sabato 26 luglio 2025

Anime in transito. Metempsicosi e metamorfosi del soggetto

In principio, c'è un malinteso. Un gioco linguistico, uno slittamento semantico, una parola intraducibile che inciampa tra le labbra di Molly Bloom. È l'alba della modernità letteraria, e nella camera da letto di un'ordinaria coppia di Dublino si consuma un incontro comico e vertiginoso con l'ignoto: "Metempsicosi", dice Leopold Bloom, scandendo la parola come se fosse una formula magica, un enigma antico sospeso tra superstizione e filosofia. Non sa davvero cosa significhi, eppure la pronuncia. Così come Joyce la scrive, e la lascia vibrare, mentre Nietzsche, altrove, ne trasforma il senso in un'alchimia spirituale.

La metempsicosi, nella sua accezione più tradizionale, è la trasmigrazione delle anime. Ma questo significato lineare non basta a contenere le forze che lo attraversano. Nel tempo si scompone, si deforma, si reincarna. È un mito, un'idea, un miraggio che prende mille volti: reincarnazione per i pitagorici, resurrezione nel platonismo cristianizzato, dissoluzione e rinascita nella modernità letteraria.

Per Joyce, metempsicosi è una parola goffa, comicamente fuori posto tra le lenzuola di casa Bloom. Ma è anche un indizio. Come se la coscienza, scivolando da un personaggio all'altro, da un pensiero all'altro, non fosse altro che una forma di reincarnazione narrativa. Ogni flusso di coscienza è una migrazione, ogni pensiero una metamorfosi.

Nietzsche, invece, prende la parola e la reinventa. La libera dalla sua origine metafisica e la fa esplodere in una parabola del divenire. In Così parlò Zarathustra, la metempsicosi è la mutazione dello spirito: non più passaggio da un corpo all'altro, ma trasfigurazione interna. Il cammello, il leone, il bambino: tre stadi, tre visioni, tre aperture verso la libertà.


[1. Joyce e la metempsicosi come flusso narrativo]

Nel mondo joyciano, la parola è sempre doppia: dice e disdice, mostra e occulta. "Metempsicosi" diventa un oggetto narrativo, un fossile linguistico che Bloom cerca goffamente di decifrare, e Molly ascolta con perplessa ironia. L'intera scena, tra i più celebri episodi comici dell'Ulisse, non è solo uno scambio domestico: è una riflessione semiotica in forma di teatro da camera.

Bloom non capisce il significato della parola, e ciò nonostante prova a spiegarlo. Il suo tentativo è emblematico del gesto joyciano: la parola, anche se non è posseduta, può essere giocata, manipolata, desiderata. La metempsicosi è, per Bloom, un oggetto opaco, ma proprio per questo potente. Ciò che non si comprende appieno può produrre effetti reali. È un concetto che, pur nel suo non-sapere, genera mondi.

Questa è la vera reincarnazione in Joyce: il pensiero che si fa carne del testo. Le anime non trasmigrano da un corpo all'altro, ma da una mente all'altra, da una frase all'altra. Il flusso di coscienza è reincarnazione perpetua: un'idea che nasce nella testa di Stephen Dedalus, passa nella voce narrante, si deposita in una digressione, poi riaffiora nei pensieri di Bloom. Non c'è centro, non c'è gerarchia: c'è movimento.

Ecco allora che la metempsicosi è anche lo stile stesso dell'Ulisse: una forma narrativa che muta pelle di continuo, passando dal racconto lineare al dialogo interiore, dalla parodia alla solennità mitica, dal realismo grottesco al flusso epifanico. Joyce non descrive la metempsicosi: la pratica. La realizza a livello linguistico, sintattico, ontologico. Il suo romanzo è metempsicotico perché è fatto di trapassi, transiti, reincarnazioni stilistiche.

In questa luce, anche la scelta di ambientare l'intera vicenda in una sola giornata diventa paradossale: il tempo si contrae mentre la forma si espande, l'io si smembra in cento voci e tutte queste voci sono, in fondo, il gesto di un'unica anima che muta.

[2. Nietzsche: metamorfosi e trasvalutazione]

Nietzsche, dal canto suo, non crede in un'anima immortale. Eppure riprende la parola "metempsicosi" per rovesciarne il senso. La sua versione è secolarizzata, vitalistica, drammatica: non più trasmigrazione dopo la morte, ma metamorfosi nel vivo dell'esistenza. Il cammino dello spirito non è lineare, ma ciclico, articolato, denso di pericoli e di rivelazioni.

