L’intervento di Colombo, uno dei traduttori più raffinati e versatili della narrativa anglofona contemporanea, non è da considerarsi un semplice aggiornamento lessicale, né una modernizzazione di superficie: è piuttosto un tentativo consapevole e ambizioso di restituire alla lingua italiana la complessità tonale, l’ambiguità emotiva, il ritmo ipersensibile del dettato salingeriano. A differenza di molte edizioni precedenti, dove le scelte stilistiche sembravano voler normalizzare o imbrigliare la voce dell’autore entro canoni espressivi più prevedibili, Colombo riesce a far emergere con rara fedeltà l’inquietudine latente, l’ironia assorta, la spiritualità nervosa che attraversano ogni pagina, ogni battuta di dialogo, ogni silenzio.
La struttura dei volumi ripubblicati offre una visione d’insieme significativa: Nove racconti, con la sua architettura frammentaria e sottesa da una sottile coerenza psicologica, rappresenta una sorta di atlante dell’inquietudine e del disincanto americano; Franny e Zooey, invece, intensifica il tono riflessivo e claustrofobico del teatro familiare, portando in scena il disagio esistenziale e il tentativo di redenzione spirituale di due giovani appartenenti alla genìa dei Glass, famiglia emblematica della produzione di Salinger; infine, Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: introduzione agisce come una stratificazione metanarrativa, in cui il racconto si fa commento del racconto, e l’autore si ritrae fino a lasciare che sia la memoria, lo stile e la fede nel linguaggio a parlare per lui.
Un aspetto centrale della poetica salingeriana, che emerge con rinnovata chiarezza nella nuova traduzione, è la tensione irrisolta tra il mondo e il rifiuto del mondo. Questa dialettica si esprime attraverso personaggi che sono insieme saggi e nevrotici, disillusi e purissimi, portatori di un’intelligenza ipersensibile che, più che decifrare la realtà, tende a dissolverla o trasfigurarla. I fratelli Glass — Seymour, Buddy, Zooey, Franny — non sono soltanto figure narrative: sono dispositivi simbolici, rappresentazioni di una coscienza che si interroga incessantemente sul senso della vita, della parola, della morte, senza mai concedersi il conforto dell’evidenza. Nei racconti più celebri — come Un giorno ideale per i pescibanana o Zio Wiggily nel Connecticut — questa postura esistenziale si traduce in una scrittura che è al tempo stesso iperrealista e astratta, legata ai dettagli minimi del quotidiano ma perennemente tesa verso l’assoluto.
In questo contesto si inserisce anche la celebre epigrafe zen che apre i Nove racconti: “Sappiamo il suono che fanno due mani quando battono, ma qual è il suono di una sola mano?” Il kōan, nella tradizione buddhista, non va interpretato razionalmente, ma esperito nella sua capacità di scardinare le categorie logiche dell’intelletto. Inserito come chiave d’accesso all’universo salingeriano, il kōan agisce come una soglia di senso: ci dice, implicitamente, che ciò che stiamo per leggere non sarà un realismo mimetico né un naturalismo morale, ma un insieme di parabole inquiete, di apparizioni linguistiche, di dialoghi che puntano all’illuminazione e trovano invece spesso solo un più profondo smarrimento.
La scelta di rilanciare questi testi proprio oggi non è affatto neutra. In un’epoca dominata dalla narrazione autobiografica, dalla confessione continua, dalla messa in scena dell’io in ogni forma possibile, Salinger offre un’alternativa etica e poetica radicale. La sua ritrosia leggendaria, la sua fuga dal mondo editoriale, il suo silenzio finale — durato decenni — non sono semplici tratti caratteriali o gesti di eccentricità, ma parti integranti della sua visione dell’arte come esercizio spirituale, come ascesi. Anche per questo, leggere Salinger oggi significa accettare una sfida: quella di un testo che non si offre facilmente, che chiede una sospensione dell’ego, una disponibilità al silenzio, un abbandono di ogni urgenza comunicativa.
Eppure, nonostante la profondità teologica e filosofica della sua scrittura, Salinger resta un autore popolare, capace di parlare a lettori di ogni generazione. Forse perché i suoi personaggi incarnano tensioni universali: il disagio dell’adolescenza, la vergogna di fronte alla superficialità del mondo, il bisogno di autenticità, il fascino (e il terrore) del pensiero religioso. Così capita spesso che chi abbia letto Il giovane Holden in gioventù, lo ricordi in modo impreciso, magari dicendo: “Sì, l’ho letto, ma non mi ricordo se mi fosse piaciuto o no.” È una frase che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà contiene una verità profonda: i libri di Salinger non sono pensati per piacere o non piacere. Sono esperienze interiori, stati mentali, luoghi di transizione. Si leggono, si dimenticano, si rileggono, e ogni volta sembrano dire qualcosa di diverso. Proprio come i grandi testi sapienziali, non ci appartengono: siamo noi a doverci, di volta in volta, rendere degni di ascoltarne il silenzio.
In definitiva, queste nuove traduzioni non sono solo un’occasione editoriale, ma un’operazione culturale che restituisce voce e corpo a un autore che, per molti, è rimasto un’icona sbiadita dell’adolescenza. Riscoprirlo oggi, nella sua interezza e con una lingua che ne rispetta le imperfezioni, le sospensioni, i fremiti interiori, significa anche riflettere su che cosa significhi ancora oggi credere nella letteratura. O, per dirla con una sola mano che batte: riconoscere nel silenzio il luogo più pieno del suono.
