venerdì 4 luglio 2025

"Cribol" di Giovanni Comisso: Poetica della marginalità e scrittura dell’irriducibile

Tra le opere più singolari — e meno indagate — della letteratura italiana del secondo Novecento, Cribol (1964) di Giovanni Comisso occupa una posizione liminale e ambigua, sottratta a classificazioni canoniche e sistemazioni critico-editoriali. Riedito da La nave di Teseo nella collana “I libri di Comisso”, il testo rappresenta un’anomalia tanto formale quanto tematica nel corpus dell’autore veneto. Il romanzo — ammesso che sia legittimo definirlo tale — sfugge alla logica dell’intreccio, si sottrae alla retorica del compimento narrativo, e si offre piuttosto come un'esperienza discontinua, perturbante, episodica, in cui la materia autobiografica si intreccia alla finzione, la dimensione corporea al rimosso sociale, l’osservazione antropologica alla scrittura lirico-frammentaria.

Pubblicato in un’Italia ancora rigidamente codificata da modelli morali pre-1968, ma già attraversata dalle tensioni culturali di una modernità incipiente, Cribol può essere letto come una forma di testimonianza obliqua e resistente. La marginalità, qui, non è semplicemente un tema, ma una categoria epistemologica e narrativa. L’alterità sessuale, l’irregolarità esistenziale, l’oscillazione tra solitudine e desiderio, diventano elementi strutturali della forma e del contenuto. Il protagonista — figura sfumata, alter ego dell’autore, ma mai del tutto identificabile — si muove in un paesaggio domestico eppure inquietante: quello della provincia italiana, luogo della repressione sistemica, della religione ridotta a culto punitivo, dell’identità imposta come norma.

La scrittura di Comisso in questo testo si fa insieme corpo e linguaggio. Non è un caso che la dimensione sensoriale e carnale occupi uno spazio centrale nella narrazione: il corpo desiderante, marginale, vulnerabile, è ciò attraverso cui la realtà viene percepita, misurata e restituita. In questo senso, Cribol prefigura alcuni tratti della letteratura queer contemporanea, pur mantenendosi estraneo a ogni impianto teorico o dichiaratamente rivendicativo. La corporeità, in Comisso, non è rappresentata nei termini di una poetica identitaria, bensì come sede instabile dell’esperienza, come punto di tensione fra interiorità e mondo. L’opera si configura così come uno spazio in cui la soggettività emerge non per autorappresentazione, ma per attrito, per contatto con l’ostilità dell’ambiente circostante.

L’intreccio inesistente, la paratassi episodica, la composizione ellittica rendono Cribol un’opera che mette in discussione la forma-romanzo nella sua dimensione borghese e lineare. In tal senso, l’opera può essere accostata alle esperienze più radicali della modernità letteraria europea, sebbene Comisso mantenga una cifra stilistica tutta sua, caratterizzata da un’ironia malinconica, da un lirismo sobrio e da una sorvegliata disadorna eleganza. Il tono narrativo non è mai enfatico; anzi, è spesso dimesso, defilato, e proprio per questo capace di una forza singolare. La scrittura non cerca l’effetto, ma la risonanza; non la rappresentazione del trauma, ma la sua stilizzazione laterale, insinuante, inafferrabile.

Nel panorama della letteratura italiana del Novecento, Comisso rappresenta una figura atipica. La critica lo ha talvolta inserito a forza nei circuiti dannunziani o lo ha marginalizzato come autore “minore”, trascurando la complessità di una voce che ha saputo costruire un proprio spazio espressivo, fuori dalle grandi narrazioni novecentesche, ma proprio per questo in grado di attraversarle tutte trasversalmente. Alberto Arbasino fu tra i pochi a riconoscerne la centralità sotterranea, includendolo nella sua genealogia personale degli scrittori italiani: un albero letterario in cui Comisso appare come figura avunculare, capace di trasmettere una lezione non accademica, ma vitale, fondata sull’esempio più che sulla teoria, sull’esperienza più che sulla costruzione ideologica.

Nel novero dei “padri irregolari” della letteratura italiana, Comisso occupa così un posto particolare: né militante né engagé, ma profondamente politico proprio nella scelta della marginalità, nella costante messa in discussione delle gerarchie del potere simbolico e narrativo. Cribol è, in tal senso, l’opera che meglio restituisce questa postura: non soltanto perché vi si condensano alcune delle sue ossessioni tematiche — il rifiuto dell’ipocrisia, la fascinazione per la sensualità, lo scandaglio della provincia repressiva —, ma anche perché il testo, nella sua architettura irregolare e nella sua lingua priva di ornamenti superflui, restituisce pienamente il gesto di un autore che rifiuta la convenzionalità estetica per affermare una propria etica dello sguardo.