Il cammello rappresenta l'uomo morale, gravato dal peso della cultura, della religione, delle aspettative sociali. La sua forza è servile: sopporta, si piega, resiste. Ma non crea. La sua libertà è passiva: fa bene ciò che gli è stato chiesto. Vive nel dovere, e chiama questo dovere "scelta".

Il leone, al contrario, è l'animale della ribellione. Ruggisce contro il drago che dice "Tu devi". Spezza le catene, dice no. Ma ancora non è libero. La sua è una libertà negativa, definita per opposizione. La sua forza è reattiva.

Solo il bambino, nella sua innocenza radicale, può ricominciare. È il vero spirito libero: non perché non conosce il male, ma perché ha attraversato la negazione e ora gioca. Il gioco è creazione pura. È dire sì al mondo, senza più nostalgia per il passato, senza più paura del futuro.

In questa sequenza, Nietzsche non propone una scala morale, ma un ritmo ontologico. Si tratta di morire a ciò che si è stati per diventare ciò che non si è ancora. La metempsicosi diventa dunque pedagogia esistenziale: un processo di trasvalutazione dei valori, una pratica della rinascita.

[3. Derrida: l’anima come differenza]

Quando Jacques Derrida pronuncia il nome “metempsicosi”, non lo fa per evocarne la sostanza, ma per mostrarne la fessura. Ciò che chiamiamo anima non è mai stabile, mai identica a sé. Non c’è trasmigrazione da un punto A a un punto B, ma un incessante slittamento: un’anima che, per esserci, deve sempre differirsi da se stessa, deve sempre essere “altrove”.

La différance derridiana è precisamente questo: l’assenza di un punto di partenza stabile, la messa in crisi della presenza. Se la metempsicosi era la sopravvivenza dell’anima in un altro corpo, ora essa è sopravvivenza come tale: sur-vie, un vivere-oltre che è già nella scrittura, nella traccia, nel non-presentarsi dell’origine.

In questa prospettiva, ogni anima che migra è già sfasata, già scissa. Ciò che trasmigra non è l’io, ma il suo simulacro, il suo doppio, la sua ombra scritturale. Non vi è mai “identità” che passi da un corpo all’altro: solo una catena di differenze. In questo senso, Derrida fa della metempsicosi non un evento metafisico, ma una struttura dell’esperienza: noi viviamo sempre nel corpo dell’altro, dentro un linguaggio che ci precede e ci eccede.

Il soggetto non è che una fiction che si reinscrive, si ripete, si deforma. Il mito dell’anima che sopravvive trova la sua verità in questo svanire continuo. Non reincarnazione, dunque, ma iterazione. Non continuità, ma ritardo.

[4. Deleuze: divenire e metempsicosi come fuga]

In Deleuze, la metempsicosi non è né sostanza né mito, ma funzione del divenire. Niente anime, niente corpi fissi: solo flussi. Il soggetto è un campo di forze che mutano, che si smontano. Ogni identità è temporanea. Ogni corpo è macchina desiderante. Nessun io si trasmigra, perché nessun io esiste. Esistono invece divenire-donna, divenire-animale, divenire-impercettibile.

La metempsicosi in Deleuze non è il passaggio da un corpo all’altro, ma l’attraversamento delle forme: il corpo che muta le sue connessioni, che si deterritorializza, che fugge. Non si tratta di conservare qualcosa da reincarnare, ma di perdersi, di decostruirsi, di creare nuove costellazioni.

Nel suo sodalizio con Guattari, Deleuze descrive soggettività multiple, composte, nomadi. La reincarnazione si trasforma in ligne de fuite: una via di fuga dai dispositivi che normalizzano. Divenire è sempre metempsicosi in senso radicale: non si rinasce come se stessi, ma si attraversa l’impossibile. Si diventa altro.

[5. Bataille: l’anima che si spezza]

Georges Bataille, invece, porta il concetto nel territorio del sacro. La metempsicosi, nella sua visione, non è la salvezza dell’anima ma la sua lacerazione. L’essere è esperienza dell’eccesso, della dismisura, dell’impossibile. La vera rinascita è nella perdita.

L’anima non trasmigra, si dissolve. Ogni atto sacro è un atto di distruzione: erotismo, riso, sacrificio, scrittura. La metempsicosi è l’abbandono dell’identità, lo scandalo della soglia. Non si passa da un corpo all’altro, ma da un ordine all’altro. Dal profano al sacro, dalla misura alla vertigine. L’anima non “si salva”, si consuma, si spezza, si espone.

