Nato a Benevento nel 1944, Gnerre aveva attraversato da testimone partecipe tutte le fasi più dense e complesse dell’Italia repubblicana. Dalla provincia del Sud agli anni della formazione a Roma, si era immerso nei mondi della cultura con una curiosità instancabile e una sete di giustizia che resterà uno dei tratti più evidenti del suo lascito. Non era un polemista da salotto: era un uomo che studiava, che leggeva, che insegnava e che soprattutto ascoltava. L’insegnamento è stato per lui non una parentesi ma una scelta di vita, un’estensione naturale del suo modo di intendere la cultura: come pratica condivisa, come possibilità di costruire coscienza critica, come modo per stare nel mondo con più consapevolezza. È stato docente in scuole romane, dove molti suoi ex studenti lo ricordano con gratitudine – non per le nozioni, ma per la luce con cui sapeva trasmettere il dubbio, la complessità, l’empatia.
È stato tra i primissimi in Italia a interrogarsi in modo sistematico e rigoroso sulla presenza e sulla rappresentazione dell’omosessualità nella letteratura del Novecento. Quando ancora nel dibattito pubblico era quasi tabù anche solo nominarla, Gnerre sceglieva di studiarla, di storicizzarla, di raccontarne le forme, le voci, le metamorfosi. “L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano” – pubblicato nel 2000 e più volte ristampato – è uno di quei libri che hanno aperto una strada dove prima c’era solo silenzio. Ma più che una strada, ha tracciato una mappa: un atlante del rimosso, un’indagine che coniugava acutezza filologica e consapevolezza politica. In quel libro, come in molti altri suoi saggi e articoli, Gnerre dimostrava che la letteratura può (e deve) essere uno strumento di liberazione. E che la visibilità non è una parola astratta, ma un processo che passa anche dai testi, dai personaggi, dalle trame, da ciò che viene detto e da ciò che viene taciuto.
Ma sarebbe ingiusto ridurre Francesco Gnerre alla sola dimensione saggistica. È stato anche un romanziere delicato, capace di raccontare l’identità e il desiderio, le ferite e le conquiste, con una scrittura nitida, empatica, mai compiaciuta. I suoi romanzi – tra cui “Una storia sbagliata”, “La casa del padre” e “Il gioco del mondo” – sono opere intime e necessarie, in cui il privato si intreccia alla storia collettiva, e il racconto dell’omosessualità non è mai ridotto a etichetta tematica ma vissuto nella sua complessità umana. Personaggi fragili, contraddittori, pieni di vita e di fallimenti: come tutti noi. Nei suoi libri, Gnerre ha saputo raccontare l’amore omosessuale senza retorica né indulgenza, con una verità fatta di pudore, di carne e di silenzio. Nessuna posa trasgressiva, nessuna rivendicazione gridata: solo la forza di esserci, e di raccontare ciò che esiste, con onestà.
La sua attività intellettuale è sempre stata accompagnata da una profonda militanza culturale. Gnerre ha collaborato con la rivista Babilonia fin dagli anni ’80, contribuendo a renderla un luogo di confronto e di libertà per generazioni di persone LGBTQ+. Ha partecipato a convegni, dibattiti, corsi universitari e seminari sempre con quell’umiltà propria di chi sa che ogni intervento è anche un atto di responsabilità. Non ha mai smesso di studiare, ma nemmeno di condividere ciò che studiava. Era un intellettuale pubblico nel senso più alto e più raro del termine. Non cercava visibilità, ma produceva senso. Non parlava per ottenere consensi, ma per creare spazi di pensiero.
Chi lo ha conosciuto personalmente ricorda un uomo gentile, ironico, coltissimo ma mai ostentatamente tale. Con una rara capacità di entrare in sintonia con l’altro, anche quando le posizioni erano divergenti. In un mondo dove il dibattito si riduce spesso a polarizzazione o a invettiva, Gnerre sapeva mantenere quella calma interiore che è il frutto di una lunga fedeltà a se stessi. Il suo sguardo mite, il sorriso leggero, le mani spesso intrecciate, i gesti misurati: piccoli tratti che restano nella memoria di chi ha avuto il privilegio di sedere accanto a lui, di ascoltarlo, di condividere una discussione o una cena.
La sua morte lascia un vuoto che è anche un compito. Non solo per chi lo ha amato e stimato, ma per tutte e tutti noi che crediamo nel valore della parola e nella funzione emancipatrice della cultura. Il suo lavoro, la sua opera, la sua voce continueranno a parlarci – nei suoi libri, nei suoi articoli, nei suoi interventi, in ogni frase che ha scritto e che ci ha insegnato a leggere il mondo con occhi più attenti, più liberi, più umani.