzione, segnando un crinale netto tra giovani e anziani, sinistra e destra, sapere e pregiudizio. La conclusione è amara ma necessaria: l’accettazione è spesso "condizionata", "parziale", e veicolata da narrazioni mainstream che tollerano l’omogenitorialità ma restano ostili a ogni forma di autodeterminazione radicale dei corpi.

Dall’altro lato, l’indagine sulla popolazione LGBTQIA+ restituisce un quadro impietoso ma essenziale: la comunità è tutt’altro che monolitica, ed è attraversata da linee di frattura profonde. L’accesso ai diritti, alla sanità, alla visibilità e alla partecipazione politica è distribuito in modo iniquo: le persone trans, razzializzate, disabili e precarie restano ai margini anche all’interno dei mondi queer più visibili. Il dato sull’astensionismo elettorale – soprattutto tra le persone trans – non è sintomo di disinteresse ma indice di una frattura strutturale tra le istituzioni e una cittadinanza mai riconosciuta come tale.

La prefazione di Isa Borrelli, Epistemologie spettrali, è un testo che merita una valutazione a parte. Con una scrittura densa, teoricamente raffinata e politicamente affilata, Borrelli rivendica uno sguardo situato, transfemminista e anticoloniale, che decostruisce le retoriche della neutralità scientifica per far emergere le vite queer e trans come “fantasmi epistemici”: presenze negate, visibili solo quando patologizzate, criminalizzate o ridicolizzate. Se il libro di Prearo e Trastulli è l’atlante empirico della marginalità e della resistenza, la prefazione è la sua coscienza teorica e poetica. La sua sola presenza basta a distinguere il volume da molti altri studi accademici benintenzionati ma disincarnati.

Nonostante il notevole valore del libro, si possono individuare alcune criticità. La prima riguarda i limiti strutturali della raccolta dati, che – come ammettono onestamente gli autori – non riesce a rappresentare adeguatamente soggettività razzializzate e queer del Sud Italia. Si tratta di una carenza metodologica, certo, ma anche di un punto politico su cui la ricerca LGBTQIA+ italiana è ancora debole. La stessa epistemologia “bianca” e nordcentrica delle reti accademiche, come suggerisce la stessa Borrelli, resta ancora da smantellare.

In secondo luogo, la griglia interpretativa resta a tratti contenuta nei limiti del linguaggio sociologico e quantitativo: si avverte, a volte, l’assenza di uno sguardo più narrativo o performativo sulle soggettività coinvolte. In altre parole: mancano le storie, le voci vive, le contraddizioni esistenziali che pure i dati fanno intuire.

Il libro si rivolge a una platea ampia: attivisti, studiosi, politici, docenti, operatori sociali. Ma è soprattutto un atto di restituzione alla comunità LGBTQIA+ italiana, che raramente ha potuto leggere un'indagine così precisa e rispettosa delle sue molteplici realtà. In questo senso, l’opera è tanto uno strumento di studio quanto un manifesto di esistenza.

Politica e cittadinanza LGBTQIA+ è un’opera che colma un vuoto ma soprattutto apre un cantiere. È un testo che conta, nel senso più profondo del termine: fa il conto delle ferite, delle esclusioni e delle possibilità. Ma conta anche nel senso di rendere visibile, di fare spazio. In un’Italia sempre più attraversata da pulsioni reazionarie e da strategie di pinkwashing, questo libro è un atto politico e un gesto d’amore per chi continua a non essere contato.


La Biennale Danza 2025 chiude con l’oscurità visionaria di Marcos Morau e La Veronal: "La Mort i la Primavera"

Venezia, Teatro Malibran – 1 e 2 agosto 2025. La chiusura di un festival è spesso un momento di festa, una conclusione dal sapore celebrativo. Ma la Biennale Danza 2025 sceglie di sorprendere, o meglio di provocare: la sua ultima parola è affidata a "La Mort i la Primavera", creazione firmata dal coreografo Marcos Morau e dalla sua compagnia La Veronal, realtà tra le più innovative della scena europea. Un’opera che non offre risposte, ma pone domande brucianti sul rapporto tra morte e rinascita, tra distruzione e libertà creativa.


