Prefazione
Scrivere oggi di una mostra d’arte significa confrontarsi con un paradosso: l’esperienza estetica è, nella maggior parte dei casi, anticipata e consumata ancor prima di essere vissuta. I social media, le immagini diffuse all’istante, la costruzione di narrazioni parallele attraverso il web trasformano l’evento in un dispositivo che precede e supera la sua stessa materialità. La mostra Fear of Painting di Maurizio Cattelan a Casa Malaparte si è presentata, sin dal suo annuncio, come un gesto opposto: un evento inaccessibile alla documentazione, sottratto deliberatamente all’iconografia di massa, protetto da un doppio filtro – la selezione dell’accesso su invito e il divieto assoluto di scattare fotografie.
Questa scelta, che potrebbe apparire come un esercizio di pura esclusività, merita invece di essere letta come un dispositivo estetico autonomo, capace di interrogare il nostro rapporto con l’immagine, con la memoria e con l’aura dell’opera d’arte. Il luogo stesso in cui la mostra si svolge, Casa Malaparte, non è neutro: sospesa su una scogliera di Capri, difficilmente raggiungibile, radicale nella sua forma architettonica, è già di per sé un’opera che mette in crisi il concetto di “contenitore”.
Il presente testo non intende limitarsi a una descrizione dell’esposizione, bensì proporre una riflessione più ampia su tre livelli interconnessi: la specificità architettonica e mitica di Casa Malaparte; la poetica di Maurizio Cattelan, con la sua capacità di giocare con il sistema dell’arte e con le aspettative del pubblico; la natura stessa dell’evento come “assenza programmata”, come esperienza che vive nella tensione tra esclusione e racconto. In questo senso, Fear of Painting diventa una lente attraverso cui osservare la trasformazione dei paradigmi estetici contemporanei, sospesi tra iper-visibilità e sottrazione.
Casa Malaparte: mito architettonico e topografia dell’eccezione
Casa Malaparte è un paradosso architettonico che ha saputo trasformarsi in mito ben oltre la sua funzione originaria di abitazione privata. Costruita negli anni Quaranta dall’intellettuale Curzio Malaparte, la villa sorge su Punta Massullo, un promontorio roccioso dell’isola di Capri, difficile da raggiungere e totalmente isolato dal tessuto urbano. La sua posizione, al confine tra terra e mare, sembra pensata per incarnare una condizione di sospensione: una casa che si apre sull’infinito, ma che al tempo stesso si nega alla città e ai suoi abitanti.
Dal punto di vista formale, l’edificio rappresenta una variazione radicale del razionalismo italiano. Il volume principale, un parallelepipedo puro e compatto, poggia direttamente sulla roccia e appare come un corpo monolitico che non ricerca alcuna mediazione con il paesaggio. La celebre scalinata esterna, che conduce a un tetto-terrazza perfettamente piano, conferisce all’insieme un carattere quasi sacrale, come se l’edificio fosse stato concepito come una sorta di altare laico, un punto d’osservazione privilegiato verso l’orizzonte. Il colore rosso pompeiano delle pareti amplifica questa sensazione di rottura, segnando un distacco visivo e concettuale rispetto all’ambiente naturale circostante.
Non si tratta, tuttavia, di un semplice esercizio di stile. Malaparte, scrittore e intellettuale controverso, vedeva nella casa un prolungamento del proprio pensiero, un gesto di affermazione individuale contro l’omologazione. Casa Malaparte non nasce come residenza di rappresentanza, ma come dichiarazione poetica: abitare la roccia, sottrarsi al mondo, costruire un rifugio che fosse anche una sfida. È in questo senso che l’edificio è diventato, negli anni, un simbolo dell’individualismo estetico, un luogo in cui architettura e biografia si confondono.
La sua fortuna iconografica è legata anche al cinema. Il film Il disprezzo di Jean-Luc Godard (1963) ha contribuito in modo determinante a fissarne l’immagine nell’immaginario collettivo. In quella pellicola, la casa diventa non solo sfondo, ma vero e proprio personaggio, simbolo della frattura tra intimità e alienazione, tra desiderio e incomunicabilità. Da allora, Casa Malaparte è stata fotografata e raccontata innumerevoli volte, sempre con un’aura di distanza e mistero.