Questa operazione di riproposta editoriale, avvenuta in un momento storico in cui la centralità del testo letterario sembra continuamente messa in discussione dall’istantaneità mediatica e dalla pressione del contenuto digitale, si carica di un valore emblematico. Non si tratta semplicemente di rendere nuovamente disponibili tre volumi ormai difficilmente reperibili o di restituire visibilità a un autore che, in Italia, ha conosciuto fasi alterne di fortuna editoriale; si tratta, piuttosto, di riattivare una relazione interpretativa profonda, che investe tanto il lavoro del traduttore quanto l’esperienza del lettore. In questo senso, la cura e l’attenzione che Matteo Colombo ha dedicato alla restituzione della voce salingeriana non sono un dato meramente stilistico, ma vanno lette come un atto critico consapevole, come una presa di posizione teorica sull’idea stessa di “traduzione letteraria”.
Nel passaggio da una lingua all’altra, ogni testo subisce una forma di transustanziazione linguistica, semantica, persino ritmica. La lingua di Salinger è costellata di tratti idiosincratici, di inflessioni dialogiche, di espressioni idiomatiche che sfuggono alla classificazione: si tratta di una scrittura che vive, respira, si interrompe, cede, si sposta. Tradurre Salinger significa, quindi, affrontare un testo che non ha mai una superficie liscia. Ogni frase è un campo minato di toni affettivi: ironia, malinconia, rancore, entusiasmo mistico e disprezzo mondano coesistono nel giro di poche righe. Colombo riesce a evitare due trappole comuni: da un lato, la tentazione di “italianizzare” eccessivamente, rendendo i personaggi espressioni di un parlato stereotipato; dall’altro, il rischio opposto, quello di appiattire le sfumature nell’ambizione di fedeltà letterale. Il risultato è una lingua che suona vera, attuale, ma non contemporaneista, cioè non piegata a una moda linguistica momentanea.
Questo equilibrio, difficile da raggiungere, si rivela fondamentale soprattutto nei testi dedicati alla famiglia Glass, dove il linguaggio è spesso filtro e ostacolo al tempo stesso, luogo in cui il trauma si maschera da cultura, e il dolore prende la forma della citazione dotta o del sarcasmo affilato. Franny e Zooey, in particolare, è un testo delicatissimo da rendere in italiano: qui, la superficie del dialogo è attraversata da una densità intertestuale e affettiva che richiede non solo competenza, ma una vera empatia traduttiva. Colombo restituisce con misura il tono affannato, quasi claustrofobico, con cui i due fratelli Glass si confrontano nel bagno di casa: non c’è scampo, in quella stanza, e il linguaggio diventa un campo di battaglia tra disperazione e grazia. In questo senso, si può dire che Franny e Zooey sia un dialogo mancato che tenta di diventare preghiera. O forse una preghiera — il famoso “esicasmo” orientale, che Franny recita in silenzio — che tenta, fallendo, di farsi dialogo umano.
È in questo spazio sottile tra voce e silenzio, tra misticismo e nevrosi, che si colloca la specificità di Salinger come scrittore. Troppo spirituale per il realismo, troppo ossessivo per la mistica pura, troppo colto per la letteratura giovanile, troppo giovane per l’allegoria. È questa ambivalenza che lo rende ancora oggi un autore irrisolto, e proprio per questo vivo. Le sue pagine non chiudono, non suggellano: lasciano domande aperte. Non si offrono a una lettura pacificata, ma obbligano a sostare nella soglia. Forse è per questo che alcuni lettori — molti lettori — tornano a Salinger anni dopo averlo incontrato la prima volta. E, spesso, con una frase esitante: “Non ricordo se mi fosse piaciuto.” È un’espressione che, se letta bene, dice molto: indica che l’esperienza del testo non è stata assimilata del tutto, che qualcosa è rimasto sospeso. È come se Salinger non parlasse alla memoria razionale, ma a una parte più oscura, obliqua, della coscienza — quella dove non si ricordano i contenuti, ma le sensazioni. Dove un racconto può lasciare un’impronta senza aver mai lasciato un’opinione.
All’interno del contesto editoriale italiano, questa ripubblicazione acquista inoltre un valore emblematico, poiché si inserisce in una stagione in cui si è risvegliato un interesse verso le nuove traduzioni di classici del Novecento americano. Pensiamo, per fare un esempio, alla nuova traduzione di Il grande Gatsby curata da Franca Cavagnoli, o al rinnovato interesse per autori come Flannery O’Connor, Shirley Jackson, Carson McCullers. In questo scenario, il ritorno di Salinger si pone come uno degli snodi più delicati e complessi, proprio per la sua natura di autore “postumo in vita”, il cui silenzio è diventato parte integrante della sua identità culturale. Riportarlo alla luce significa, in un certo senso, sottrarlo a quella mitologia del recluso e restituirlo al lettore come un autore vivo, problematico, imperfetto, ma ancora necessario.
Il gesto editoriale che ripropone Nove racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri in nuove traduzioni non è soltanto un’occasione per rileggere Salinger, ma un banco di prova per il lettore contemporaneo. Quanto siamo ancora capaci di ascoltare una voce che parla in modo esitante, che non urla ma sussurra, che non offre risposte ma solo domande sempre più profonde? Quanto siamo disponibili a confrontarci con una scrittura che non gratifica, che non si concede, che, come la mano che batte da sola nel kōan zen, produce un suono che esiste solo se lo si è disposti ad ascoltare davvero?
Forse, per capire Salinger, occorre disimparare qualcosa. Occorre mettere da parte l’urgenza del significato, la fretta dell’interpretazione, il desiderio di riconoscersi subito nei personaggi. Occorre leggere in punta di piedi. E accettare che a volte la letteratura non sia lì per intrattenerci o per rassicurarci, ma per farci sentire, anche solo per un attimo, il suono sottile e straniante dell’essere. Un suono che non si lascia spiegare, ma solo attraversare. Come quello di una mano sola, che batte nel vuoto.