L’Italia che Comisso descrive è un luogo dell’anacronismo, ma anche della sopravvivenza. In essa convivono la ferocia del dogma e la tenerezza degli affetti silenziosi; il conformismo brutale e il gesto intimo della trasgressione; la colpa e il desiderio. Il protagonista di Cribol è un soggetto in fuga: non per evadere, ma per non diventare complice. Il suo nomadismo interiore corrisponde a una forma di esistenza resistente. E se l’opera sfugge alla logica della compiutezza, è perché lo stesso Comisso ha fatto del frammento — della scena più che del quadro — la propria cifra stilistica.

La marginalità non è, qui, un’esclusione subita, ma una condizione assunta. È il luogo in cui è ancora possibile dire la verità del corpo, dell’amore, della solitudine. E proprio per questo, Cribol si configura come un testo anticipatore: capace di attraversare i propri limiti storici per entrare in dialogo con le sensibilità più recenti. La sua inattualità è, paradossalmente, la sua modernità più profonda.

Emblematica, in questo senso, la breve autobiografia che Comisso inviò nel 1927 al direttore del periodico L’Assalto, Giorgio Pini. In essa, lo scrittore dichiarava: «Mi ero laureato a Siena in legge, ma gli articoli del codice mi pesavano come condanne. Cercavo di scoprirvi tra le righe motivi poetici. Trovavo che la riga dell’articolo 30 del c.p. “Ogni giorno di pena è di 24 ore” corrispondeva a questo verso del Petrarca: “Tutto il dì piango”.» Tale affermazione può essere assunta come chiave di lettura non solo dell’intera opera di Comisso, ma in particolare di Cribol, testo che elegge la marginalità poetica come contropotere simbolico, come spazio da cui interrogare e sovvertire le coordinate normative della narrazione.

Il rifiuto della norma — giuridica, morale, letteraria — non si traduce in un’apologia dell’irregolarità, bensì in un tentativo di sottrarsi alla coercizione simbolica. La scrittura comissiana non si presenta come evasione, ma come resistenza. E questa resistenza si esercita proprio nel rifiuto della forma chiusa, del discorso compiuto, della struttura riconoscibile. In Cribol, ciò che rimane non è l’intreccio, ma il gesto; non il destino, ma la traiettoria. L’opera si fa luogo di passaggio, di attraversamento, di esposizione. Espone un soggetto che non cerca giustificazioni, che non ambisce a farsi rappresentante, ma che si limita a esistere nel testo con una radicale trasparenza.

In questo senso, Cribol è più di un’opera letteraria: è un atto. Un atto di fede nella scrittura come spazio di verità, come terreno in cui l’esistenza può affiorare senza doversi difendere. Ed è anche — forse soprattutto — un atto di coraggio, un’affermazione della possibilità di narrare ciò che resta normalmente escluso dai grandi discorsi: il desiderio, l’incertezza, la marginalità.

Nel rileggerlo oggi, alla luce delle trasformazioni culturali e dei nuovi paradigmi critici, Cribol si impone come un testo che non solo resiste al tempo, ma lo interroga. Un testo che si offre come laboratorio di scrittura e di soggettività, come spazio liminale in cui l’io può parlare in prima persona senza essere vincolato da modelli di rappresentazione dominanti. 

Un testo che, proprio perché rifiuta la perfezione, può ancora essere letto come esempio vivo di una letteratura che non ha smesso di credere alla propria capacità di ferire, di commuovere, di interrogare.

In questo senso, Cribol non è soltanto un’opera da riscoprire, ma un dispositivo di lettura della realtà, capace di decostruire le finzioni del potere e della rappresentazione. Il rifiuto della centralità, del logos dominante, dell’identità normativa, non è mai urlato, e proprio per questo si rivela più incisivo. Comisso adotta una scrittura che si sottrae programmaticamente alla monumentalità: ogni pagina è animata da una volontà di verità intima, che si manifesta attraverso l’elisione, la digressione, la sospensione. Il vuoto, il non detto, l’interstizio, diventano figure strutturanti dell’opera.

Tale scrittura può essere accostata — per analogia metodologica più che per prossimità tematica — ad alcune esperienze della letteratura francese di area marginale o post-esistenzialista (si pensi, ad esempio, a Jean Genet), così come a certe poetiche dell’interruzione e del desiderio che attraversano l’opera di Pier Paolo Pasolini o Sandro Penna. Ma, a differenza di questi autori, Comisso non elabora mai un discorso apertamente politico o contestativo: piuttosto, affida alla mimesi imperfetta del vissuto una funzione eversiva, di per sé sufficiente a incrinare la superficie della norma.