Questa storia visiva rende particolarmente significativo il fatto che Fear of Painting scelga di ridurre al minimo la possibilità di documentazione. Se l’edificio è già stato reso mito dall’immagine cinematografica e fotografica, la mostra lo utilizza in modo opposto: lo sottrae alla circolazione immediata, obbligando a vivere il luogo e il tempo in maniera diretta. È come se la casa, dopo decenni di esposizione iconica, si fosse ritirata in se stessa, diventando di nuovo ciò che era all’origine: un punto d’accesso riservato, un rifugio, un altare privato.
Maurizio Cattelan: strategie del paradosso
La figura di Maurizio Cattelan rappresenta, da oltre tre decenni, uno degli snodi più complessi dell’arte contemporanea. Artista difficile da definire per appartenenza o linguaggio, ha costruito la propria poetica su un costante rovesciamento di aspettative, trasformando la provocazione non in un episodio isolato, ma in un vero e proprio metodo di indagine. La sua è un’arte che nasce dalla consapevolezza del sistema in cui opera: un sistema dell’arte che egli non si limita a criticare dall’esterno, ma di cui sfrutta le logiche interne per generare contraddizione, ironia e riflessione.
Sin dagli esordi negli anni Novanta, Cattelan ha scelto una posizione che potremmo definire di “artista parassita” nel senso nobile del termine: non inventare un linguaggio completamente autonomo, ma inserirsi nelle pieghe dei linguaggi e delle istituzioni esistenti, piegandoli a un significato altro. Celebre è l’episodio in cui, per la sua prima mostra personale, anziché esporre opere proprie, affittò lo spazio a un altro artista, rinunciando di fatto alla tradizionale logica dell’autorialità. È una dinamica che ritornerà costantemente: Cattelan non crea mai opere completamente isolate, ma sempre situazioni, cortocircuiti, spostamenti di senso.
Le sue opere più note – dal papa colpito da un meteorite (La Nona Ora, 1999) al bambino in ginocchio di fronte a un muro che rivela il volto di Hitler (Him, 2001), fino alla banana attaccata al muro con un nastro adesivo (Comedian, 2019) – non sono semplici provocazioni. Esse interrogano direttamente lo spettatore su questioni di potere, fede, identità, e soprattutto sul rapporto tra arte e mercato. La celebre banana, venduta per cifre astronomiche e al contempo replicabile all’infinito, è l’emblema di questa ambiguità: l’opera è sia oggetto fisico minimale sia pura idea concettuale, e il suo valore non dipende dal materiale, ma dal contesto e dalla narrazione che la sostiene.
In Fear of Painting, questo gioco paradossale si sposta su un terreno diverso. Non si tratta di una singola opera icona, facilmente riproducibile o scandalosa nel senso classico, bensì di una serie di sculture in marmo, silenziose, enigmatiche, prive di immediata riconoscibilità. È come se Cattelan avesse scelto, in un luogo già iconico come Casa Malaparte, di sottrarre se stesso alla logica del “colpo di scena” per affrontare un rischio più sottile: quello dell’irrilevanza apparente. In un’epoca in cui tutto è pensato per essere fotografato, condiviso, commentato, egli produce opere che non si lasciano consumare con uno sguardo rapido, e soprattutto in un contesto che ne impedisce la tradizionale mediazione digitale.
Questa scelta dialoga con l’intera carriera dell’artista. Cattelan ha spesso messo in discussione l’accessibilità dell’arte: le sue mostre non sono mai semplici allestimenti, ma esperienze in cui il pubblico è costretto a interrogarsi sul proprio ruolo. Nel 2011, al Guggenheim di New York, espose tutte le sue opere appese a una spirale sospesa nel vuoto (All), un gesto di sintesi e addio temporaneo che trasformava il museo stesso in una sorta di cantiere retrospettivo, dove l’atto di “appendere” le opere come corpi inerti diventava una riflessione sulla mortalità dell’arte e sulla sua serialità.