Un titolo che racconta già un conflitto

"La Mort i la Primavera" prende il nome dal romanzo postumo di Mercè Rodoreda, autrice catalana di culto che negli anni della dittatura franchista ha raccontato la condizione umana attraverso un linguaggio allusivo e visionario. In quella storia, la morte è una presenza costante, ma non assoluta: accanto ad essa, la primavera, simbolo della vita che resiste e ritorna. Morau parte da questa ambivalenza e la porta nel corpo dei suoi interpreti, costruendo una coreografia che è allegoria di un mondo sospeso: un luogo dove l’energia vitale e la violenza distruttiva convivono nello stesso respiro.

“Non ci interessava illustrare un testo – spiega Morau in un incontro con la stampa – ma farne una materia poetica, un’immagine da attraversare. È come se il romanzo fosse un sogno da cui svegliarsi, e noi provassimo a farlo diventare movimento”.


Marcos Morau: il linguaggio di un visionario

Nato a Valencia nel 1982, Morau è una figura centrale della danza contemporanea europea. Con un percorso che ha unito studi di fotografia, teatro e danza, ha fondato nel 2005 La Veronal, compagnia che ha fatto dell’ibridazione il proprio marchio: geografie immaginarie, atmosfere sospese tra realtà e finzione, corpi trattati come sculture in movimento. I suoi spettacoli non raccontano storie nel senso tradizionale, ma costruiscono mondi: Siena affrontava il rapporto tra arte e corpo, Voronia entrava in una “cattedrale sotterranea” del male contemporaneo, Pasionaria interrogava la società dei consumi.

"La Mort i la Primavera" si colloca in questa linea di ricerca, ma aggiunge una dimensione emotiva e politica più esplicita: “Viviamo in un ciclo di creazione e distruzione continua – dice Morau – e l’arte può essere un modo per attraversare questa tensione, non per scioglierla, ma per abitarla”.


La Veronal: un collettivo di ricerca

La Veronal non è semplicemente una compagnia di danza, ma un laboratorio permanente di linguaggi. Oltre ai danzatori, comprende costumisti, compositori, drammaturghi e video artisti. Ogni progetto è un’opera totale, dove il movimento convive con il suono, la scenografia e la luce in una partitura unitaria.
Per "La Mort i la Primavera", la scena del Teatro Malibran viene trasformata in un luogo quasi post-apocalittico: un paesaggio fatto di materiali grezzi, luci radenti e suoni metallici, che rimandano a una civiltà in rovina o a un villaggio in attesa di un evento irreversibile. I corpi dei danzatori non si limitano a “occupare” questo spazio, ma lo abitano come se fosse un organismo vivente, in mutazione costante.


L’opera come allegoria politica

Nonostante la sua natura fortemente estetica, "La Mort i la Primavera" è anche un’opera politica. In un’epoca segnata da conflitti, crisi ambientali e tensioni sociali, l’opera si interroga su cosa significhi “resistere”: resistere alla paura, all’omologazione, alla rassegnazione.
Il movimento dei danzatori si articola tra momenti di blocco, quasi statue paralizzate, e improvvise accelerazioni, come esplosioni di vita che scattano nonostante tutto. È un linguaggio che non consola, ma trascina lo spettatore in un viaggio emotivo, lasciandolo con la sensazione di aver assistito a un rituale più che a uno spettacolo.


Il pubblico come testimone attivo

Nei lavori di Morau, il pubblico non è mai un osservatore neutrale. "La Mort i la Primavera" chiede agli spettatori di accettare l’ambiguità, di diventare testimoni di un’esperienza più che di una trama. “Mi interessa che le persone escano dalla sala con più domande che risposte – afferma il coreografo – perché questo significa che qualcosa è successo dentro di loro”.
Per il pubblico della Biennale, abituato a linguaggi innovativi, sarà una sfida di percezione: l’opera non punta sull’intrattenimento, ma sulla costruzione di un immaginario che continua a risuonare anche dopo il sipario.