La lingua stessa di Cribol sfugge ai registri convenzionali della narrativa del tempo. È una lingua che si fa sintassi del desiderio, articolazione intermittente del corpo e della memoria. Lo stile è sorvegliato, prosciugato, ma al tempo stesso irregolare, a tratti trasognato, spesso segnato da improvvisi cortocircuiti tra discorso oggettivo e proiezione soggettiva. La narrazione procede per fotogrammi, piuttosto che per capitoli; si affida alla giustapposizione di scene più che allo sviluppo lineare di eventi. È, a tutti gli effetti, una scrittura della discontinuità, ma non dell’incoerenza: ogni frammento contiene in sé la cifra profonda dell’intera opera, ogni episodio rifrange un’intera antropologia del margine.

La centralità del corpo — tematizzato non in termini meramente erotici, bensì come campo di tensioni, proiezioni e censure — è un altro elemento che rende il testo di Comisso anticipatore di molte riflessioni della teoria contemporanea. Nella sua esemplarità implicita, il corpo di Cribol è corpo queer, non perché dichiaratamente tale, ma perché irriducibile ai codici della binarietà e della funzione sociale. Esso abita spazi interstiziali, interroga le soglie, si fa superficie esposta. In questa dimensione liminale, il personaggio e l’autore sembrano fondersi: entrambi mossi da un bisogno ineludibile di libertà, che è innanzitutto libertà linguistica, prima ancora che sessuale o sociale.

La marginalità diviene allora categoria epistemologica: non luogo dell’esclusione, ma dispositivo di conoscenza. Ecco perché la scrittura di Comisso non è semplicemente “fuori” dal canone — in senso geografico, tematico, stilistico — ma è piuttosto “eccentrica” nel senso più tecnico del termine: situata su un altro asse, su una diversa traiettoria. E ciò che Cribol ci restituisce è una soggettività in perpetuo disassamento, in costante fuori-fuoco, la cui identità non è mai essenza, ma posizione. Posizione fragile, precaria, ma proprio per questo ricca di potenzialità conoscitive.

L’intuizione di Arbasino — che vide in Comisso una figura genealogica, un “padre irregolare” della letteratura italiana contemporanea — trova in Cribol la sua più compiuta conferma. In questo libro non troviamo modelli, ma gesti; non dogmi, ma domande. È la scrittura di chi sa che non esistono categorie definitive, e che la verità non si afferma, ma si avvicina. L’opera si pone così come contro-narrazione silenziosa ma radicale di un Novecento troppo spesso raccontato attraverso i soli paradigmi del realismo, dell’impegno, del trauma storico.

Cribol, invece, racconta ciò che resta fuori da quella storia ufficiale: i margini, le ombre, le vite non riconciliate. Non per costruire un nuovo centro, ma per mostrare che ogni centro è frutto di esclusione. L’opera non vuole rappresentare una comunità, ma attestare una solitudine. Ed è in questa solitudine che si trova — paradossalmente — il gesto politico più autentico di Comisso: quello di affermare, con ostinazione e senza retorica, l’irripetibilità dell’esperienza.

Il silenzio critico che ha accompagnato per decenni questo libro può essere interpretato, oggi, non soltanto come una rimozione culturale, ma come un sintomo. Cribol è un testo che mette a disagio, non si lascia assimilare. Non propone né un’estetica del dolore, né una poetica dell’integrazione. La sua forza consiste, al contrario, nell’irriducibilità. È un testo che si legge con lentezza, che richiede una postura diversa, un’attenzione non convenzionale. Ma proprio per questo si rivela necessario.

In conclusione, leggere Cribol oggi significa riaprire un dialogo con una tradizione sotterranea della letteratura italiana, che non ha avuto spazio nei manuali scolastici né nelle antologie universitarie, ma che ha tracciato percorsi decisivi per comprendere le tensioni profonde della modernità. Comisso, in questo testo, si fa testimone e corpo scrivente di un’Italia segreta, laterale, intima, e per questo tanto più vera. Un’Italia attraversata dal desiderio e dalla colpa, dalla speranza e dalla rinuncia, dalla fede e dalla stanchezza. Ma anche da un ostinato bisogno di verità.

E se Cribol ha resistito finora all’oblio non è per effetto di una tradizione culturale forte, ma per la tenacia di un’intensità che, a distanza di anni, continua a toccarci. Leggerlo significa non solo riscoprire Comisso, ma riscoprire una possibilità altra della letteratura: come gesto di libertà, come testimonianza di esistenza, come forma del coraggio.