In questo senso, Fear of Painting può essere letta come una prosecuzione coerente di questa poetica, ma con un registro diverso: qui non vi è ironia esplicita, ma un silenzio denso, un vuoto che chiede di essere colmato dallo spettatore. Il titolo stesso, Fear of Painting, allude a una tensione interna: da un lato la pittura, tradizionalmente considerata l’apice dell’arte, dall’altro la paura, quasi fobica, di confrontarsi con essa in un’epoca in cui ogni immagine rischia di essere immediatamente assorbita dal flusso digitale. Cattelan sembra dire: “non si può più dipingere senza essere immediatamente catturati e consumati”; e allora sceglie la scultura, materiale e resistente, e al contempo un luogo che resiste al consumo stesso.
Questa operazione non è priva di rischi. In un luogo come Casa Malaparte, così fortemente caratterizzato da un’aura propria, ogni intervento artistico rischia di apparire come un’aggiunta superflua, un orpello che non regge il confronto con l’architettura e con il paesaggio. Cattelan, tuttavia, sembra accettare questa sfida con consapevolezza: le sue opere non cercano di dominare lo spazio, ma di inserirsi come presenze silenti, quasi interstiziali, in attesa di essere scoperte e interpretate.
La strategia del paradosso, dunque, qui si declina in modo diverso rispetto al passato: non più l’urto spettacolare con le aspettative, ma una sottrazione di senso, un’assenza che diventa protagonista. È un gesto che dialoga con la stessa condizione della villa: un luogo pensato per essere vissuto nella solitudine, nel silenzio, lontano dalla folla. Cattelan si appropria di questa logica, trasformando l’intera mostra in un’esperienza che vive non tanto nell’opera singola, ma nel rapporto tra il visitatore, l’architettura e l’impossibilità di mediare l’esperienza attraverso l’immagine digitale.
Ne risulta una mostra che, pur nella sua apparente discrezione, diventa un gesto radicale. È un ribaltamento delle dinamiche del sistema dell’arte contemporanea, che si alimenta di visibilità, condivisione e documentazione costante: Fear of Painting rinuncia a tutto ciò per costruire un’esperienza effimera, destinata a sopravvivere solo nella memoria e nel racconto di chi vi ha preso parte.
Dispositivo espositivo e teoria dell’assenza
Ogni mostra d’arte è, in un certo senso, un dispositivo: un insieme di regole, relazioni e condizioni che determinano non solo ciò che si vede, ma anche il modo in cui lo si vede. Nel caso di Fear of Painting questo dispositivo è tanto più evidente perché non si limita a organizzare le opere nello spazio, ma si estende alla stessa possibilità di accesso, alla documentazione e, di conseguenza, alla memoria pubblica dell’evento. L’assenza programmata – l’impossibilità di fotografare, l’accesso ristretto e l’inserimento in un luogo già mitizzato come Casa Malaparte – diventa essa stessa contenuto estetico, parte integrante della poetica.
Parlare di “dispositivo” significa fare riferimento non a un semplice allestimento, ma a un’intera struttura di potere e significato. Michel Foucault ha definito il dispositivo come una rete eterogenea di discorsi, istituzioni, architetture e pratiche che organizzano e regolano un campo di esperienza. In questo senso, una mostra non è mai un fatto neutro: essa implica una selezione (di opere, di spazi, di percorsi) e una gerarchia di accesso e fruizione.
Fear of Painting porta questo concetto alle estreme conseguenze. Il divieto fotografico non è un dettaglio tecnico, ma una scelta linguistica: è come se la mostra pronunciasse un “no” performativo, un atto di linguaggio nel senso elaborato da John L. Austin. Non si tratta soltanto di impedire una pratica comune, ma di modificare la natura stessa dell’esperienza: chi entra in Casa Malaparte si trova improvvisamente disarmato, costretto a vivere l’arte senza il filtro dell’immagine mediata, senza la possibilità di archiviarla o di diffonderla. Il gesto di vietare la fotografia, in un’epoca che vive di immagini, è paradossalmente un modo per restituire alla visione il suo carattere di evento unico, irripetibile, non replicabile.
Questa scelta dialoga con la celebre riflessione di Walter Benjamin sull’aura dell’opera d’arte. Secondo Benjamin, la riproduzione tecnica – fotografia, cinema – dissolve l’aura, intesa come “unicità di un’opera irripetibile nel luogo e nel tempo in cui si trova”. In epoca digitale, quando ogni immagine è immediatamente replicabile e condivisibile, questa dissoluzione sembra essere giunta al suo punto estremo. Ma è proprio in questa condizione di iper-riproducibilità che operazioni come quella di Cattelan trovano un senso nuovo: l’aura non viene “scoperta” ma deliberatamente “costruita” attraverso una sottrazione programmata.