Biennale Danza: un laboratorio del presente

Sotto la direzione di Wayne McGregor, la Biennale Danza si è imposta come uno dei festival più coraggiosi d’Europa, aperto a contaminazioni e ricerche di frontiera. In questa edizione 2025, l’accento è stato posto sul rapporto tra corpo, tecnologia e impegno sociale. In questo contesto, "La Mort i la Primavera" rappresenta un manifesto perfetto di chiusura: un lavoro che sintetizza l’idea di danza come atto politico, come pratica che non si limita a rappresentare il mondo, ma lo mette in crisi.


La scelta del Teatro Malibran

La scelta di presentare l’opera al Teatro Malibran non è casuale: questo luogo storico veneziano, che ha visto secoli di spettacoli d’opera, diventa qui uno spazio di collisione tra passato e futuro. “Portare una creazione così contemporanea in un teatro carico di memoria – osserva Morau – è un modo per dire che anche i luoghi hanno bisogno di rinascere, di essere attraversati da nuovi immaginari”.


Aspettative e reazioni attese

L’attesa per queste due repliche è alta: il nome di Morau richiama un pubblico internazionale, e molti osservatori della scena contemporanea considerano questa produzione uno degli eventi chiave dell’anno. Alcuni critici hanno già definito l’opera “un atto di resistenza poetica”, sottolineando come la scelta di chiudere un festival con uno spettacolo così oscuro e al tempo stesso vitale sia un gesto di forte coerenza curatoriale.


Conclusione: un finale non rassicurante

"La Mort i la Primavera" non è una chiusura “consolatoria” per la Biennale Danza 2025, ma un finale aperto, quasi una provocazione: lascia il pubblico con la consapevolezza che l’arte, oggi, non può limitarsi a decorare la realtà, ma deve entrare nel conflitto, nelle crepe del nostro tempo.
Marcos Morau e La Veronal firmano un lavoro che, nelle parole dello stesso coreografo, “non vuole spiegare, ma far sentire”. E questo, alla fine, è il senso più autentico della danza come linguaggio: mettere in movimento non solo i corpi, ma anche il pensiero.


Filippo De Pisis – uomo con cappellone, 1920 – coll. priv.

Per comprendere meglio le opere  di Filippo De Pisis (1896-1956), bisognerebbe leggere le sue poesie. Poesie struggenti di amori, congedi, passioni, ritorni. ‘Venisti! Ti tenni sulla porta ma il mio cuore tremava, dissi delle cose banali. La bella luce del sole invernale rideva nei tuoi occhi, impreziosiva il tuo volto. Era di già nell’aria la promessa della primavera, ma io ero triste e stonato. Ti tenni sulla porta e richiusi. Amaro era il profumo della stanza in penombra, e tornai sui miei passi ma tu eri già lontano’ 

Filippo De Pisis è un esempio di artista che ha saputo fondere la poesia e la pittura in un dialogo continuo e profondo, dove la parola e l'immagine si inseguono, si completano e si amplificano reciprocamente. La sua produzione poetica non è solo un semplice complemento alla sua arte visiva, ma una vera e propria chiave di lettura per comprendere meglio la sua visione del mondo e della vita.

Le sue poesie, così come le sue tele, sono intrise di un'atmosfera malinconica e intima, in cui l'artista riflette su temi universali come l'amore, la solitudine, il passaggio del tempo e la fragilità dell'esistenza. C'è un legame profondo tra la sua scrittura e la sua pittura, entrambi scavati nella stessa tessitura emotiva, dove ogni immagine dipinta sembra evocare un'emozione che trova la sua espressione anche nella parola scritta.

Nel suo modo di dipingere, De Pisis predilige la luce morbida e sfumata, i colori tenui e delicati, che ricordano la stessa dolcezza malinconica delle sue poesie. L'uso del dettaglio nelle sue opere, come la pennellata soffice e vibrante, è speculare a quella scrittura poetica che si concentra sugli istanti fugaci, sulle sfumature di un momento, sulla bellezza effimera che diventa memorabile.