Per Bataille, dunque, l’esperienza interiore è una discesa nell’assenza. Ogni io che si crede eterno è già morto. L’unico modo di rinascere è perdersi. L’unico modo di vivere è attraversare la morte.

[6. Agamben: soglia, potenza e disattivazione]

Giorgio Agamben affronta il tema della metempsicosi a partire dal concetto di soglia: il luogo in cui la vita si fa forma, e la forma si svuota. La sua riflessione sulla potenza come apertura radicale — la potenza-di-non — permette di leggere la metempsicosi non tanto come passaggio da una vita a un’altra, ma come messa in questione dell’attualità stessa dell’essere.

Nel pensiero agambeniano, l’anima non si reincarna, ma viene disattivata: non si compie, non si identifica. La vera trasmigrazione è nell’abbandono del dispositivo, nella sospensione della funzione. Così come la liturgia può essere svuotata del suo fine cultuale, così anche la soggettività può liberarsi dai ruoli che la incarnano.

La metempsicosi è quindi il gesto che espone il corpo alla sua possibilità senza necessità: l’anima, in questo senso, è ciò che resta quando ogni identità è sospesa. Un soggetto che passa, ma non per reincarnarsi: passa per mostrare il suo passaggio, renderlo inoperoso, pensarlo come pura soglia.

[7. Cixous: l’anima è scrittura, la scrittura è corpo]

Per Hélène Cixous, la metempsicosi è esperienza del desiderio femminile. Non esiste anima separata dal corpo, ma scrittura che incarna. La écriture féminine è già reincarnazione: è passaggio da un corpo all’altro, è migrazione del senso, è corpo che scrive, scrittura che geme, che ride, che si fa carne.

Scrivere è trasmigrare. Ogni parola viene da un altrove, da un ventre, da un sogno. Per questo l’anima non è un’essenza: è un esercizio. Le donne, escluse dal Logos, dalla trasmissione del nome e della legge, hanno sempre praticato la metempsicosi silenziosa, la reincarnazione attraverso i segni, i miti, i racconti.

Cixous restituisce all’anima la sua corporeità erotica, la sua molteplicità. La vera reincarnazione è il piacere: essere mille, essere molte, essere mutanti. Ogni donna che scrive partorisce un mondo, e in quel mondo l’anima non si salva — gode.

[8. Blanchot: l’opera e la voce dell’invisibile]

Maurice Blanchot non dice mai “anima”, ma ne parla costantemente. L’anima è ciò che manca. Ciò che l’opera cerca di inseguire senza mai afferrare. L’opera d’arte è sempre postuma, come l’anima che giunge troppo tardi per salvarsi.

La metempsicosi in Blanchot non è passaggio, ma attesa. Non è sopravvivenza, ma sopportazione dell’invisibile. Il soggetto non reincarna, ma scompare nel linguaggio. La letteratura è il luogo di questa scomparsa: non rappresenta l’anima, la lascia parlare nel vuoto.

Come nei racconti di Kafka, ogni io è già morto. E tuttavia continua a parlare. Questo è il vero scandalo: la voce dell’anima non è la salvezza, ma la testimonianza della sua assenza. Non rinasce: resta. Come resto, come traccia, come impossibile da vivere.

[9. Kristeva: abiezione, maternità e soggettivazione metempsicotica]

Julia Kristeva affronta la questione della soggettività nei termini del rapporto con l’abiezione, il corpo materno e il semiotico. In questo quadro, la metempsicosi non è passaggio metafisico, ma lacerazione del simbolico: ogni soggetto è il risultato di una perdita. Per diventare io, bisogna aver abbandonato la madre. L’anima, se c’è, è quel residuo.

La trasmigrazione è l’effetto del linguaggio che si innesta sul corpo: una scissione, un’esclusione, ma anche un rimosso che ritorna. La metempsicosi, allora, è pulsione che si fa parola, trauma che si ripete. Scrivere è un modo per reincarnare ciò che è stato espulso: dare forma all’informe, dire il non-detto.

Il soggetto è sempre in transito. La soggettività non è mai piena, ma sempre mancante. In questo senso, ogni soggetto è un’anima in trasmigrazione: non tra corpi, ma tra linguaggi, tra simboli, tra sintomi.

[10. Nancy: l’anima condivisa]

Jean-Luc Nancy rompe con l’idea cristiana e cartesiana dell’anima come sostanza individuale. Per lui, l’anima è apertura, esposizione. Non è ciò che abita un corpo, ma ciò che lo mette in relazione. Non si migra da un corpo all’altro: si è sempre già in una condizione di essere-con.