L’aura, in Fear of Painting, non deriva soltanto dall’unicità delle opere (sculture in marmo, materiale per sua natura resistente e nobile), ma dall’impossibilità di possederne l’immagine. Il divieto di fotografare costringe a un’esperienza della presenza: ciò che si vede non può essere trattenuto se non nella memoria individuale. In questo senso, l’aura non è una qualità intrinseca dell’opera, ma il risultato di un’operazione curatoriale consapevole che utilizza la sottrazione come strategia critica.
Uno degli effetti più rilevanti del divieto di documentazione è la restituzione di centralità al corpo del visitatore. Senza smartphone o fotocamere, la fruizione torna a essere un’esperienza essenzialmente fisica: occorre muoversi nello spazio, osservare le sculture da diverse angolazioni, percepire la luce che cambia nel corso della giornata. Casa Malaparte, con le sue finestre che inquadrano il mare e la roccia, con la sua terrazza esposta al vento, amplifica questa dimensione sensoriale. L’assenza di registrazione esterna costringe lo spettatore a rallentare, a guardare davvero, a costruire una memoria personale anziché affidarsi a un supporto tecnologico.
Questa dinamica si inserisce in una tendenza più ampia dell’arte contemporanea, che negli ultimi anni ha visto il diffondersi di pratiche “anti-fotografiche” o “no social”, come risposta alla saturazione delle immagini. Basti pensare ad alcune mostre immersive in cui i visitatori devono lasciare i telefoni all’ingresso, o ad alcune performance in cui è vietato documentare. Fear of Painting si colloca in questa linea, ma con una differenza sostanziale: qui non si tratta di spettacolarità immersiva, bensì di un vuoto intenzionale. Non vi è alcun tentativo di compensare l’assenza di fotografia con un eccesso sensoriale; al contrario, l’esperienza è essenziale, silenziosa, quasi ascetica.
Il dispositivo dell’assenza non riguarda solo la relazione tra opera e spettatore, ma investe anche la produzione di senso successiva all’esperienza. Senza fotografie, senza video, senza la possibilità di “mostrare” ciò che si è visto, l’unico modo di trasmettere la mostra diventa la parola: il racconto personale, la descrizione, la rielaborazione immaginativa. Ogni visitatore diventa, in questo senso, un co-autore della narrazione dell’evento, costretto a trasformare in linguaggio ciò che ha visto.
Questa trasformazione ha una dimensione culturale rilevante. In un’epoca in cui la testimonianza visiva è considerata prova inconfutabile, la mostra di Cattelan restituisce al linguaggio verbale una centralità inattesa: non si può dire “guarda qui la foto”, ma solo “ti racconto cosa ho visto”. La trasmissione dell’esperienza diventa così più lenta, soggettiva, differita, riportando il discorso sull’arte a una dimensione pre-digitale, quasi orale.
L’assenza programmata, dunque, non riduce l’impatto dell’evento, ma lo amplifica. Ciò che non si può fotografare tende a essere ricordato di più, a fissarsi nella memoria. Il divieto di documentazione, lungi dall’essere un ostacolo, diventa una strategia di marketing culturale raffinata: più un evento è inaccessibile, più cresce il desiderio di conoscerlo. Questa dinamica, nota anche in sociologia della cultura (si pensi al concetto di “capitale simbolico” di Pierre Bourdieu), mostra come l’esclusività non sia un fatto marginale, ma una componente strutturale del valore percepito.
Fear of Painting utilizza questa logica in modo consapevole, ma senza cadere nella pura retorica dell’élite: non è un evento mondano fine a se stesso, ma un’occasione di riflessione sul nostro rapporto con l’arte. L’assenza qui non è un espediente per creare rarità artificiale, ma un invito a considerare la differenza tra vedere un’immagine e vivere un’esperienza.