La poesia di De Pisis sembra un'esplorazione della sua interiorità e della sua capacità di vivere la realtà in modo intimo e sensibile, senza mai smettere di interrogarsi sull'incontro tra il corpo e il cuore, tra il visibile e l'invisibile. La sua pittura, con la sua qualità "lirica", non è mai solo estetica, ma un tentativo di catturare quella stessa tensione emotiva che anima i suoi versi, come in una continua ricerca di bellezza e verità.

Per De Pisis, infatti, la pittura e la poesia non sono discipline separate, ma due forme di espressione che si nutrono l'una dell'altra, raggiungendo un'intensità che non sarebbe la stessa se fossero trattate come mondi distinti.

Un altro aspetto interessante nel rapporto tra la poesia e la pittura di Filippo De Pisis riguarda il suo approccio al simbolismo e alla suggestione visiva. La sua poesia e la sua pittura non sono narrative o descrittive in senso stretto, ma si fondano su immagini evocative, ricordi, sensazioni, che sembrano aggirarsi attorno a un nucleo di emozioni profonde senza mai rivelarlo completamente. In questo modo, come nelle sue opere pittoriche, De Pisis crea un'atmosfera sospesa, un mondo di segreti taciuti e di frammenti, che non vengono mai spiegati ma suggeriti. La sua poesia è come un'ombra che si allunga sull'immagine, un'eco di ciò che non può essere detto, ma che può essere compreso attraverso l'impalpabile bellezza di una luce o di un gesto.

C'è ancora un elemento che unisce la sua pittura e la sua scrittura è l'elemento della "memoria" e del "tempo che passa". Le sue poesie spesso riflettono sul passato, sulla fugacità dei momenti, sull'irrecuperabilità di ciò che è stato, mentre la sua pittura sembra sempre sospesa in un tempo che è insieme presente e lontano. Le nature morte, gli interni, i paesaggi che compaiono nelle sue opere sono carichi di una solitudine che è tanto più intensa proprio per il fatto che il passato si intreccia con il presente in un continuo rimando di ricordi e sensazioni. In questo senso, la pittura di De Pisis e la sua poesia possono essere considerate come due modi diversi di esprimere la stessa "assenza", quella di qualcosa che è già svanito, ma che vive ancora nella percezione dell'artista.

Infine, il rapporto tra poesia e pittura in De Pisis si può leggere anche attraverso la sua attenzione al linguaggio e alla "visibilità" dei segni. In molte delle sue poesie, come nelle sue tele, il linguaggio si fa talvolta quasi visibile, come se le parole stesse diventassero un'immagine, un gesto pittorico. In altre parole, la scrittura di De Pisis non è solo un mezzo di comunicazione, ma una forma di "pittura" verbale, che trasforma le parole in forme e colori, come accade nei suoi dipinti. La capacità di De Pisis di fondere linguaggio e immagine, parola e forma, rende ancora più evidente la sua convinzione che arte visiva e poesia non siano mai separabili, ma vivano in una continua interazione che arricchisce e approfondisce l'una l'altra.

Un altro aspetto che merita attenzione nel legame tra poesia e pittura in De Pisis è il suo rapporto con il concetto di "sospensione" e "attesa". Nelle sue poesie, come nelle sue tele, emerge una costante sensazione di attesa: un'attesa che non è tanto per un evento futuro, ma per una verità emotiva che non arriva mai completamente. Questa dimensione di "non-detto" è centrale nel suo lavoro, in cui il paesaggio, la natura morta o il ritratto non si risolvono mai in una storia conclusa, ma rimangono in sospeso, come se la realtà fosse solo un frammento di qualcosa di più grande e inafferrabile. È un po’ come se De Pisis, attraverso la poesia e la pittura, cercasse di fermare un istante di vita, un momento che rischia di sfuggire alla comprensione.

