sabato 12 luglio 2025

L’assenza che brucia: Ahmet Güneştekin e il museo come ferita

In un tempo in cui l’arte rischia sempre più spesso di smarrirsi nella neutralità delle superfici, nella moltiplicazione degli stili, nella trasparenza politically correct del white cube, la mostra di Ahmet Güneştekin alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma arriva come un colpo al diaframma. Non solo per l’impatto visivo – già di per sé formidabile – ma per l’intenzione dichiarata, impudica, assoluta, di restituire all’arte un ruolo di testimonianza: memoriale, rituale, politica.
Con il titolo YOKTUNUZ – letteralmente “Eravate assenti”, in turco – Güneştekin chiama il pubblico a un confronto scomodo, a tratti insopportabile, con tutto ciò che viene rimosso: le morti nei deserti e nel mare, le lingue dimenticate, le culture minoritarie dissolte, i genocidi che non trovano spazio nei musei ufficiali. Ma anche le piccole sparizioni quotidiane, quelle dei corpi marginali, degli anonimi, dei dimenticati.

È una mostra che osa. E osa non solo nei contenuti, ma nella costruzione stessa dell’ambiente. Gli spazi della GNAM, dominati dalla monumentalità neoclassica e dalla quiete museale, vengono forzati, sfigurati, contaminati. Le installazioni di Güneştekin – alte, nere, totali – si ergono come obelischi funebri dentro sale dove si celebrava l’arte come promessa di armonia e progresso. Ne è esempio centrale YOKTUNUZ, una parete nera alta quattro metri, composta da materiali di scarto – cucchiai, pentole, vetri, posate contorte, scarpe – che si staglia davanti all’Ercole e Lica di Canova. Il confronto è brutale: da un lato, il corpo idealizzato dell’eroe neoclassico; dall’altro, la materia ferita, spezzata, testimone di tragedie collettive.

Ma è con l’installazione Picco di Memoria – rimossa dopo pochi giorni dall’inaugurazione a causa del forte odore che emanava – che l’artista ha fatto il gesto più radicale. Centinaia di scarpe annerite, accatastate, occupavano lo spazio e ne modificavano il clima, generando non solo disagio visivo ma un vero e proprio rigetto fisico. La protesta del personale, le ispezioni dell’ASL, le polemiche sui giornali hanno trasformato questa rimozione in un evento a parte. Ma il punto era precisamente questo: l’opera non intendeva essere decorativa o allegorica, bensì corporale, reale, putrescente. Voleva portare nel museo qualcosa che il museo, per definizione, rifiuta: la morte non sublimata, l’odore della perdita, la presenza della carne.

Critici e curatori si sono divisi. Ma pochi sono rimasti indifferenti. Per alcuni, come l’olandese Henk Bovenkamp (Art Review), l’opera tocca “un punto limite della museologia occidentale: quello in cui l’arte non è più né visione né contemplazione, ma testimone insostenibile”. Per altri, come la francese Laurence Farveau (Le Quotidien de l’Art), la mostra “fallisce proprio nella sua retorica dolorista, trasformando il trauma in spettacolo e feticcio”.

Ma per una larga parte della critica internazionale – da Frieze a Hyperallergic, da Artforum all’argentina Revista Otra ParteYOKTUNUZ rappresenta una svolta necessaria. Non tanto per il tema, quanto per la postura dell’artista: un artista che non cerca il consenso, che non si rifugia in soluzioni estetizzanti, e che anzi insiste sul conflitto. In questo senso, Güneştekin si inserisce in una genealogia che attraversa la body art più estrema (Santiago Sierra, Regina José Galindo), il minimalismo ossessivo e simbolico di Anselm Kiefer, le ritualità scultoree di Doris Salcedo.

Ma la sua specificità viene da altrove. Güneştekin lavora con il patrimonio mitico e spirituale della cultura curda, e lo fa con una densità figurativa che si distacca tanto dal linguaggio dell’arte concettuale quanto da quello del documentario. Le sue installazioni sono costruite come oggetti di culto, quasi reliquiari profani: pensiamo ai Sarcofagi dell’Alfabeto, che custodiscono lettere e lingue scomparse in strutture dorate, sospese tra la scrittura cuneiforme e l’arte povera. O all’enigmatico Sole dai Sette Occhi, che fonde simbologie solari e orbitali con la memoria dei rituali funerari.

Non c’è nulla di esplicitamente narrativo, eppure ogni opera gronda racconto. E non c’è nulla di didascalico: Güneştekin non illustra, evoca. Fa parlare la materia, non l’immagine. In questo senso, l’artista si pone all’opposto della corrente contemporanea che punta sulla riconoscibilità, sulla leggibilità immediata, sull’instagrammabilità. Le sue opere chiedono tempo, stanchezza, disponibilità al dolore.

La curatela di Paola Marino e Sergio Risaliti ha avuto l’intelligenza di non addomesticare questa forza. L’allestimento è sobrio ma calibrato, capace di sfruttare gli spazi della GNAM per generare risonanze, contrasti, dissonanze. In particolare, il dialogo con alcune opere storiche – come il già citato Canova, ma anche Burri e Fontana – non risulta forzato, bensì allusivo. L’effetto non è quello di una “mostra politica”, ma di un rito visivo.

È interessante notare come questa mostra si inserisca in una tendenza più ampia dell’arte contemporanea a ripensare il museo come spazio di frizione e non di protezione. In questo senso, YOKTUNUZ potrebbe essere accostata ad altre esposizioni recenti – penso a William Kentridge: Thick Time o a Theaster Gates: Black Chapel – che riflettono sull’assenza, sulla cancellazione, sulla memoria come azione materiale e non solo concettuale.

Infine, il pubblico. I visitatori si dividono, si fermano, discutono. Alcuni abbandonano le sale. Altri tornano. È raro, in una mostra istituzionale, assistere a un tale grado di coinvolgimento corporeo. Anche in questo senso, YOKTUNUZ è una mostra viva. Non solo perché l’arte “parla” – ma perché chi guarda non può più starsene zitto.

Se dovessimo definire YOKTUNUZ con una parola sola, potremmo dire: ineludibile. Non è una mostra che consola, che educa, che accompagna. È una mostra che disturba, che distoglie lo sguardo e poi lo restituisce, più lucido, più sporco, più vero.
Ahmet Güneştekin si conferma, qui a Roma, non solo un artista della diaspora, ma un artista del tempo presente. Capace di trasformare la mancanza in presenza, l’assenza in ferita, e la ferita in monumento.

YOKTUNUZ (Eravate assenti)
Ahmet Güneştekin alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma
Fino al 28 settembre 2025 – Viale delle Belle Arti 131