Accesso come rito di passaggio: la fruizione come esperienza trasformativa
L’atto stesso di accedere a Casa Malaparte per visitare Fear of Painting si configura come un’esperienza liminale, un attraversamento che supera il semplice spostamento fisico per farsi rito simbolico. Il concetto di rito di passaggio, elaborato da Arnold van Gennep e poi approfondito da Victor Turner, diventa uno strumento utile per interpretare la dimensione esperienziale che la mostra costruisce, dove il viaggio, l’attesa e la soglia costituiscono momenti essenziali per l’accesso al sacro spazio dell’arte.
Casa Malaparte non è una galleria tradizionale, né un museo facilmente raggiungibile. La sua collocazione – una scogliera isolata accessibile solo via mare – rende l’ingresso un gesto che richiama antiche pratiche di separazione dal mondo quotidiano. Il viaggio in barca, la traversata del mare, evocano simboli ancestrali di attraversamento e trasformazione: l’accesso diventa un rito che prepara il visitatore a uscire dalla realtà ordinaria e a entrare in un tempo e uno spazio speciali, dedicati all’esperienza estetica in forma pura.
La dimensione simbolica della soglia si manifesta non solo nello spazio fisico, ma anche nelle condizioni imposte dall’organizzazione: l’accesso su invito selezionato, il divieto di fotografie, l’assenza di pubblicità e documentazione mediatica. Tutto concorre a costruire una barriera che separa chi “entra” da chi resta fuori, un confine invisibile ma reale, che moltiplica il valore della mostra e ne fa un evento privilegiato e quasi “iniziatico”.
Nel rito di passaggio l’attesa non è un mero intervallo temporale, ma una fase strutturale che prepara il soggetto al cambiamento. Nell’esperienza di Fear of Painting, l’attesa si concretizza nella preparazione stessa: la ricezione dell’invito, il viaggio per raggiungere la villa, la consapevolezza che l’esperienza sarà unica e non documentabile. Questo stato di attesa attiva una tensione emotiva e cognitiva che condiziona la percezione e l’interpretazione dell’opera.
Il tempo dell’attesa si dilata e si fa prezioso: ogni istante diventa carico di aspettativa e desiderio, e questo gioco di tensione tra desiderio e fruizione amplifica la partecipazione emotiva del visitatore. La mostra, così, si proietta oltre lo spazio fisico, entrando nella dimensione temporale dell’esperienza soggettiva, che si traduce in una memoria più intensa e duratura.
La restrizione dell’accesso e il divieto di fotografia trasformano inevitabilmente il ruolo del visitatore. Non più semplice spettatore passivo, ma parte attiva di una performance collettiva che si realizza proprio nell’atto stesso della fruizione. La rinuncia a documentare – a riprendere e condividere – richiede un gesto di fiducia e di abbandono, quasi un patto silenzioso con l’arte e con il luogo.
Questo patto segna un passaggio importante: il visitatore diventa custode di un’esperienza privata, unica e irripetibile, che esiste solo nella sua memoria e nella sua narrazione personale. In questa forma di co-partecipazione, il pubblico assume un ruolo creativo, contribuendo a dare senso e vita all’evento espositivo.
Se da un lato la mostra esclude per definizione gran parte del pubblico, dall’altro crea una comunità ristretta e selezionata, che si riconosce nell’esperienza condivisa. Questa comunità non si definisce attraverso la visibilità esterna o la presenza mediatica, ma nella consapevolezza di aver varcato una soglia riservata, in cui il tempo e lo spazio si dilatano.
È un paradosso tipico delle esperienze rituali: la forza del legame non risiede nella sua estensione quantitativa, ma nella profondità qualitativa dell’esperienza vissuta. La mostra si configura così come un “cerchio sacro” in cui l’arte si fa rito e la fruizione diventa evento esistenziale.
In una società sempre più permeata dalla cultura digitale e dall’accessibilità istantanea, la scelta di rendere un’esperienza così limitata e difficile da condividere diventa anche un gesto di critica sociale. Essa mette in discussione le pretese di democratizzazione totale dell’arte, che spesso si traduce in una superficialità del rapporto con l’opera e in un consumo rapido e dispersivo.