In molte delle sue poesie, questa sospensione è legata anche alla riflessione sull'amore e sull'incontro umano, che spesso è rappresentato come un attimo che fugge, un'illusione, un desiderio che non si compie mai. La pittura di De Pisis rispecchia questa stessa filosofia, con la sua ricerca di immortalare la bellezza effimera del mondo, che si riflette in atmosfere rarefatte e in un realismo poetico. Le sue tele sembrano testimoniare un tentativo di arrestare il flusso del tempo, di fissare in un'immagine la fugacità di un'emozione, di un paesaggio o di una scena domestica.

Inoltre, un altro punto che arricchisce il rapporto tra le sue due forme di espressione è la ricerca della "singolarità" del momento. Le sue poesie spesso parlano di attimi unici, irripetibili, che non possono essere riprodotti, ma che lasciano una traccia nel cuore dell'artista. Allo stesso modo, nelle sue opere pittoriche, ogni dettaglio sembra avere un valore intrinseco, che va oltre il semplice compito di rappresentare la realtà. Le sue nature morte, ad esempio, non sono solo oggetti disposti sulla tela, ma portano con sé un'aura di mistero e di singolarità, un qualcosa che è più che la semplice apparenza.

In questa fusione tra poesia e pittura, Filippo De Pisis non cerca mai di spiegare o decodificare completamente l'esperienza, ma di esprimere la sua bellezza nel suo essere enigmatico, proprio come l'arte che crea. Così, sia le sue poesie che i suoi dipinti rimangono come momenti sospesi, frammenti di un mondo che, pur nel suo apparente disordine, ci invita a riflettere su ciò che è davvero essenziale, sull'ineffabile e sull'infinito che si cela nelle cose più piccole e nelle emozioni più sottili.

Un ulteriore elemento che conferma il rapporto tra poesia e pittura in De Pisis è l'influenza del suo vissuto e delle sue esperienze personali, che permeano entrambe le forme di espressione. La sua vita, segnata dalla solitudine, dalla malattia e da relazioni complesse, è un sottotesto continuo nelle sue poesie e nelle sue tele. La malinconia che traspare nelle sue parole si riflette nel suo modo di dipingere, dove la tristezza, la bellezza e la decadenza convivono in un gioco sottile di luci e ombre. La sua arte non cerca di nascondere il dolore, ma piuttosto lo accoglie, lo fa diventare parte della bellezza stessa. Questo conferisce alla sua opera una profondità unica, in cui ogni colore e ogni verso raccontano una storia di fragilità umana e di consapevolezza della propria finitezza.

L'intensità del suo rapporto con la realtà, che non è mai semplice ma sempre filtrata da una lente di emozione e riflessione, traspare chiaramente anche nelle sue scelte artistiche. La pittura di De Pisis, con le sue pennellate morbide e i suoi soggetti delicati, suggerisce un'interpretazione più intima della vita, simile a come fa la poesia, dove il non detto spesso pesa più del detto. È come se la pittura non potesse mai "spiegare" completamente la profondità dei suoi sentimenti, ma solo mostrarne l'involucro, lasciando che sia la parola a colmare quella distanza di comprensione.

La pittura di De Pisis, infatti, non è mai "realistica" nel senso tradizionale del termine. Non si tratta di una riproduzione fedele della realtà, ma di un’interpretazione poetica della stessa. La sua arte ha un respiro lirico, che si fonde con la scrittura in un gioco di riflessi e rimandi, dove un dettaglio pittorico può richiamare un verso poetico e viceversa. Un esempio di questo intreccio può essere visto nella rappresentazione dei fiori, degli oggetti e degli spazi vuoti che caratterizzano molte delle sue tele, che sembrano riflettere i suoi stati d'animo, esprimendo un'idea di bellezza che è al contempo fragile e potente.

In questo contesto, la sua poesia non è solo un accompagnamento alla pittura, ma ne è la linfa che dà vita alla sua immaginazione visiva. Le sue parole, con il loro ritmo e la loro musicalità, non solo raccontano, ma evocano. Lo stesso processo accade nella sua pittura, dove il gesto pittorico diventa una danza, una sinfonia di colori e forme che non esprimono solo la realtà, ma anche l'interpretazione emotiva di essa.