La metempsicosi, in questo quadro, non è un evento che accade a un soggetto: è il soggetto stesso come evento. L’io è metempsicotico perché è sempre diviso, pluralizzato, reso vulnerabile. L’anima è ciò che non si possiede, ma che si dona.

Per Nancy, allora, la vera metempsicosi è l’amicizia, la prossimità, la comunità senza fondamento. Ciò che trasmigra non è l’identità, ma l’esperienza della co-esistenza. Un soggetto è reincarnazione continua, perché è sempre-altro-da-sé.

[11. Mbembe: la diaspora come metempsicosi storica]

Achille Mbembe rilegge la storia del colonialismo, della schiavitù e del razzismo globale come storia di metempsicosi forzate. La tratta atlantica è il momento in cui milioni di corpi neri sono stati separati dalla loro terra, dai loro nomi, dalle loro anime.

Ma è anche il momento in cui questi stessi corpi hanno cominciato a reincarnarsi in altri linguaggi, altre culture, altre forme di vita. La diaspora è una metempsicosi politica: un’anima collettiva che non si lascia ridurre alla morte, ma sopravvive, si reinventa, resiste.

Per Mbembe, l’anima nera è un archivio di reincarnazioni: nei tamburi della capoeira, nei gospel, nei romanzi afrofuturisti, nei corpi queer neri che sfidano le norme del potere. Ogni reincarnazione è lotta. Ogni trasmigrazione è memoria attiva.

[12. Conclusione comparativa: reincarnazioni del concetto, genealogie della soggettività]

Metempsicosi: una parola sola, mille transiti. Dal mito greco alla parodia joyciana, dal divenire nietzschiano al differire derridiano, ogni autore ha preso in carico l’enigma dell’anima in viaggio. Ma ciò che davvero accomuna questi approcci non è un comune oggetto, bensì una comune operazione: la decostruzione dell’identità, la messa in crisi dell’unità del soggetto, la sua riapertura al molteplice.

Joyce trasforma la metempsicosi in forma narrativa, facendo dell’anima un dispositivo stilistico. Nietzsche la reinterpreta come pedagogia del divenire, attraversamento esistenziale. Derrida la mostra come differenza, slittamento che disfa la presenza. Deleuze la fa esplodere come linea di fuga, divenire senza io. Bataille la spezza nell’eccesso, nell’abiezione, nella sovranità del sacro.

Agamben ne fa soglia e inoperosità. Cixous la reinventa come erotica della scrittura. Blanchot la consegna alla voce dell’invisibile. Kristeva la incarna nella lacerazione simbolica del linguaggio materno. Nancy la riconosce nell’apertura intersoggettiva. Mbembe la storicizza nella diaspora postcoloniale.

Non c’è dunque una metempsicosi, ma molte. E ciascuna ci parla del nostro tempo: un’epoca in cui le identità si moltiplicano, si frantumano, si mescolano. Un’epoca che ha perso la fede in un’anima eterna, ma non ha smesso di cercare forme di sopravvivenza, di trasmissione, di trasformazione.

[13. Sintesi critica: verso una politica delle anime migranti]

La metempsicosi, come concetto, ha subito una trasmigrazione semantica. Da credenza religiosa a figura filosofica, da escatologia a poetica del sé, da mito ontologico a strumento di analisi culturale. In questo transito, ha perso la sua funzione rassicurante, e ha acquisito una potenza critica: mettere in discussione il soggetto, i suoi limiti, le sue metamorfosi.

Oggi, parlare di metempsicosi significa interrogare il modo in cui viviamo la trasformazione. In un mondo segnato da crisi ecologiche, dislocamenti di massa, transizioni di genere, mutazioni tecnologiche, l’anima non è più un’essenza ma una soglia, una frontiera, una possibilità.

Questa metamorfosi chiama in causa anche l’etica e la politica. Come ci relazioniamo agli altri se siamo sempre-altro-da-noi? Come pensiamo il diritto, la responsabilità, la memoria, se l’identità è un processo e non un dato? La metempsicosi diventa allora non solo un concetto filosofico, ma un gesto: un atto di ospitalità, di ascolto, di reincarnazione dell’altro dentro di noi.

Una politica delle anime migranti non presuppone la fissità di un'origine, ma l’apertura radicale all’esperienza dell’altro. È in questa apertura — tra il riso di Molly Bloom, la vertigine di Nietzsche, la molteplicità di Deleuze, la diaspora secondo Mbembe — che forse possiamo ancora oggi sentire, anche solo per un istante, la voce dell’anima che trasmigra: non per salvare sé stessa, ma per reinventare il mondo.