Il rito di accesso, in Fear of Painting, si oppone a queste dinamiche: richiede tempo, attenzione, dedizione e selezione. Impone un’esperienza lenta e profonda, che contrasta con la fruizione frammentaria tipica dell’era dei social network. In questo senso, la mostra si presenta come una forma di resistenza culturale, che riscopre il valore della soglia, dell’attesa e della presenza corporea come condizioni necessarie per l’incontro autentico con l’arte.
Casa Malaparte come co-autrice: lo spazio che parla
Casa Malaparte, nel contesto della mostra Fear of Painting, non si limita a fungere da contenitore neutro per le opere di Maurizio Cattelan, bensì assume un ruolo di protagonista attivo nel processo estetico, fino a configurarsi come una vera e propria co-autrice. L’idea di co-autorialità in ambito artistico si rifà a una riflessione ormai consolidata sulla natura relazionale dell’opera d’arte contemporanea, che non esiste più come oggetto isolato, ma come risultato di un dialogo complesso tra opera, spazio, pubblico e contesto.
Casa Malaparte si presenta come un volume architettonico fortemente caratterizzato, con una presenza materica e cromatica che sfida la naturalezza del paesaggio circostante. La sua struttura geometrica, il colore rosso pompeiano, la scalinata monumentale che conduce alla terrazza, insieme alla posizione sospesa sul mare, formano un ambiente che non può essere semplicemente ignorato dall’arte che ospita.
Nel confronto con le sculture di Cattelan, la casa non agisce come sfondo, ma come medium che dialoga con le forme, i materiali e i significati. Le sculture in marmo, dal carattere enigmatico e silenzioso, sembrano prendere vita solo nell’interazione con la luce che filtra dalle finestre, con il vento che attraversa le stanze e con la vista mutevole sull’orizzonte marino. L’architettura non incornicia semplicemente le opere, ma ne determina la percezione, amplificandone la tensione poetica e trasformando la visita in un percorso sensoriale e intellettuale.
L’idea di uno spazio narrativo, inteso come ambiente che racconta una storia attraverso la sua configurazione e le relazioni che crea, è centrale nella lettura di Casa Malaparte. L’edificio, con le sue aperture strategiche e i suoi volumi essenziali, impone un ritmo alla visita, suggerendo tappe e punti di osservazione che orientano la fruizione.
Questo ritmo non è lineare né prevedibile: la luce cambia di ora in ora, il mare riflette tonalità diverse, la prospettiva si sposta con il movimento del visitatore. Ogni momento vissuto nella villa è unico, e le sculture di Cattelan diventano elementi di un racconto fluido che si svela solo nella temporaneità dell’esperienza.
L’arte site-specific nasce dall’idea che un’opera non possa essere separata dal luogo in cui si trova senza perdere parte del suo significato. In questo senso, Fear of Painting si iscrive in una tradizione che parte dagli anni Sessanta, quando artisti come Richard Serra o Robert Smithson hanno iniziato a concepire opere fortemente radicate nel paesaggio e nell’architettura.
Casa Malaparte, per la sua unicità formale e simbolica, impone un’interazione obbligata con le opere ospitate. Cattelan non sceglie uno spazio neutro e facilmente adattabile: sceglie un luogo che già possiede una narrazione forte, una storia e un’aura che dialogano con la sua arte. La relazione che si crea non è di sovrapposizione, ma di coesistenza e di arricchimento reciproco, in cui l’architettura influenza la lettura delle sculture e viceversa.
Visitare Casa Malaparte significa immergersi in un ambiente che stimola sensazioni profonde, quasi metafisiche. La sospensione tra il cielo e il mare, la materialità grezza della pietra, la semplicità geometrica degli spazi, si combinano per creare un’atmosfera di contemplazione.
Le sculture di Cattelan, con la loro fisicità marmorea, si inseriscono in questo ambiente come presenze quasi spirituali, richiamando il senso di sacralità del luogo. Non sono semplici oggetti da guardare, ma figure che evocano silenzi, assenze e interrogativi. La casa, in questo modo, si trasforma da semplice scenario a partner creativo, capace di elevare la mostra a un’esperienza totalizzante.
Il rapporto tra arte e architettura, tra opera e luogo, è una delle questioni più dibattute nell’arte contemporanea. Mostre come quelle di James Turrell negli spazi naturali o di Olafur Eliasson nelle gallerie urbane mostrano come lo spazio modifichi radicalmente la percezione delle opere.