Il risultato di questa fusione tra poesia e pittura è un'arte che non ha paura di essere fragile, imperfetta e incompleta, ma che proprio in questa sua "incompletezza" riesce a catturare l'intensità dell'esperienza umana. Le opere di De Pisis, siano esse poetiche o pittoriche, si pongono come uno spazio di riflessione in cui l'osservatore può riconoscere la bellezza che emerge dalla solitudine e dal dolore, dalla perdita e dall'attesa, e allo stesso tempo riconoscere il potere della creatività come mezzo per affrontare l'incertezza e l'effimero della vita.

Un ulteriore aspetto da considerare nel legame tra poesia e pittura in Filippo De Pisis è il suo rapporto con il concetto di "spazio", che emerge sia nella sua scrittura che nelle sue opere visive. Nei suoi dipinti, spesso caratterizzati da composizioni che alternano spazi vuoti e pieni, si può percepire un senso di "vuoto" che non è mai totalmente negativo o negativo, ma piuttosto carico di potenziale. Questo vuoto diventa una sorta di silenzio visivo, un'interruzione che invita lo spettatore a riflettere, a raccogliere le emozioni che scaturiscono da ciò che non è rappresentato. Questo concetto di "spazio" si traduce anche nella sua poesia, in cui il non detto, l'incompleto, assume una forza narrativa e poetica altrettanto potente. Il silenzio, l'attesa, il distacco diventano elementi altrettanto importanti quanto le parole stesse.

Nella sua poesia, ad esempio, l'uso di pause e sospensioni, di silenzi tra un verso e l'altro, non è mai casuale. Questi silenzi creano uno spazio emotivo che permette al lettore di "abitare" i suoi versi, di viverli in modo personale e intimo. La pittura, allo stesso modo, lascia spazio a momenti di riflessione, con la sua attenzione al dettaglio e la sua resa di atmosfere rarefatte che sembrano appartenere a un altro tempo, o forse a nessun tempo in particolare. Il "spazio" in De Pisis diventa un luogo in cui il passato e il presente si intrecciano, dove il tempo è dilatato e la realtà è distillata in un momento che sembra sospeso nell'eternità.

Inoltre, sebbene la sua pittura sia spesso descritta come "lirica" o "poetica", De Pisis non cerca mai la bellezza fine a se stessa. Anzi, la sua arte si distingue per una certa "assenza" di decorativismo, preferendo un approccio che suggerisce la bellezza piuttosto che mostrarla esplicitamente. Nelle sue tele, ad esempio, il soggetto non è mai troppo statico o chiaro, ma emerge in modo sfumato, quasi come se fosse in costante trasformazione, come un'idea che si fa strada senza mai compiersi del tutto. Questo rende le sue opere particolarmente evocative, come se fossero finestre su un mondo che non possiamo vedere completamente, ma solo intuire.

Allo stesso modo, la sua poesia si allontana dal didascalismo e dalla linearità, spingendosi verso un'espressione più "sfumata", più suggestiva. La poesia di De Pisis non è mai pienamente risolta, ma lascia sempre aperto uno spazio di riflessione. Questo "non-finito" permette al lettore di entrare nel testo e di costruire un proprio significato, in un gioco di interpretazioni che non cerca una verità unica, ma una connessione emotiva e personale. La tensione tra il dire e il non dire, tra l'immagine e il suo sfocarsi, è ciò che rende la poesia e la pittura di De Pisis così potenti.