In questo panorama, Fear of Painting si distingue per la radicalità della sua scelta: un luogo difficilmente accessibile, con una forte identità storica e simbolica, e un artista che accetta la sfida di dialogare senza cercare la predominanza. La mostra non si propone di “vestire” lo spazio, ma di integrarsi in esso, in una co-autorialità che rende Casa Malaparte un’estensione dell’opera stessa.
Conclusioni e prospettive: assenza, presenza e nuove mitologie nell’arte contemporanea
L’analisi di Fear of Painting a Casa Malaparte mette in luce un fenomeno cruciale nel panorama artistico contemporaneo: la volontà di rifondare il rapporto tra opera, spazio e pubblico attraverso la scelta radicale dell’assenza programmata. In un’epoca dominata dalla riproducibilità digitale, dalla condivisione continua e dalla sovraesposizione mediatica, la mostra di Maurizio Cattelan si presenta come un gesto controcorrente, che recupera e reinventa il valore dell’esperienza diretta e irripetibile.
L’assenza, in questa mostra, non è semplicemente una negazione o un vuoto, bensì una presenza rafforzata. È la sottrazione dell’immagine che costringe lo spettatore a confrontarsi con il corpo, il tempo e lo spazio, restituendo alla visione il suo carattere unico e fugace. Questo spostamento implica un ribaltamento della tradizionale logica dell’arte contemporanea, spesso fondata sulla massima visibilità e sull’immediatezza della comunicazione digitale.
Fear of Painting mette in crisi la nozione che “vedere” equivalga automaticamente a “conoscere” e invita a riconoscere il valore dell’esperienza vissuta come momento di passaggio, di trasformazione soggettiva e culturale.
La strategia dell’esclusività, per quanto possa sembrare in contrasto con le aspirazioni democratiche dell’arte contemporanea, rivela qui una sua funzione mitopoietica. L’evento diventa leggendario, non solo per le opere in sé, ma per il rito che ne costituisce il cuore: la selezione, il viaggio, la soglia e la limitazione dell’accesso trasformano la mostra in una narrazione condivisa che si trasmette attraverso la parola e la memoria.
In questo senso, Casa Malaparte e Fear of Painting ripropongono, con modalità contemporanee, la questione dell’aura benjaminiana, riconfigurandola non come perdita irreversibile, ma come conquista strategica. L’aura si costruisce dunque attraverso la sottrazione e l’attesa, divenendo un dispositivo culturale che sfida le logiche del consumo veloce e dell’omologazione.
Il rito di accesso, con la sua dimensione selettiva e temporale, non si limita a escludere ma crea una comunità ristretta, che condivide un’esperienza intensa e profonda. Questa comunità si fonda su un patto di fiducia e su una partecipazione attiva, in cui il pubblico non è più spettatore passivo ma co-creatore del senso dell’opera attraverso la memoria e la narrazione.
La mostra si pone quindi come esempio di un’arte che torna a porsi come esperienza esistenziale, capace di agire sulla soggettività e di creare legami sociali fondati sul rispetto del tempo, dello spazio e dell’intimità.
In un’epoca in cui la tecnologia continua a trasformare le modalità di fruizione, Fear of Painting rappresenta un invito a ripensare i dispositivi espositivi e la relazione tra arte e pubblico. La sfida posta dall’assenza programmata potrebbe aprire la strada a nuovi modelli di esperienza artistica, in cui la presenza fisica, la soglia e la limitazione diventano strumenti di significato, e in cui la memoria e la parola ritornano al centro del discorso estetico.
Questa prospettiva solleva questioni importanti sulle dinamiche di inclusione ed esclusione, sul ruolo delle istituzioni e sul potere simbolico degli spazi, ponendo l’arte contemporanea davanti a una sfida etica e culturale di non poco conto.
La mostra di Maurizio Cattelan a Casa Malaparte si configura così non solo come un evento artistico, ma come un testo aperto di riflessione sulle tensioni che attraversano la cultura visiva contemporanea, restituendo alla parola “esperienza” il suo significato originario: un passaggio, un incontro trasformativo, un rito che trasforma chi vi partecipa.