Infine, altro che lega poesia e pittura in De Pisis è il suo approccio alla luce. La luce, nelle sue opere, non è mai solo un elemento fisico, ma un veicolo simbolico di introspezione e rivelazione. Nelle sue poesie, la luce diventa spesso metafora di consapevolezza, di un'intuizione che sfugge ma che si fa sentire nell'intimo. Nei suoi dipinti, la luce gioca un ruolo simile: non si limita a illuminare un oggetto, ma penetra l'immagine, la trasforma, la vivifica. Così, nelle sue opere, la luce e il buio non sono mai separati, ma si fondono in un gioco di contrasti che esprime la continua ricerca dell'artista verso un equilibrio fragile e perfetto tra visibile e invisibile, tra il detto e l'indicibile.

Un punto fondamentale da esplorare nel rapporto tra poesia e pittura in Filippo De Pisis è la sua visione dell'arte come un mezzo di "trasformazione". Nelle sue opere, sia poetiche che pittoriche, l'artista non cerca mai di ritrarre la realtà in modo diretto, ma piuttosto di filtrarla attraverso la propria sensibilità e il proprio linguaggio interiore. Questo processo di trasformazione è visibile nelle sue tele, dove oggetti quotidiani come fiori, frutta o interni si trasformano in simboli, in metafore della condizione umana, della solitudine, della bellezza e del dolore. Nella sua poesia, questo processo si ripete: le parole non sono mai semplici descrizioni, ma strumenti per ricreare un mondo emotivo e psicologico in continua evoluzione. Così, l'artista non "copre" la realtà, ma la trasforma in qualcosa di più complesso e ricco, che lascia spazio alla riflessione e all'immaginazione.

L'aspetto "trasformativo" dell'arte di De Pisis è anche legato alla sua capacità di mescolare e sovrapporre diversi registri emotivi e stilistici. Le sue poesie, spesso, oscillano tra toni di elegia e di ironia, tra una malinconia profonda e una leggerezza più giocosa, come se l'artista fosse costantemente alla ricerca di un equilibrio tra le opposte forze dell'esperienza. Questa stessa dualità si ritrova nelle sue opere pittoriche, dove il dettaglio più delicato può convivere con la visione più astratta, dove la luce può essere al tempo stesso fonte di speranza e di inquietudine.

Inoltre, va sottolineata la dimensione di "ironia" che emerge tanto nella sua poesia quanto nella sua pittura. Nonostante la predominanza di temi come la solitudine, la fragilità e il desiderio non corrisposto, De Pisis non si arrende mai a un tono completamente tragico. C'è sempre, nelle sue opere, una sorta di distanza ironica, una consapevolezza della propria condizione umana che gli permette di guardare con occhi lucidi anche la sofferenza. In questo senso, la sua arte diventa un luogo di contrasti, dove la bellezza può emergere dalla decadenza e dove la riflessione sulla morte e sul tempo che passa può essere accompagnata da un sorriso sottile, quasi sardonico.

La sua pittura, pur essendo spesso introspettiva, non è mai chiusa o autoreferenziale. Anzi, l'elemento che rende le sue opere così potenti è proprio la loro capacità di aprirsi verso l'esterno, verso l'osservatore, invitandolo a entrare nel mondo delicato e sfumato che De Pisis costruisce. Allo stesso modo, la sua poesia, pur essendo profondamente personale, non è mai un "auto-esame" fine a se stesso, ma una riflessione che si offre al lettore, lasciando a quest'ultimo lo spazio per trovarvi qualcosa di universale, di condivisibile.

Infine, l'attenzione di De Pisis alla bellezza imperfetta, alla transitorietà della vita e alla fragilità umana, si riflette in un altro aspetto centrale del suo lavoro: la sua costante ricerca di "autenticità". L'arte di De Pisis non è mai artificiosa o ornamentale. Ogni gesto, ogni pennellata, ogni parola è il risultato di una ricerca sincera e di una volontà di esprimere la verità emotiva dell'artista. In questo senso, la sua pittura e la sua poesia diventano strumenti di "autocoscienza", in cui l'artista non cerca di sfuggire alla realtà, ma di affrontarla con una sincerità che è a volte dolorosa, ma sempre luminosa. Questo impegno verso l'autenticità conferisce alla sua opera una potenza che supera la semplice bellezza estetica, trasformandola in un'esperienza emotiva profonda e intensa.